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Fuoco o Ghiaccio? (13)
Nei pressi era la
nera colombaia neoclassica dove Mr Tod usava addestrare i suoi uccelli
prediletti a imitare le danze dei dervisci sufi in trance. In tali occasioni
egli portava stivali di canapa e di pelle d’alce non conciata e un Hubertusmantel di panno loden grigio chiaro. Era
un uomo atletico sui cinquantacinque anni... ma non è mia intenzione descrivere
il suo aspetto in queste note. Tutte le pareti Interne della sua casa erano
dipinte a Tempera color avorio. Le imposte erano grigie; non c’erano tende. L’atrio
era illuminato da un lampadario svedese a gocciole d’ambra anziché di
cristallo. Il pavimento era un mosaico di pietruzze di diaspro e di calcedonio,
provenienti dai ghiaioni del vulcano. In mostra su un tavolo a cavalletti
c’erano due schioppi Purdey e un paio di portadispacci napoleonici di marocchino
verde, usati adesso l’uno per le cartucce, l’altro per le mosche artificiali da
trota. Intorno alle pareti erano disposti en trophée canne da pesca, raffi e l’attrezzatura di Mr Tod per tirar d’arco:
un arco di legno di tasso fabbricato nel 1788 per lo Chevalier de Monville, un
arco biriflesso mongolo e un bersaglio samurai dei Muromachi. Un paio di
piccozze austriache erano incrociate sullo zaino più leggero che si possa
immaginare, ricavato da strisce di vescica di foca e fissato a un’armatura di
betulla laminata. La cucina e il bagno erano puramente funzionali; unica traccia
di lusso un servizio di vasetti da toletta di porfido imperiale con il
coperchio d’argento. A parte alcuni armadi a muro, il resto della casa era
un’unica stanza, riscaldata da una stufa Rostrand di maiolica bianca. Il
pavimento era un parquet di pino levigato. Il tappeto era tibetano e azzurro. All’estremità
est della stanza c’era un paravento rivestito di tapa hawaiana di un
pallidissimo arancione, e dietro ad esso il letto da campo metallico del
maresciallo Ney, con le sue tende originali di taffetà verde tiglio. Sul retro
del paravento erano appesi i pochi acquerelli e disegni, superstiti di una
collezione ben più vasta, per i quali Mr Tod non nutriva adesso un’assoluta
ripugnanza.
C’erano fra di essi: Gli stendardi di crine di
cavallo di Solimano il Magnifico del disegnatore tedesco Melchior Lorch; La meccanica dell’ala di
un’aquila di
Jacopo Ligozzi; la miniatura di una sterna artica fatta da Mansur per
l’imperatore Giahānghīr; un abbozzo, poche pennellate, della cava di Bibémus;
ghiacci galleggianti di Caspar David Friedrich; il letto sfatto di Delacroix; e
uno dei «cominciamenti di colore» di Turner, due nuvole cremisi in un cielo
dorato. A parte uno scrittoio da viaggio del barone Vivant Denon e una chaise de camp d’acciaio, il mobilio della stanza
era di poco conto. Mr Tod diceva di detestare ogni mobile che non stesse sul
basto di un mulo. C’erano tuttavia due poltrone a origlieri con fodere di lino senza
fronzoli. E su tre tavoli a tempera grigia era disposta la collezione di
oggetti rari che Mr Tod, per un processo di eliminazione e per le esigenze di
viaggio, aveva ridotto allo scarno essenziale. In nessuna delle opere d’arte si
scorgeva l’immagine umana. Gli inventari sono una lettura tediosa; mi limiterò
quindi a elencare un fang-i
Shang di bronzo
con la patina «a buccia di melone»; uno specchio magico di Norimberga; un
piatto azteco con un fiore purpureo; il reliquiario di cristallo di uno stupa
del Gandhara; un bezoàr montato in oro; un flauto di giada; una cintura di
wampum; un falco Horus della prima dinastia, di granito rosa; e certi monili
eschimesi, in avorio di tricheco, con figure di animali che per quanto
stilizzati sembravano respirare. Devo tuttavia segnalare tre arnesi da taglio,
poiché erano il tema di un saggio di Maximilian Todd, Die Ästhetik der Messerschärfe,
pubblicato a Jena nel 1941, in cui egli sosteneva che tutte le armi sono artigli o canini
artificiali, e danno a chi le usa il piacere noto ai carnivori quando sbranano la
carne viva.
