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Il bastone del filosofo (9)
Prosegue in:
Tu sei lì e sei tu! Gli altri chi sono (11/12)
Thoreau
comunica per impulsi di emozioni e di percezioni, non sceglie tra filosofia,
letteratura e poesia, come se l’una escludesse l’altra, ma passa
alternativamente da un registro all’altro, quando non li fonde secondo il suo
capriccio.
Al
poeta non si chiede di essere chiaro, a patto che sia efficace e che le sue
immagini generino nel lettore altre immagini. Se un autore vuole comunicare col
suo lettore, può scegliere l’argomentazione classica e rispettare le regole
abituali della retorica e dell’eloquenza nell’esposizione delle idee.
Questa
è una maniera determinata di comunicare.
Ma
ne esiste anche un’altra che mira ad attingere nell’inconscio dell’individuo al
quale ci si rivolge un materiale che entrerà in relazione con l’inconscio del
poeta.
Conoscenza
per empatia, per simpatia, per impulsi di energie che travalicano gli spazi
angusti del razionalismo.
Il
metodo di Thoreau volta le spalle a quello dell’Occidente.
Il
discorso sul metodo di
Descartes ha valore di bibbia per i filosofi europei.
Le
regole del metodo esposte dal pensatore francese sono tuttavia prive di valore
per il filosofo americano, il quale, tra l’altro, intende coltivare in tal modo
la sua specificità di metafisico del Nuovo continente.
Praticare
il dubbio metodico?
Considerare
falso tutto ciò di cui si può dubitare?
Dubitare
del mondo sensibile, delle dimostrazioni matematiche, ma risparmiare la morale
e la religione dominanti?
Riconoscere
in ciò che è chiaro e distinto i caratteri del vero?
Dover
enumerare le difficoltà?
Sopprimere
i pregiudizi dell’infanzia?
Chiedersi
che cosa siamo e rispondere che la nostra natura è quella di pensare?
Thoreau
non vede l’utilità di tutto ciò: il dubbio non serve a nulla, solo
l’osservazione permette di accedere a conoscenze vere; il vero e il falso non
sono che parole; la sola cosa di cui siamo sicuri è il sensibile, e per convincersene
non occorre fare appello a dimostrazioni sofistiche; la prova del pudding è nel
mangiarlo; la morale e la religione sono faccende convenzionali, la giustizia è
superiore ad esse; il chiaro e il distinto non sono necessariamente virtù, e ad
esse si può preferire l’oscuro e l’indistinto, le tenebre e l’incerto; il
bambino non deve essere superato, ma conservato, se non addirittura riscoperto
dentro di noi; infine, la nostra natura non consiste nel pensare, ma nel
contemplare la natura, imparare a conoscerla e chiederle lezioni – ad essa più
che a Dio – per vivere bene e meglio.
In
poche righe, giusto prima della fine della sua Storia naturale
del Massachusetts,
Thoreau consegna il suo Discorso sul metodo: la sperimentazione del reale non è
affare di un filosofo nel suo studio, ma immersione di un osservatore nella
materialità del mondo – e se Emerson pensa in veste da camera, Thoreau entra
completamente vestito nell’acqua delle paludi per inseguire le variazioni di
colore della ali di una libellula. La conoscenza è una questione fisica,
sensibile, materialista, immanente, empirica. Da discepolo inconsapevole di
Locke o di Condillac, sa che non si può arrivare alla conoscenza senza le
informazioni date dai sensi. I cinque sensi non sono tutti ugualmente
efficienti, devono essere educati, sollecitati, affinati per poter disporre di
eccellenti strumenti di precisione. Non basta esaminare le cose, occorre
contemplarle.
Guardare
a lungo, sospendendo il tempo, permette di giungere a vedere.
Il
reale si cattura, e occorre molta pazienza per accedere alla verità delle cose.
In altre parole, il filosofo deve agire come un fenomenologo che osserva i
particolari, seziona il reale, ne coglie tutte le sfaccettature, lo investe con
tutti i suoi sensi. La coscienza di chi osserva, ascolta, tocca, sente, gusta,
immerso nella natura, penetra l’oggetto da esaminare e perviene a toccarne
l’essenza. La fenomenologia del sensista fonda una filosofia naturalista. Come
conferma questa frase di Walden:
‘Non
è per mezzo dell’induzione, deduzione o applicazione delle matematiche alla
filosofia che noi apprendiamo, ma mediante una relazione diretta e una simpatia
con l’oggetto da studiare’.
