giuliano

sabato 10 novembre 2018

IL BASTONE DEL FILOSOFO (10)











































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Il bastone del filosofo (9)

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Tu sei lì e sei tu! Gli altri chi sono (11/12)













Thoreau comunica per impulsi di emozioni e di percezioni, non sceglie tra filosofia, letteratura e poesia, come se l’una escludesse l’altra, ma passa alternativamente da un registro all’altro, quando non li fonde secondo il suo capriccio.

Al poeta non si chiede di essere chiaro, a patto che sia efficace e che le sue immagini generino nel lettore altre immagini. Se un autore vuole comunicare col suo lettore, può scegliere l’argomentazione classica e rispettare le regole abituali della retorica e dell’eloquenza nell’esposizione delle idee.

Questa è una maniera determinata di comunicare.




Ma ne esiste anche un’altra che mira ad attingere nell’inconscio dell’individuo al quale ci si rivolge un materiale che entrerà in relazione con l’inconscio del poeta.

Conoscenza per empatia, per simpatia, per impulsi di energie che travalicano gli spazi angusti del razionalismo.

Il metodo di Thoreau volta le spalle a quello dell’Occidente.

Il discorso sul metodo di Descartes ha valore di bibbia per i filosofi europei.

Le regole del metodo esposte dal pensatore francese sono tuttavia prive di valore per il filosofo americano, il quale, tra l’altro, intende coltivare in tal modo la sua specificità di metafisico del Nuovo continente.

Praticare il dubbio metodico?

Considerare falso tutto ciò di cui si può dubitare?




Dubitare del mondo sensibile, delle dimostrazioni matematiche, ma risparmiare la morale e la religione dominanti?

Riconoscere in ciò che è chiaro e distinto i caratteri del vero?

Dover enumerare le difficoltà?

Sopprimere i pregiudizi dell’infanzia?

Chiedersi che cosa siamo e rispondere che la nostra natura è quella di pensare?




Thoreau non vede l’utilità di tutto ciò: il dubbio non serve a nulla, solo l’osservazione permette di accedere a conoscenze vere; il vero e il falso non sono che parole; la sola cosa di cui siamo sicuri è il sensibile, e per convincersene non occorre fare appello a dimostrazioni sofistiche; la prova del pudding è nel mangiarlo; la morale e la religione sono faccende convenzionali, la giustizia è superiore ad esse; il chiaro e il distinto non sono necessariamente virtù, e ad esse si può preferire l’oscuro e l’indistinto, le tenebre e l’incerto; il bambino non deve essere superato, ma conservato, se non addirittura riscoperto dentro di noi; infine, la nostra natura non consiste nel pensare, ma nel contemplare la natura, imparare a conoscerla e chiederle lezioni – ad essa più che a Dio – per vivere bene e meglio.




In poche righe, giusto prima della fine della sua Storia naturale del Massachusetts, Thoreau consegna il suo Discorso sul metodo: la sperimentazione del reale non è affare di un filosofo nel suo studio, ma immersione di un osservatore nella materialità del mondo – e se Emerson pensa in veste da camera, Thoreau entra completamente vestito nell’acqua delle paludi per inseguire le variazioni di colore della ali di una libellula. La conoscenza è una questione fisica, sensibile, materialista, immanente, empirica. Da discepolo inconsapevole di Locke o di Condillac, sa che non si può arrivare alla conoscenza senza le informazioni date dai sensi. I cinque sensi non sono tutti ugualmente efficienti, devono essere educati, sollecitati, affinati per poter disporre di eccellenti strumenti di precisione. Non basta esaminare le cose, occorre contemplarle.

Guardare a lungo, sospendendo il tempo, permette di giungere a vedere.




Il reale si cattura, e occorre molta pazienza per accedere alla verità delle cose. In altre parole, il filosofo deve agire come un fenomenologo che osserva i particolari, seziona il reale, ne coglie tutte le sfaccettature, lo investe con tutti i suoi sensi. La coscienza di chi osserva, ascolta, tocca, sente, gusta, immerso nella natura, penetra l’oggetto da esaminare e perviene a toccarne l’essenza. La fenomenologia del sensista fonda una filosofia naturalista. Come conferma questa frase di Walden:

‘Non è per mezzo dell’induzione, deduzione o applicazione delle matematiche alla filosofia che noi apprendiamo, ma mediante una relazione diretta e una simpatia con l’oggetto da studiare’.




Malgrado il suo approccio sperimentale, non Bacone – o Emerson –, ma il Poeta e i suoi versi, le sue immagini, le sue folgorazioni e le sue oscurità. O l’Indiano, con i suoi miti, le sue allegorie, le sue favole. Omero, Dante o Shakespeare al posto di Platone, Descartes o Leibniz. L’Odissea contro La Repubblica, la Divina Commedia contro i Principi della filosofia, il Sogno di una notte di mezza estate contro la Monadologia. Ecco un filosofo fatto apposta per dispiacere alla corporazione dei professori di filosofia.