Questi arnesi erano: 1. Un’azza acheuleana di selce proveniente
dalle ghiaie della Senna, con l’attrattiva supplementare di una montatura Louis
Quinze in bronzo dorato e la dedica ‘Pour le Roi’. 2. Un pugnale germanico
dell’Età del Bronzo, trovato dal padre di Mr Tod nello scavo di un tumulo a
Ückermünde, sul Baltico. 3. Una lama di spada proveniente dalla collezione del
suo amico e maestro Ernst Grünwald, datata 1279 e firmata da Toshiru
Yoshimitsu, il più grande spadaio del Giappone medievale. (Un segno sulla lama
indicava che la spada aveva eseguito felicemente, su un criminale, il movimento
detto tai, un colpo dal basso in alto che
tronca di netto il corpo dall’anca destra alla spalla sinistra). Né ometterò
una descrizione di tre altri pezzi della stessa collezione Grünwald: una tazza
da tè di Kōetsu intitolata Montagne
in inverno; una
scatola di scorza di betulla intrecciata della Tribù d’Oro della Manciuria; e
un blocco di pietra blu-nera con segni verdi e l’iscrizione: ‘Questa pietra d’inchiostro
con Occhi Morti proviene dal Vecchio Pozzo della Rupe Inferiore di Tuan Hsi e
appartenne al pittore Mi Fei’. Nella scatola di scorza Mr Tod custodiva i suoi due beni più cari:
una calligrafia del maestro zen Sen Sotan, con la massima: ‘L’uomo in origine
non possiede nulla’; e un rotolo di paesaggio dello stesso Mi Fei – pittore di
montagne simili a nuvole e di nuvole simili a montagne, ubriacone, petromane, intenditore
di pietre d’inchiostro, odiatore degli animali domestici, che errava per i
monti portando sempre con sé la sua inestimabile collezione d’arte. Le pareti
della stanza erano nude; c’era soltanto, in cornice, una calligrafia turca su
foglia d’oro, con un verso di Rūmī (Mathnawī, VI, 723): ‘Essere un morto che cammina, uno che è morto prima di
morire’.
La biblioteca di Mr
Tod – almeno, la sua parte visibile – non era una biblioteca nel senso corrente
ma una raccolta di testi che avevano per lui un significato speciale. Erano
legati in carta grigia e custoditi in una cassetta da viaggio di zigrino. Li elencherò
nell’ordine in cui erano disposti, perché quest’ordine dà di per sé una certa
idea della personalità del proprietario: il trattato di Cassiano sull’accidia;
il poema irlandese antico La
capanna dell’eremita;
il saggio poetico di Hsien Yin Lung Sul vivere nelle montagne; un facsimile del De arte venandi cum avibus dell’imperatore Federico II; lo
scritto di Abu’l Fazl su Akbar e i suoi piccioni viaggiatori; le Notes on the Colour of Water
and Ice di John
Tyndall; L’ironia
delle cose di Hugo
von Hofmannsthal; Landor’s
Cottage di Poe; il
Pellegrinaggio
di Caino di
Wolfgang Hammerli; il poemetto in prosa di Baudelaire con il titolo inglese Anywhere out of this World!; e l’edizione 1840 dell’Étude sur les glaciers di Louis Agassiz, con l’appendice
di cromolitografie della Jungfrau e di altri ghiacciai svizzeri.
Dovrebbe essere
chiaro, anche per il lettore più sbadato, che Maximilian Tod sono io!
La mia storia è priva
di importanza.
Detesto le
confidenze. D’altronde, sono convinto che un uomo è la somma delle sue cose,
anche se alcuni fortunati sono la somma di un’assenza di cose. Qualche dato
biografico può tuttavia giovare a mettere le mie acquisizioni in una sequenza cronologica.
Sono nato il 13 marzo
1921 nel palazzo di granito dei miei avi americani a Bucksport, Maine. (La casa
conteneva un mediocre ritratto di Copley e una collezione di vasi attici che
neanche da bambino eccitavano la mia cupidigia). Mio padre era Caleb Saltonstall
Todd e mia madre Maria Gräfin Henkel von Trotschke, di Ückermünde, nella
Prussia orientale. I Todd di Bucksport dovevano la loro fortuna
all’esportazione di ghiaccio in India. I miei antenati tedeschi entrarono nella
storia in seguito alle invasioni mongole. Mio padre era un discepolo di Madison
Grant e citava di continuo Il
tramonto della grande razza di quell’autore. Studente universitario a Harvard dal 1910, lesse
e ingurgitò la filosofia razziale di Ernst Haeckel, i cui tentativi di spiegare
la storia alla luce di un crudo determinismo biologico sono un affronto alla
logica e al senso comune.
