giuliano

sabato 4 agosto 2018

SCIVOLO' SUL GHIACCIO (12)





















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Quando Estelle... (11)

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Fuoco o Ghiaccio? (13)













Nei pressi era la nera colombaia neoclassica dove Mr Tod usava addestrare i suoi uccelli prediletti a imitare le danze dei dervisci sufi in trance. In tali occasioni egli portava stivali di canapa e di pelle d’alce non conciata e un Hubertusmantel di panno loden grigio chiaro. Era un uomo atletico sui cinquantacinque anni... ma non è mia intenzione descrivere il suo aspetto in queste note. Tutte le pareti Interne della sua casa erano dipinte a Tempera color avorio. Le imposte erano grigie; non c’erano tende. L’atrio era illuminato da un lampadario svedese a gocciole d’ambra anziché di cristallo. Il pavimento era un mosaico di pietruzze di diaspro e di calcedonio, provenienti dai ghiaioni del vulcano. In mostra su un tavolo a cavalletti c’erano due schioppi Purdey e un paio di portadispacci napoleonici di marocchino verde, usati adesso l’uno per le cartucce, l’altro per le mosche artificiali da trota. Intorno alle pareti erano disposti en trophée canne da pesca, raffi e l’attrezzatura di Mr Tod per tirar d’arco: un arco di legno di tasso fabbricato nel 1788 per lo Chevalier de Monville, un arco biriflesso mongolo e un bersaglio samurai dei Muromachi. Un paio di piccozze austriache erano incrociate sullo zaino più leggero che si possa immaginare, ricavato da strisce di vescica di foca e fissato a un’armatura di betulla laminata. La cucina e il bagno erano puramente funzionali; unica traccia di lusso un servizio di vasetti da toletta di porfido imperiale con il coperchio d’argento. A parte alcuni armadi a muro, il resto della casa era un’unica stanza, riscaldata da una stufa Rostrand di maiolica bianca. Il pavimento era un parquet di pino levigato. Il tappeto era tibetano e azzurro. All’estremità est della stanza c’era un paravento rivestito di tapa hawaiana di un pallidissimo arancione, e dietro ad esso il letto da campo metallico del maresciallo Ney, con le sue tende originali di taffetà verde tiglio. Sul retro del paravento erano appesi i pochi acquerelli e disegni, superstiti di una collezione ben più vasta, per i quali Mr Tod non nutriva adesso un’assoluta ripugnanza.




C’erano fra di essi: Gli stendardi di crine di cavallo di Solimano il Magnifico del disegnatore tedesco Melchior Lorch; La meccanica dell’ala di un’aquila di Jacopo Ligozzi; la miniatura di una sterna artica fatta da Mansur per l’imperatore Giahānghīr; un abbozzo, poche pennellate, della cava di Bibémus; ghiacci galleggianti di Caspar David Friedrich; il letto sfatto di Delacroix; e uno dei «cominciamenti di colore» di Turner, due nuvole cremisi in un cielo dorato. A parte uno scrittoio da viaggio del barone Vivant Denon e una chaise de camp d’acciaio, il mobilio della stanza era di poco conto. Mr Tod diceva di detestare ogni mobile che non stesse sul basto di un mulo. C’erano tuttavia due poltrone a origlieri con fodere di lino senza fronzoli. E su tre tavoli a tempera grigia era disposta la collezione di oggetti rari che Mr Tod, per un processo di eliminazione e per le esigenze di viaggio, aveva ridotto allo scarno essenziale. In nessuna delle opere d’arte si scorgeva l’immagine umana. Gli inventari sono una lettura tediosa; mi limiterò quindi a elencare un fang-i Shang di bronzo con la patina «a buccia di melone»; uno specchio magico di Norimberga; un piatto azteco con un fiore purpureo; il reliquiario di cristallo di uno stupa del Gandhara; un bezoàr montato in oro; un flauto di giada; una cintura di wampum; un falco Horus della prima dinastia, di granito rosa; e certi monili eschimesi, in avorio di tricheco, con figure di animali che per quanto stilizzati sembravano respirare. Devo tuttavia segnalare tre arnesi da taglio, poiché erano il tema di un saggio di Maximilian Todd, Die Ästhetik der Messerschärfe,  pubblicato a Jena nel 1941, in cui egli sosteneva che tutte le armi sono artigli o canini artificiali, e danno a chi le usa il piacere noto ai carnivori quando sbranano la carne viva. 