Malgrado
il suo approccio sperimentale, non Bacone – o Emerson –, ma il Poeta e i suoi
versi, le sue immagini, le sue folgorazioni e le sue oscurità. O l’Indiano, con
i suoi miti, le sue allegorie, le sue favole. Omero, Dante o Shakespeare al
posto di Platone, Descartes o Leibniz. L’Odissea contro La Repubblica, la Divina Commedia contro i Principi della
filosofia,
il Sogno
di una notte di mezza estate contro la Monadologia. Ecco un filosofo fatto
apposta per dispiacere alla corporazione dei professori di filosofia.
Walden
contro
la Scienza
della logica o
l’Enciclopedia
delle scienze filosofiche di Hegel.
La
conoscenza non la ottiene dunque il filosofo obiettivo, ma il pensatore
soggettivo. Non esiste altro che l’esperienza umana, e solo lo sperimentatore –
di cui la filosofia ufficiale diffida, quando non pretende persino di farne a
meno – produce risultati. Ciò che garantisce una conoscenza eccellente, per
Thoreau, non deriva evidentemente da diplomi o da una formazione classica, ma
dalla totale arbitrarietà: per ben conoscere, bisogna essere un grande vivente!
Il
motivo è molto semplice: la vita che abita un essere in misura più o meno
grande entra in relazione, per capillarità, con la vita che si trova
nell’oggetto esaminato. Più l’individuo custodisce in sé stesso la vita, più è
sviluppata ed estesa la sua facoltà di entrare in contatto con la vita che
alberga nelle cose. Ogni conoscenza si compie per empatia vitalista e non per
deduzione intellettuale, implica la simpatia esistenziale e non l’analisi
scientifica.
L’Indiano
contro il ricercatore di laboratorio.
Un
grande scienziato è un grande vivente.
Il
chiaro e il distinto non costituiscono dunque l’orizzonte insuperabile della filosofia.
Il Poeta si preoccupa dell’immagine, non del vero. Dell’efficacia empatica, non
della persuasione laboriosa. Thoreau non aspira a dimostrare, intende
suggerire. Meglio una bella Rima – infatti scrive anche dei poemi –, una bella
immagine, un bell’effetto, una bella allegoria, una bella favola – che una
dimostrazione irreprensibile. La corporazione dei professori direbbe che
Thoreau pratica l’assertorio da selvaggio e rifiuta l’apodittica dei civilizzati.
(E che per questo motivo non otterrà il diploma).
La
tradizione filosofica rivendica i Lumi.
Da
Platone in poi, il filosofo si illumina al fuoco delle idee intelligibili e
l’oscurità è la sorte riservata agli abitanti della caverna, ai non-iniziati,
alla maggioranza, al volgo. Il lavoro filosofico esige dunque che sia sempre
portata la fiaccola della conoscenza e del sapere nel tugurio del mondo delle
tenebre. Anche i pensatori apologetici del cristianesimo associano la luce alla
verità rivelata e l’oscurità al mondo demoniaco.
Thoreau
mette i piedi dove non dovrebbe facendo esplicitamente la critica dei lumi e
prendendo nettamente partito per l’oscurità. Il pensatore americano ha un bel credersi
indenne dai condizionamenti del suo tempo, che è comunque l’epoca dei ‘temporali
desiderati’ dell’autore di Atala o delle Avventure dell’ultimo degli
Abenceragi –
anche lui grande ammiratore di Indiani e autore di un Viaggio in America
(1827).
Il temporale, la tempesta, gli elementi scatenati, il sublime della natura,
sono cose che non dispiacciono a Thoreau, come non dispiacciono a Chateaubriand.
Il
teorico che esalta l’eccellenza di una buona immagine e il suo primato sul
ragionamento in materia di conoscenza, per illustrare il suo discorso racconta
un aneddoto preso in prestito da Niépce,
scopritore del ‘principio di attinide’.
L’inventore della fotografia aveva in effetti constatato che i raggi del sole
danneggiano la struttura del granito. Se esistesse solo la luce, senza il suo
doppio e il suo complemento, l’oscurità, la pietra si sfalderebbe prestissimo e
si ridurrebbe in polvere. Ma esiste un contropotere a questo effetto: di notte,
i corpi rovinati recuperano la loro integrità grazie all’effetto dell’oscurità.