Nel 1912 Caleb Todd
andò per la prima volta in Germania, dove il bell’aspetto gli valse molte
conquiste. Il suo fascino celava una mente di eccezionale vacuità. A Harvard
aveva preso interesse all’archeologia, e la lettura dell’iperbolica cronologia
dell’Età del Bronzo germanica di Kossinna lo convinse che la razza ariana era
nata, spontaneamente, nella Brughiera di Lüneburg. Rimase in America per la
durata della guerra, ma nel 1919 tornò in Germania. Durante lo scavo del tumulo
nella tenuta dei von Trotschke conobbe mia madre e la sposò. Le estati della
mia infanzia si divisero tra il Maine e la vasta dimora neoclassica di
Ückermünde, col suo panorama di acquitrini e di cielo e il suo atrio di frigide
dee marmoree. Posso datare il mio entusiasmo per il ghiaccio azzurro da una visita,
nel 1930, alla Kunsthalle di Amburgo, dove vidi il capolavoro di Friedrich, Il naufragio della Speranza. Questa passione si rafforzò nel
1934, quando per la prima volta posai gli occhi sulle guglie e i camini del
ghiacciaio dell’Unter- Grindelwald. Nel giugno 1938 mia madre annegò in un
incidente di barca nel golfo di Botnia, causa la viltà e l’inettitudine di mio
padre come marinaio. Non lo rividi più. La mia istruzione era stata affidata a
precettori privati: di conseguenza ero in tutto e per tutto un autodidatta. Nel
maggio del 1937 pubblicai il mio primo saggio di storia dell’arte, sulla Battaglia di Alessandro di Altdorfer, della Pinacoteca di
Monaco. Alcuni mesi prima avevo comprato da un antiquario di Rue du Bac il
cavalletto metallico a rotelle su cui Napoleone si faceva portare il dipinto
nella stanza da bagno alla Malmaison. Tema del mio saggio era l’espressione
degli occhi di Dario, un misto di orrore e di amore, quando egli vede la lancia
di Alessandro puntata su di lui nell’infuriare della battaglia. Quando fu
dichiarata la guerra ero a Innsbruck, a prendere appunti per un articolo sulla
Wunderkammer dell’arciduca Ferdinando nel castello di Ambras. Sapevo che gli
Stati Uniti avrebbero combattuto a fianco degli Alleati, e corsi a Berlino. Grazie
alle aderenze di mio nonno diventai cittadino del Reich. Scelsi la Germania per
ragioni estetiche. La guerra era per me la suprema esperienza estetica
dell’uomo, e questo l’avevano capito soltanto i tedeschi e i giapponesi.
Soltanto loro capivano il carattere, la grana della guerra: combattere dall’altra
parte era impensabile. Non che io o i miei amici presumessimo di vincere. L’entusiasmo
isterico dell’Alto Comando non fu mai nostro. Combattevamo per ragioni
inesplicabili a quei parvenu opportunisti: per noi, bolscevismo e
nazionalsocialismo erano due facce di uno stesso fenomeno. Né combattevamo per la Patria. Combattevamo solo
per combattere.
…Combattevamo, in realtà,
per perdere…
Esteticamente,
perdere è sempre più sicuro.
A Berlino feci
amicizia con Ernst Grünwald, segretario dell’Associazione per l’amicizia
germano-nipponica. Egli aveva vissuto trent’anni in Giappone, dieci dei quali
nel monastero Daitokuji a Kyoto. In Occidente soltanto lui capiva la qualità artistica
che i giapponesi chiamano wabi.
Letteralmente, questa
parola vuol dire ‘povertà’, ma applicata a un’opera d’arte significa che la
vera bellezza, ‘la bellezza che si distacca da questo mondo’, deve fondarsi
sull’uso dei materiali più umili. Andai a vivere con Grünwald nella sua casa di
campagna presso Eberswalde. Quell’estate, inebriati dal profumo dei fiori tardivi
dei tigli, praticammo lo Zen tirando d’arco, mentre fuori dai cancelli rombavano
i carri armati diretti in Polonia. Nel dicembre 1940 entrai nel 24°
Panzerkorps; l’estate seguente invademmo l’Ucraina. Poco di voluttuario potei infilare
nel mio carro, ma riuscii a portare con me i miei Purdey, alcuni volumi di
Voltaire e la mia giacca da sera. Con l’amico Rainer von Hagenburg avevo
convenuto di assistere in panni civili alla prima serata dei balletti del
Bolscioi ribattezzato – uno spettacolo che, sapevamo, non avrebbe mai avuto
luogo. Nessun aspetto dell’invasione mi deluse: la bellezza della caccia agli
uccelli selvatici nelle paludi del Pripet; le vampate ossidriche dei
lanciafiamme; il lucore giallo della faccia di un mongolo morto; gli
altoparlanti sovietici che suonavano a tutto volume la marcia di Budënnyj su
campi di grano da tempo abbandonati; i volti tesi ma felici degli aristocratici
che ci accoglievano dopo ventiquattro anni di morte vivente.
