Imparare di nuovo a camminare (9)
Prosegue in:
Quando Estelle... scivolò sul ghiaccio (11/12)
La deambulazione
è uno strano fulcro della teoria dell’evoluzione umana. Essa rappresenta la
trasformazione anatomica che ci ha sospinto fuori dal regno animale per farci
giungere infine alla solitaria nostra condizione di dominatori della Terra. Ora
è diventata una limitazione, dal momento che ha cessato di incalzarci verso un
futuro fantastico e ci lega a un lontano passato allo stesso passo di centomila
o di un milione o, secondo Lovejoy, di 3 milioni di anni fa.
Può darsi che abbia consentito alle mani di
operare e alla mente di espandersi, ma rimane non particolarmente potente o
veloce. Se un tempo ci distinse da tutti gli altri animali, adesso – come il
sesso e la nascita, come il respirare e il mangiare – ci collega con i limiti
del biologico.
La mattina prima di partire feci una
passeggiata nel parco nazionale partendo dalle rocce su cui Pat teneva le sue
lezioni di roccia e misurando il passo in modo da restare fresca e idratata. A
Pat il padre aveva detto, e Pat mi aveva riferito, che il paesaggio non appare
mai lo stesso all’andata e al ritorno: bisognava quindi voltarsi spesso a
osservare quello che si sarebbe visto sulla via del ritorno. Questo è un
paesaggio che disorienta e perciò il consiglio risulta particolarmente prezioso.
Mi misi in cammino partendo da un grosso ammasso di rocce, un arcipelago o una
zona piena di ammassi di macigni ciascuno grande quanto un palazzo. Come
palazzi, le rocce limitavano la vista e quindi, per orientarsi, bisognava
conoscere la configurazione e i punti di riferimento della regione più che far
conto su scorci lontani come negli altri deserti. Con il sole del mattino sulla
mia sinistra, mi diressi a sud su un sentiero che incrociava una strada e
diventava a sua volta una strada, ma meno nettamente tracciata e con al centro
delle zolle erbose. Questo tratto piegava verso sudovest e finiva in un’altra
strada molto battuta. Davanti ai miei piedi le lucertoline sfrecciavano nei cespugli
e, nelle zone in ombra, si vedevano timidi germogli di un’erba tenera e verde,
fili alti un paio di pollici cresciuti dopo l’acquazzone di qualche settimana fa.
Lasciandomi trasportare in quel vasto spazio in cui gli unici rumori erano quelli
del vento e dei miei passi, per la prima volta dopo tanto tempo mi sentivo lontana
dalla folla e dalla fretta, già sincronizzata sui tempi del deserto. La mia strada
finiva sul confine di una proprietà privata, perciò cominciai a girarci intorno
alla ricerca di un altro sentiero che mi riportasse all’ammasso di rocce, fingendo
con me stessa di essermi perduta. Le catene di montagne apparivano e scomparivano
all’orizzonte mentre camminavo ai bordi della pianura e tornavo verso le
rocce.
[….Il
salire, l’arrampicare, l’elevarsi per guardare dall’alto le cose del basso, e
le nostre condizioni in quel basso o piccolo che scorgiamo a mano a mano che
saliamo, è in realtà un procedere all’opposto rispetto al cammino che si
compie. Non si sale, ma si scende verso i nostri antenati, si toccano le
rocce che ci sono appartenute nella lenta formazione della terra, e più si
fanno antiche, più noi simmetricamente
regrediamo alla pura forma di condizioni geometriche semplici che stabilisce la
matematica dell’Universo. Vuoti di pensieri nel momento della fatica. Ritorno
all’antico ordine di forme semplici, fin tanto che, nella cima, sono di nuovo
in quel primo Oceano, dove l’Uno è divenuto il ‘tutto’ che lo circonda, in
attesa di moltiplicarsi nel ‘tutto’ che da lui si genera. Studiare le
sensazioni dell’alpinista oltre allo spirito dell’avventura della scoperta,
della sfida e della conquista, è respirare con lui, e cogliere in questa
percezione della realtà un diverso aspetto della sua dimensione, e con essa
l’anima e la coscienza. Nel momento in cui si appresta a questa discesa verso i
primordi della vita. Non dobbiamo
considerare la percezione ottenuta e descritta quale unica entità psicologica
legata al concetto proprio di salita, la natura si nasconde di nuovo e con essa
la verità, la discesa lenta e graduale verso il primo Sé antico e imperscrutabile
dei tanti sentimenti senza parole, di una nascita in seno all’Universo e alla
terra da lui generato. L’essere è provvisto di vita affinché attraverso lui
continui il percorso evolutivo da una forma primordiale, fino all’apparente
perfezione dell’attuale, esprimendo la volontà stessa della vetta. In noi
scorrono tutte le vite passate in relazione con ogni elemento esterno che le ha
caratterizzate, compreso il rapporto accentuato con quel mondo animale di cui
alcuni miei fedeli compagni ne rappresentato gli aspetti più interessanti. Nel
momento in cui riesco a liberare in loro tutti quegli istinti di
addomesticazione che gli abbiamo impartiti per secoli. Per cui essi tornano ad essere quello che
erano, compagni di caccia liberi nelle scelte e di nuovo autosufficienti per il
proprio fabbisogno. Esaminare quegl’uomini in vetta, ora che sto ammirando
queste cattedrali, forme contorte del nostro passato remoto, non è opera di
erudizione da bibliofilo e appassionato di montagna, ma uno scavare nelle viscere
della terra attraverso tutti i pensieri che sono anche nostri, nel senso che ci
sono appartenuti milioni di anni fa’. Di nuovo cerco di coprire il cammino
nella soffice simmetria di questa neve e lasciare il riflesso di immagini che
sono ‘il tempo’‘nel tempo’…. G. Lazzari l’Eretico Viaggio]
Quindi perché camminare?