Questi arnesi erano: 1. Un’azza acheuleana di selce proveniente dalle ghiaie della Senna, con l’attrattiva supplementare di una montatura Louis Quinze in bronzo dorato e la dedica ‘Pour le Roi’. 2. Un pugnale germanico dell’Età del Bronzo, trovato dal padre di Mr Tod nello scavo di un tumulo a Ückermünde, sul Baltico. 3. Una lama di spada proveniente dalla collezione del suo amico e maestro Ernst Grünwald, datata 1279 e firmata da Toshiru Yoshimitsu, il più grande spadaio del Giappone medievale. (Un segno sulla lama indicava che la spada aveva eseguito felicemente, su un criminale, il movimento detto tai, un colpo dal basso in alto che tronca di netto il corpo dall’anca destra alla spalla sinistra). Né ometterò una descrizione di tre altri pezzi della stessa collezione Grünwald: una tazza da tè di Kōetsu intitolata Montagne in inverno; una scatola di scorza di betulla intrecciata della Tribù d’Oro della Manciuria; e un blocco di pietra blu-nera con segni verdi e l’iscrizione: ‘Questa pietra d’inchiostro con Occhi Morti proviene dal Vecchio Pozzo della Rupe Inferiore di Tuan Hsi e appartenne al pittore Mi Fei’. Nella scatola di scorza Mr Tod custodiva i suoi due beni più cari: una calligrafia del maestro zen Sen Sotan, con la massima: ‘L’uomo in origine non possiede nulla’; e un rotolo di paesaggio dello stesso Mi Fei – pittore di montagne simili a nuvole e di nuvole simili a montagne, ubriacone, petromane, intenditore di pietre d’inchiostro, odiatore degli animali domestici, che errava per i monti portando sempre con sé la sua inestimabile collezione d’arte. Le pareti della stanza erano nude; c’era soltanto, in cornice, una calligrafia turca su foglia d’oro, con un verso di Rūmī (Mathnawī, VI, 723): ‘Essere un morto che cammina, uno che è morto prima di morire’.




La biblioteca di Mr Tod – almeno, la sua parte visibile – non era una biblioteca nel senso corrente ma una raccolta di testi che avevano per lui un significato speciale. Erano legati in carta grigia e custoditi in una cassetta da viaggio di zigrino. Li elencherò nell’ordine in cui erano disposti, perché quest’ordine dà di per sé una certa idea della personalità del proprietario: il trattato di Cassiano sull’accidia; il poema irlandese antico La capanna dell’eremita; il saggio poetico di Hsien Yin Lung Sul vivere nelle montagne; un facsimile del De arte venandi cum avibus dell’imperatore Federico II; lo scritto di Abu’l Fazl su Akbar e i suoi piccioni viaggiatori; le Notes on the Colour of Water and Ice di John Tyndall; L’ironia delle cose di Hugo von Hofmannsthal; Landor’s Cottage di Poe; il Pellegrinaggio di Caino di Wolfgang Hammerli; il poemetto in prosa di Baudelaire con il titolo inglese Anywhere out of this World!; e l’edizione 1840 dell’Étude sur les glaciers di Louis Agassiz, con l’appendice di cromolitografie della Jungfrau e di altri ghiacciai svizzeri.

Dovrebbe essere chiaro, anche per il lettore più sbadato, che Maximilian Tod sono io!

La mia storia è priva di importanza.

Detesto le confidenze. D’altronde, sono convinto che un uomo è la somma delle sue cose, anche se alcuni fortunati sono la somma di un’assenza di cose. Qualche dato biografico può tuttavia giovare a mettere le mie acquisizioni in una sequenza cronologica.

Sono nato il 13 marzo 1921 nel palazzo di granito dei miei avi americani a Bucksport, Maine. (La casa conteneva un mediocre ritratto di Copley e una collezione di vasi attici che neanche da bambino eccitavano la mia cupidigia). Mio padre era Caleb Saltonstall Todd e mia madre Maria Gräfin Henkel von Trotschke, di Ückermünde, nella Prussia orientale. I Todd di Bucksport dovevano la loro fortuna all’esportazione di ghiaccio in India. I miei antenati tedeschi entrarono nella storia in seguito alle invasioni mongole. Mio padre era un discepolo di Madison Grant e citava di continuo Il tramonto della grande razza di quell’autore. Studente universitario a Harvard dal 1910, lesse e ingurgitò la filosofia razziale di Ernst Haeckel, i cui tentativi di spiegare la storia alla luce di un crudo determinismo biologico sono un affronto alla logica e al senso comune.




