giuliano

venerdì 3 agosto 2018

IMPARARE DI NUOVO A CAMMINARE (10)



















 Precedenti capitoli:

Imparare di nuovo a camminare (9)

Prosegue in:

Quando Estelle... scivolò sul ghiaccio (11/12)














 La deambulazione è uno strano fulcro della teoria dell’evoluzione umana. Essa rappresenta la trasformazione anatomica che ci ha sospinto fuori dal regno animale per farci giungere infine alla solitaria nostra condizione di dominatori della Terra. Ora è diventata una limitazione, dal momento che ha cessato di incalzarci verso un futuro fantastico e ci lega a un lontano passato allo stesso passo di centomila o di un milione o, secondo Lovejoy, di 3 milioni di anni fa.

Può darsi che abbia consentito alle mani di operare e alla mente di espandersi, ma rimane non particolarmente potente o veloce. Se un tempo ci distinse da tutti gli altri animali, adesso – come il sesso e la nascita, come il respirare e il mangiare – ci collega con i limiti del biologico.




La mattina prima di partire feci una passeggiata nel parco nazionale partendo dalle rocce su cui Pat teneva le sue lezioni di roccia e misurando il passo in modo da restare fresca e idratata. A Pat il padre aveva detto, e Pat mi aveva riferito, che il paesaggio non appare mai lo stesso all’andata e al ritorno: bisognava quindi voltarsi spesso a osservare quello che si sarebbe visto sulla via del ritorno. Questo è un paesaggio che disorienta e perciò il consiglio risulta particolarmente prezioso. Mi misi in cammino partendo da un grosso ammasso di rocce, un arcipelago o una zona piena di ammassi di macigni ciascuno grande quanto un palazzo. Come palazzi, le rocce limitavano la vista e quindi, per orientarsi, bisognava conoscere la configurazione e i punti di riferimento della regione più che far conto su scorci lontani come negli altri deserti. Con il sole del mattino sulla mia sinistra, mi diressi a sud su un sentiero che incrociava una strada e diventava a sua volta una strada, ma meno nettamente tracciata e con al centro delle zolle erbose. Questo tratto piegava verso sudovest e finiva in un’altra strada molto battuta. Davanti ai miei piedi le lucertoline sfrecciavano nei cespugli e, nelle zone in ombra, si vedevano timidi germogli di un’erba tenera e verde, fili alti un paio di pollici cresciuti dopo l’acquazzone di qualche settimana fa. Lasciandomi trasportare in quel vasto spazio in cui gli unici rumori erano quelli del vento e dei miei passi, per la prima volta dopo tanto tempo mi sentivo lontana dalla folla e dalla fretta, già sincronizzata sui tempi del deserto. La mia strada finiva sul confine di una proprietà privata, perciò cominciai a girarci intorno alla ricerca di un altro sentiero che mi riportasse all’ammasso di rocce, fingendo con me stessa di essermi perduta. Le catene di montagne apparivano e scomparivano all’orizzonte mentre camminavo ai bordi della pianura e tornavo verso le rocce.




[….Il salire, l’arrampicare, l’elevarsi per guardare dall’alto le cose del basso, e le nostre condizioni in quel basso o piccolo che scorgiamo a mano a mano che saliamo, è in realtà un procedere all’opposto rispetto al cammino che si compie. Non si sale, ma si scende verso i nostri antenati, si toccano le rocce che ci sono appartenute nella lenta formazione della terra, e più si fanno antiche, più noi  simmetricamente regrediamo alla pura forma di condizioni geometriche semplici che stabilisce la matematica dell’Universo. Vuoti di pensieri nel momento della fatica. Ritorno all’antico ordine di forme semplici, fin tanto che, nella cima, sono di nuovo in quel primo Oceano, dove l’Uno è divenuto il ‘tutto’ che lo circonda, in attesa di moltiplicarsi nel ‘tutto’ che da lui si genera. Studiare le sensazioni dell’alpinista oltre allo spirito dell’avventura della scoperta, della sfida e della conquista, è respirare con lui, e cogliere in questa percezione della realtà un diverso aspetto della sua dimensione, e con essa l’anima e la coscienza. Nel momento in cui si appresta a questa discesa verso i primordi della vita.  Non dobbiamo considerare la percezione ottenuta e descritta quale unica entità psicologica legata al concetto proprio di salita, la natura si nasconde di nuovo e con essa la verità, la discesa lenta e graduale verso il primo Sé antico e imperscrutabile dei tanti sentimenti senza parole, di una nascita in seno all’Universo e alla terra da lui generato. L’essere è provvisto di vita affinché attraverso lui continui il percorso evolutivo da una forma primordiale, fino all’apparente perfezione dell’attuale, esprimendo la volontà stessa della vetta. In noi scorrono tutte le vite passate in relazione con ogni elemento esterno che le ha caratterizzate, compreso il rapporto accentuato con quel mondo animale di cui alcuni miei fedeli compagni ne rappresentato gli aspetti più interessanti. Nel momento in cui riesco a liberare in loro tutti quegli istinti di addomesticazione che gli abbiamo impartiti per secoli.  Per cui essi tornano ad essere quello che erano, compagni di caccia liberi nelle scelte e di nuovo autosufficienti per il proprio fabbisogno. Esaminare quegl’uomini in vetta, ora che sto ammirando queste cattedrali, forme contorte del nostro passato remoto, non è opera di erudizione da bibliofilo e appassionato di montagna, ma uno scavare nelle viscere della terra attraverso tutti i pensieri che sono anche nostri, nel senso che ci sono appartenuti milioni di anni fa’. Di nuovo cerco di coprire il cammino nella soffice simmetria di questa neve e lasciare il riflesso di immagini che sono ‘il tempo’‘nel tempo’…. G. Lazzari l’Eretico Viaggio]





Quindi perché camminare?