Non c’è luce, quindi, senza ombra – affinché la vita esista e duri.
Ciò
che è vero per la geologia vale al di là di questo piccolo mondo, in quanto la
natura è animata da un principio che, attivo in un punto infimo, lo è altrettanto
in uno spazio infinito: la forza, la vita, l’energia che rendono possibile la
magia di una formica spiegano anche l’ordinamento dei pianeti, i loro corsi e i
loro moti.
La
legge che vale per il granito vale anche per la conoscenza: la luce esiste in
abbondanza, perciò bisogna coltivare l’oscurità. Così, quando si scrive,
occorre mirare all’effetto che si intende produrre nel lettore. In questo
ordine di idee non bisogna esprimersi né con eccessiva completezza, né con
troppi particolari. Non occorre sforzarsi di offrire un resoconto assolutamente
fedele delle cose. In compenso, la strada giusta è quella di suggerire, evocare
e sollecitare nel lettore un’emozione in grado di permettere la trasmissione e
la comunicazione veritiera. Da qui l’interesse per le frasi dense, enigmatiche,
sintetiche, nelle quali si trovano condensate intere biblioteche – ‘frasi tali
che, per costruirle, un uomo venderebbe i suoi castelli e le sue terre’ (Journal, agosto 1851).
Ecco
dunque il discorso sul metodo del filosofo Henry Thoreau: elogio della saggezza
indiana, dell’intuizione, della simpatia e dell’empatia con la materia del
mondo; esaltazione di una conoscenza soggettiva; cultura dell’oscurità;
inclinazione a suggerire più che ad affermare; preferenza accordata all’immagine,
alla poesia, all’allegoria, rispetto al discorso, alla filosofia e alla
dimostrazione; rivendicazione di una fenomenologia sensista; oltre alla figura
dell’Indiano, in compagnia dell’Eremita e del Bramino; culto della semplicità e
dei temperamenti ad essa associati: il Bambino, il Semplice di spirito,
l’Incolto.
La
cultura infatti allontana dalla natura, corrompe la verità di un essere che coincide
con la sua semplicità.
Fustigando
il ‘preteso sapere’, Thoreau osserva che la conoscenza si ottiene spesso a
detrimento della natura, che viene ignorata, negletta, sciupata o maltrattata.
Gli esseri semplici invece non la danneggiano affatto. Il filosofo rimanda più
volte all’ignoranza socratica di chi sa di non sapere nulla – o poco, molto
poco, e che questo poco confina col nulla rispetto all’ampiezza di tutto ciò
che ignora.
Sin
dal termine dei suoi studi, Thoreau cominciò a criticare aspramente la modernità,
caratterizzata dal trionfo dei mercanti, dei tecnici, degli ingegneri, dei
banchieri, dei commercianti e di tutti coloro che in quel periodo stavano edificando
l’America trionfante che tanto affascinava il Tocqueville della Democrazia in
America.
Il filosofo non ama le città, il denaro, il commercio, le fabbriche,
l’industria; preferisce la campagna, l’autosussistenza, la produzione per il
consumo personale, e quella che definisce ‘l’economia di vita’, altrove
chiamata anche… la filosofia.
Contro
questo regno americano del denaro, che si sposa così bene al puritanesimo, si
vedono fiorire parecchie comunità fourieriste. Fruitland, come abbiamo visto,
ma anche un certo numero di esperienze promosse da discepoli dell’autore del Nuovo mondo
industriale e societario, come Victor Considérant,
Albert Brisbane, George Ripley, i
quali credono che la salvezza, e anche la felicità, degli uomini passino
attraverso soluzioni collettive e comunitarie alternative al modo di produzione
capitalistico liberale.
Contro
il predominio del mercato, gli utopisti credono nel piano eudemonista e nella riorganizzazione
paradisiaca della società. In questa disposizione d’animo, ma andando oltre il
fourierismo, John Adolphus Etzler
pubblica nel 1833 The
Paradise within the Reach of all Men, without Labor, by Powers of Nature and
Machinery [Il
paradiso alla portata di tutti gli uomini, senza lavoro, per mezzo della
potenza della natura e della meccanica], un successo ai suoi tempi....
(M.
Onfray; Fotografie di A. Masuri)
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