Nel 1912 Caleb Todd andò per la prima volta in Germania, dove il bell’aspetto gli valse molte conquiste. Il suo fascino celava una mente di eccezionale vacuità. A Harvard aveva preso interesse all’archeologia, e la lettura dell’iperbolica cronologia dell’Età del Bronzo germanica di Kossinna lo convinse che la razza ariana era nata, spontaneamente, nella Brughiera di Lüneburg. Rimase in America per la durata della guerra, ma nel 1919 tornò in Germania. Durante lo scavo del tumulo nella tenuta dei von Trotschke conobbe mia madre e la sposò. Le estati della mia infanzia si divisero tra il Maine e la vasta dimora neoclassica di Ückermünde, col suo panorama di acquitrini e di cielo e il suo atrio di frigide dee marmoree. Posso datare il mio entusiasmo per il ghiaccio azzurro da una visita, nel 1930, alla Kunsthalle di Amburgo, dove vidi il capolavoro di Friedrich, Il naufragio della Speranza. Questa passione si rafforzò nel 1934, quando per la prima volta posai gli occhi sulle guglie e i camini del ghiacciaio dell’Unter- Grindelwald. Nel giugno 1938 mia madre annegò in un incidente di barca nel golfo di Botnia, causa la viltà e l’inettitudine di mio padre come marinaio. Non lo rividi più. La mia istruzione era stata affidata a precettori privati: di conseguenza ero in tutto e per tutto un autodidatta. Nel maggio del 1937 pubblicai il mio primo saggio di storia dell’arte, sulla Battaglia di Alessandro di Altdorfer, della Pinacoteca di Monaco. Alcuni mesi prima avevo comprato da un antiquario di Rue du Bac il cavalletto metallico a rotelle su cui Napoleone si faceva portare il dipinto nella stanza da bagno alla Malmaison. Tema del mio saggio era l’espressione degli occhi di Dario, un misto di orrore e di amore, quando egli vede la lancia di Alessandro puntata su di lui nell’infuriare della battaglia. Quando fu dichiarata la guerra ero a Innsbruck, a prendere appunti per un articolo sulla Wunderkammer dell’arciduca Ferdinando nel castello di Ambras. Sapevo che gli Stati Uniti avrebbero combattuto a fianco degli Alleati, e corsi a Berlino. Grazie alle aderenze di mio nonno diventai cittadino del Reich. Scelsi la Germania per ragioni estetiche. La guerra era per me la suprema esperienza estetica dell’uomo, e questo l’avevano capito soltanto i tedeschi e i giapponesi. Soltanto loro capivano il carattere, la grana della guerra: combattere dall’altra parte era impensabile. Non che io o i miei amici presumessimo di vincere. L’entusiasmo isterico dell’Alto Comando non fu mai nostro. Combattevamo per ragioni inesplicabili a quei parvenu opportunisti: per noi, bolscevismo e nazionalsocialismo erano due facce di uno stesso fenomeno. Né  combattevamo per la Patria. Combattevamo solo per combattere.




…Combattevamo, in realtà, per perdere…

Esteticamente, perdere è sempre più sicuro.

A Berlino feci amicizia con Ernst Grünwald, segretario dell’Associazione per l’amicizia germano-nipponica. Egli aveva vissuto trent’anni in Giappone, dieci dei quali nel monastero Daitokuji a Kyoto. In Occidente soltanto lui capiva la qualità artistica che i giapponesi chiamano wabi. Letteralmente, questa parola vuol dire ‘povertà’, ma applicata a un’opera d’arte significa che la vera bellezza, ‘la bellezza che si distacca da questo mondo’, deve fondarsi sull’uso dei materiali più umili. Andai a vivere con Grünwald nella sua casa di campagna presso Eberswalde. Quell’estate, inebriati dal profumo dei fiori tardivi dei tigli, praticammo lo Zen tirando d’arco, mentre fuori dai cancelli rombavano i carri armati diretti in Polonia. Nel dicembre 1940 entrai nel 24° Panzerkorps; l’estate seguente invademmo l’Ucraina. Poco di voluttuario potei infilare nel mio carro, ma riuscii a portare con me i miei Purdey, alcuni volumi di Voltaire e la mia giacca da sera. Con l’amico Rainer von Hagenburg avevo convenuto di assistere in panni civili alla prima serata dei balletti del Bolscioi ribattezzato – uno spettacolo che, sapevamo, non avrebbe mai avuto luogo. Nessun aspetto dell’invasione mi deluse: la bellezza della caccia agli uccelli selvatici nelle paludi del Pripet; le vampate ossidriche dei lanciafiamme; il lucore giallo della faccia di un mongolo morto; gli altoparlanti sovietici che suonavano a tutto volume la marcia di Budënnyj su campi di grano da tempo abbandonati; i volti tesi ma felici degli aristocratici che ci accoglievano dopo ventiquattro anni di morte vivente.