Il moltiplicarsi delle tecnologie in nome dell’efficienza, consentendo di massimizzare il tempo e lo spazio della produzione e di minimizzare il tempo non strutturato del viaggio tra i due, sta di fatto sradicando il tempo libero. Nuove tecnologie salvatempo rendono più produttiva la gran parte dei lavoratori, ma non più libera in un mondo che sembra muoversi più veloce attorno a loro.

…Inoltre, la retorica dell’efficienza che circonda tali tecnologie suggerisce che tutto ciò che non può essere quantificato non può nemmeno essere valutato, che l’ampia gamma di piaceri che rientra nella categoria del far niente di particolare, del distrarsi, del fantasticare, del vagabondare e del guardare le vetrine non è che un vuoto da riempire con qualcosa di più definito, più produttivo o più veloce.




Persino nell’itinerario su questo promontorio che non conduce in un alcun luogo utile, su questo cammino che può essere percorso solo per diletto, la gente ha tracciato scorciatoie tra i tornanti, come se l’efficienza fosse un’abitudine di cui non ci si può liberare. L’indeterminatezza di un’escursione senza meta, in cui c’è molto da scoprire, viene sostituita dalla distanza definita più breve da coprire alla maggiore velocità possibile, e anche dalle comunicazioni elettroniche che restringono la necessità del viaggio reale.

Facendo parte della categoria dei lavoratori indipendenti, il cui tempo economizzato dalla tecnologia può essere colmato di vagabondaggi e di sogni a occhi aperti, so che queste cose hanno una loro utilità, e io stessa le utilizzo (un camioncino, un computer, un modem), ma temo al tempo stesso la loro falsa urgenza, il richiamo alla velocità, l’istanza che il viaggio sia meno importante dell’arrivo.




A me piace camminare perché è lento, e sospetto che la mente, come i piedi, possa lavorare alla velocità di circa tre miglia all’ora. Se così fosse, allora la vita moderna si muove più rapidamente della velocità del pensiero, o della riflessione.

Il camminare riguarda l’essere all’aperto, in un luogo pubblico, e anche nelle città più antiche lo spazio pubblico è abbandonato ed eroso, eclissato dalle tecnologie e dai servizi che non ci chiedono di uscire di casa, e in molti luoghi è oscurato dalla paura (i luoghi sconosciuti incutono sempre più timore di quelli noti, così che, meno si vaga per la grande città, più essa ci appare allarmante, e là dove vi sono meno passanti, le vie diventano effettivamente più solitarie e pericolose).

Intanto, in molte località recenti, lo spazio pubblico non è nemmeno programmato: quello che un tempo era spazio pubblico ora è destinato a dare accoglienza e protezione alle automobili, i centri commerciali sostituiscono le vie principali, le strade non hanno marciapiede; negli edifici si entra dal garage; i municipi non hanno una piazza; e ovunque muri, barriere, cancelli.




La paura ha generato uno stile di architettura e di disegno urbano, specialmente nella California meridionale, dove essere un pedone in molte ripartizioni e‘comunità’cintate vuol dire essere una persona sospetta. Contemporaneamente, il terreno rurale e le periferie un tempo invitanti delle piccole città sono stati inghiottiti da lottizzazioni destinate ai pendolari dell’automobile o altrimenti sequestrati.

In alcuni luoghi non è più possibile uscire in pubblico, una crisi sia delle efipanie private del passante solitario, sia delle funzioni democratiche dello spazio pubblico. Era a questa frammentazione di vite e di paesaggi che resistevamo tempo fa negli spazi dilatati del deserto che, per l’occasione, diventavano pubblici come piazze urbane.

E quando lo spazio pubblico scompare, altrettanto avviene del corpo visto, secondo la felice espressione di Sono, come mezzo adeguato per portarci in giro.




Sono e io parlavamo della scoperta che i nostri dintorni – tra i più temuti della Bay Area – non sono poi così ostili (anche se non tanto sicuri da farci dimenticare del tutto una certa prudenza).

Sono stata minacciata e derubata per strada, tempo fa, ma migliaia di volte mi sono imbattuta in amici di passaggio, in una vetrina che esponeva un libro a lungo cercato, in complimenti e saluti dei miei loquaci vicini, in gioielli architettonici, in manifesti per eventi musicali e in ironici commenti politici scritti sui muri e sui pali del telefono, in indovini, nella luna che spuntava tra gli edifici, in brevi visioni di vite e di case altrui, e in alberi di strada chiassosi del cinguettio degli uccelli. L’aleatorio, il non riparato, ci permette di trovare quello che non si sa di cercare, e non si conosce un luogo finché questo non ci sorprende.

….Muoversi a piedi è un modo per conservare un baluardo contro questa erosione della mente, del corpo, del paesaggio…..


















Nessun commento:

Posta un commento