Il moltiplicarsi delle tecnologie in nome dell’efficienza, consentendo
di massimizzare il tempo e lo spazio della produzione e di minimizzare il tempo
non strutturato del viaggio tra i due, sta di fatto sradicando il tempo libero.
Nuove tecnologie salvatempo rendono più produttiva la gran parte dei
lavoratori, ma non più libera in un mondo che sembra muoversi più veloce
attorno a loro.
…Inoltre, la retorica dell’efficienza che circonda tali tecnologie
suggerisce che tutto ciò che non può essere quantificato non può nemmeno essere
valutato, che l’ampia gamma di piaceri che rientra nella categoria del far
niente di particolare, del distrarsi, del fantasticare, del vagabondare e del
guardare le vetrine non è che un vuoto da riempire con qualcosa di più
definito, più produttivo o più veloce.
Persino nell’itinerario su questo promontorio che non conduce in un
alcun luogo utile, su questo cammino che può essere percorso solo per diletto,
la gente ha tracciato scorciatoie tra i tornanti, come se l’efficienza fosse
un’abitudine di cui non ci si può liberare. L’indeterminatezza di un’escursione
senza meta, in cui c’è molto da scoprire, viene sostituita dalla distanza
definita più breve da coprire alla maggiore velocità possibile, e anche dalle
comunicazioni elettroniche che restringono la necessità del viaggio reale.
Facendo parte della categoria dei lavoratori indipendenti, il cui tempo
economizzato dalla tecnologia può essere colmato di vagabondaggi e di sogni a
occhi aperti, so che queste cose hanno una loro utilità, e io stessa le
utilizzo (un camioncino, un computer, un modem), ma temo al tempo stesso la
loro falsa urgenza, il richiamo alla velocità, l’istanza che il viaggio sia
meno importante dell’arrivo.
A me piace camminare perché è lento, e sospetto che la mente, come i
piedi, possa lavorare alla velocità di circa tre miglia all’ora. Se così fosse,
allora la vita moderna si muove più rapidamente della velocità del pensiero, o
della riflessione.
Il camminare riguarda l’essere all’aperto, in un luogo pubblico, e
anche nelle città più antiche lo spazio pubblico è abbandonato ed eroso,
eclissato dalle tecnologie e dai servizi che non ci chiedono di uscire di casa,
e in molti luoghi è oscurato dalla paura (i luoghi sconosciuti incutono sempre
più timore di quelli noti, così che, meno si vaga per la grande città, più essa
ci appare allarmante, e là dove vi sono meno passanti, le vie diventano
effettivamente più solitarie e pericolose).
Intanto, in molte località recenti, lo spazio pubblico non è nemmeno programmato:
quello che un tempo era spazio pubblico ora è destinato a dare accoglienza e
protezione alle automobili, i centri commerciali sostituiscono le vie
principali, le strade non hanno marciapiede; negli edifici si entra dal garage;
i municipi non hanno una piazza; e ovunque muri, barriere, cancelli.
La paura ha generato uno stile di architettura e di disegno urbano,
specialmente nella California meridionale, dove essere un pedone in molte
ripartizioni e‘comunità’cintate vuol dire essere una persona sospetta.
Contemporaneamente, il terreno rurale e le periferie un tempo invitanti delle
piccole città sono stati inghiottiti da lottizzazioni destinate ai pendolari dell’automobile
o altrimenti sequestrati.
In alcuni luoghi non è più possibile uscire in pubblico, una crisi sia
delle efipanie private del passante solitario, sia delle funzioni democratiche
dello spazio pubblico. Era a questa frammentazione di vite e di paesaggi che
resistevamo tempo fa negli spazi dilatati del deserto che, per l’occasione,
diventavano pubblici come piazze urbane.
E quando lo spazio pubblico scompare, altrettanto avviene del corpo
visto, secondo la felice espressione di Sono, come mezzo adeguato per portarci
in giro.
Sono e io parlavamo della scoperta che i nostri dintorni – tra i più
temuti della Bay Area – non sono poi così ostili (anche se non tanto sicuri da
farci dimenticare del tutto una certa prudenza).
Sono stata minacciata e derubata per strada, tempo fa, ma migliaia di
volte mi sono imbattuta in amici di passaggio, in una vetrina che esponeva un
libro a lungo cercato, in complimenti e saluti dei miei loquaci vicini, in
gioielli architettonici, in manifesti per eventi musicali e in ironici commenti
politici scritti sui muri e sui pali del telefono, in indovini, nella luna che
spuntava tra gli edifici, in brevi visioni di vite e di case altrui, e in
alberi di strada chiassosi del cinguettio degli uccelli. L’aleatorio, il non
riparato, ci permette di trovare quello che non si sa di cercare, e non si
conosce un luogo finché questo non ci sorprende.
….Muoversi a piedi è un modo per conservare un baluardo contro questa
erosione della mente, del corpo, del paesaggio…..
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