Il 12 settembre 1942, nell’attacco a Stalingrado, una pallottola mi colpì all’inguine. Steso su una barella da campo, eliminai la ‘d’ finale dal mio cognome. Mi ripresi tuttavia dall’operazione. Von Hagenburg recuperò persino il mio Voltaire e i miei Purdey. Tornai, invalido, a Berlino. L’estate successiva mi trovò in Finlandia nella veste di esperto in materia di frattura del ghiaccio. A Rovaniemi conobbi Vaino Mustanoja, uomo di gusti mirabilmente affini ai miei. La sua descrizione dei ghiacciai patagonici m’infiammò di desiderio per l’Estremo Sud. Invidiavo la sua collezione di manufatti eschimesi. Mustanoja aveva costruito un padiglione dorico nella foresta. Interno ed esterno erano dipinti di nero e stampinati di lacrime argentee in memoria della stanza decorata dal regicida Saint- Just a Reims. Là, alla luce delle notti bianche, tremolante fra le betulle, cenavamo con salmone marinato, filetto di renna affumicato e frutti di rovo camemoro, conversando inesauribilmente fino al mattino.




Là fui altresì testimone della sua triste fine.

Ancora nel novembre 1944 il Führer andava importando colonne di porfido dalla Svezia, senza dubbio con l’intento di usarle per un monumento a se stesso, e ignaro senza dubbio che il porfido svedese non è un surrogato accettabile di quello egiziano. I suoi geologi erano incapaci di scegliere pietre di buona qualità. I miei servigi furono graditi. Partii per Stoccolma e portai con me i pezzi migliori della collezione Grünwald, salvandoli da sicura distruzione. Tramite un intermediario donai al principe ereditario una coppa a stelo appartenuta all’imperatore Hsüan Tsang. Mi fu concesso asilo. La coppa non fu una gran perdita: era, a mio parere, il solo errore di gusto di Grünwald. Nel 1945 diventai cittadino argentino e sotto lo pseudonimo di Mills iniziai la mia carriera accademica come glaciologo. In seguito tornai negli Stati Uniti, dove in università minori misi insieme un portafoglio di titoli insignificanti. Cominciai a lavorare alla mia ‘Tebaide raffinata’ nell’estate australe del 1947-48, ritenendo inevitabile, a quell’epoca, una guerra nucleare nell’Emisfero Nord.

Di poi passai almeno tre mesi all’anno nella mia valle, ma nel 1960, tra inflazione, costo dei trasporti e pretese ricattatorie dei burocrati cileni e argentini, il capitale che avevo collocato in banche svizzere si era molto assottigliato.

Conobbi Estelle Neumann nel 1962. Stava ammirando, al Peabody Museum, una teca di fiori di vetro. Mi disse di essere originaria di Trenton, New Jersey. Né Trenton né la sua ammirazione per i fiori mi stupirono. Trovai in lei un miscuglio ideale di talento e di incredibile stupidità.

Nella sua testa non penetrava mai un pensiero originale; tuttavia, essa aveva la sagacia di appropriarsi di ogni mio suggerimento come se fosse cosa sua. Ma i miei piani non hanno seguito il loro corso. Scrivo queste note in una baracca di lamiera nel deserto di Atacama. L’acqua mi sta finendo. Era mia intenzione stabilirmi per sempre nella mia valle; l’ho lasciata all’altrui saccheggio. Ho lasciato il mio giovane compagno. Ho lasciato le mie cose. Io, che con rigore beduino ho abolito la forma umana da ogni mio possesso... io, che ho fatto di tutto per difendere la mia retina dagli oltraggi visivi del XX secolo, ora sono anch’io preda di allucinazioni.

Facce rosse di donna mi sbirciano lascive. Umide labbra mi sbavano addosso.

Blocchi mostruosi di colore mi soffocano. Je dus voyager, distraire les enchantements assemblés dans mon cerveau.

Un colore, in particolare, continua a tormentarmi: l’arancione della giacca a vento di Estelle Neumann, un attimo prima che le dessi la spinta…

(B. Chatwin)















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