Il 12 settembre 1942,
nell’attacco a Stalingrado, una pallottola mi colpì all’inguine. Steso su una
barella da campo, eliminai la ‘d’ finale dal mio cognome. Mi ripresi tuttavia dall’operazione.
Von Hagenburg recuperò persino il mio Voltaire e i miei Purdey. Tornai,
invalido, a Berlino. L’estate successiva mi trovò in Finlandia nella veste di esperto
in materia di frattura del ghiaccio. A Rovaniemi conobbi Vaino Mustanoja, uomo
di gusti mirabilmente affini ai miei. La sua descrizione dei ghiacciai
patagonici m’infiammò di desiderio per l’Estremo Sud. Invidiavo la sua
collezione di manufatti eschimesi. Mustanoja aveva costruito un padiglione
dorico nella foresta. Interno ed esterno erano dipinti di nero e stampinati di
lacrime argentee in memoria della stanza decorata dal regicida Saint- Just a
Reims. Là, alla luce delle notti bianche, tremolante fra le betulle, cenavamo
con salmone marinato, filetto di renna affumicato e frutti di rovo camemoro,
conversando inesauribilmente fino al mattino.
Là fui altresì
testimone della sua triste fine.
Ancora nel novembre
1944 il Führer andava importando colonne di porfido dalla Svezia, senza dubbio
con l’intento di usarle per un monumento a se stesso, e ignaro senza dubbio che
il porfido svedese non è un surrogato accettabile di quello egiziano. I suoi
geologi erano incapaci di scegliere pietre di buona qualità. I miei servigi
furono graditi. Partii per Stoccolma e portai con me i pezzi migliori della
collezione Grünwald, salvandoli da sicura distruzione. Tramite un intermediario
donai al principe ereditario una coppa a stelo appartenuta all’imperatore Hsüan
Tsang. Mi fu concesso asilo. La coppa non fu una gran perdita: era, a mio
parere, il solo errore di gusto di Grünwald. Nel 1945 diventai cittadino
argentino e sotto lo pseudonimo di Mills iniziai la mia carriera accademica
come glaciologo. In seguito tornai negli Stati Uniti, dove in università minori
misi insieme un portafoglio di titoli insignificanti. Cominciai a lavorare alla
mia ‘Tebaide raffinata’ nell’estate australe del 1947-48, ritenendo
inevitabile, a quell’epoca, una guerra nucleare nell’Emisfero Nord.
Di poi passai almeno
tre mesi all’anno nella mia valle, ma nel 1960, tra inflazione, costo dei
trasporti e pretese ricattatorie dei burocrati cileni e argentini, il capitale
che avevo collocato in banche svizzere si era molto assottigliato.
Conobbi Estelle
Neumann nel 1962. Stava ammirando, al Peabody Museum, una teca di fiori di
vetro. Mi disse di essere originaria di Trenton, New Jersey. Né Trenton né la
sua ammirazione per i fiori mi stupirono. Trovai in lei un miscuglio ideale di
talento e di incredibile stupidità.
Nella sua testa non penetrava
mai un pensiero originale; tuttavia, essa aveva la sagacia di appropriarsi di
ogni mio suggerimento come se fosse cosa sua. Ma i miei piani non hanno seguito
il loro corso. Scrivo queste note in una baracca di lamiera nel deserto di
Atacama. L’acqua mi sta finendo. Era mia intenzione stabilirmi per sempre nella
mia valle; l’ho lasciata all’altrui saccheggio. Ho lasciato il mio giovane
compagno. Ho lasciato le mie cose. Io, che con rigore beduino ho abolito la
forma umana da ogni mio possesso... io, che ho fatto di tutto per difendere la
mia retina dagli oltraggi visivi del XX secolo, ora sono anch’io preda di
allucinazioni.
Facce rosse di donna
mi sbirciano lascive. Umide labbra mi sbavano addosso.
Blocchi mostruosi di
colore mi soffocano. Je
dus voyager, distraire les enchantements assemblés dans mon cerveau.
…Un colore, in particolare, continua
a tormentarmi: l’arancione della giacca a vento di Estelle Neumann, un attimo prima
che le dessi la spinta…
(B. Chatwin)
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