Walden contro la Scienza della logica o l’Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel.

La conoscenza non la ottiene dunque il filosofo obiettivo, ma il pensatore soggettivo. Non esiste altro che l’esperienza umana, e solo lo sperimentatore – di cui la filosofia ufficiale diffida, quando non pretende persino di farne a meno – produce risultati. Ciò che garantisce una conoscenza eccellente, per Thoreau, non deriva evidentemente da diplomi o da una formazione classica, ma dalla totale arbitrarietà: per ben conoscere, bisogna essere un grande vivente!




Il motivo è molto semplice: la vita che abita un essere in misura più o meno grande entra in relazione, per capillarità, con la vita che si trova nell’oggetto esaminato. Più l’individuo custodisce in sé stesso la vita, più è sviluppata ed estesa la sua facoltà di entrare in contatto con la vita che alberga nelle cose. Ogni conoscenza si compie per empatia vitalista e non per deduzione intellettuale, implica la simpatia esistenziale e non l’analisi scientifica.

L’Indiano contro il ricercatore di laboratorio.

Un grande scienziato è un grande vivente.




Il chiaro e il distinto non costituiscono dunque l’orizzonte insuperabile della filosofia. Il Poeta si preoccupa dell’immagine, non del vero. Dell’efficacia empatica, non della persuasione laboriosa. Thoreau non aspira a dimostrare, intende suggerire. Meglio una bella Rima – infatti scrive anche dei poemi –, una bella immagine, un bell’effetto, una bella allegoria, una bella favola – che una dimostrazione irreprensibile. La corporazione dei professori direbbe che Thoreau pratica l’assertorio da selvaggio e rifiuta l’apodittica dei civilizzati. (E che per questo motivo non otterrà il diploma).

La tradizione filosofica rivendica i Lumi.

Da Platone in poi, il filosofo si illumina al fuoco delle idee intelligibili e l’oscurità è la sorte riservata agli abitanti della caverna, ai non-iniziati, alla maggioranza, al volgo. Il lavoro filosofico esige dunque che sia sempre portata la fiaccola della conoscenza e del sapere nel tugurio del mondo delle tenebre. Anche i pensatori apologetici del cristianesimo associano la luce alla verità rivelata e l’oscurità al mondo demoniaco.




Thoreau mette i piedi dove non dovrebbe facendo esplicitamente la critica dei lumi e prendendo nettamente partito per l’oscurità. Il pensatore americano ha un bel credersi indenne dai condizionamenti del suo tempo, che è comunque l’epoca dei ‘temporali desiderati’ dell’autore di Atala o delle Avventure dell’ultimo degli Abenceragi – anche lui grande ammiratore di Indiani e autore di un Viaggio in America (1827). Il temporale, la tempesta, gli elementi scatenati, il sublime della natura, sono cose che non dispiacciono a Thoreau, come non dispiacciono a Chateaubriand.

Il teorico che esalta l’eccellenza di una buona immagine e il suo primato sul ragionamento in materia di conoscenza, per illustrare il suo discorso racconta un aneddoto preso in prestito da Niépce, scopritore del ‘principio di attinide’. L’inventore della fotografia aveva in effetti constatato che i raggi del sole danneggiano la struttura del granito. Se esistesse solo la luce, senza il suo doppio e il suo complemento, l’oscurità, la pietra si sfalderebbe prestissimo e si ridurrebbe in polvere. Ma esiste un contropotere a questo effetto: di notte, i corpi rovinati recuperano la loro integrità grazie all’effetto dell’oscurità. Non c’è luce, quindi, senza ombra – affinché la vita esista e duri.




Ciò che è vero per la geologia vale al di là di questo piccolo mondo, in quanto la natura è animata da un principio che, attivo in un punto infimo, lo è altrettanto in uno spazio infinito: la forza, la vita, l’energia che rendono possibile la magia di una formica spiegano anche l’ordinamento dei pianeti, i loro corsi e i loro moti.

La legge che vale per il granito vale anche per la conoscenza: la luce esiste in abbondanza, perciò bisogna coltivare l’oscurità. Così, quando si scrive, occorre mirare all’effetto che si intende produrre nel lettore. In questo ordine di idee non bisogna esprimersi né con eccessiva completezza, né con troppi particolari. Non occorre sforzarsi di offrire un resoconto assolutamente fedele delle cose. In compenso, la strada giusta è quella di suggerire, evocare e sollecitare nel lettore un’emozione in grado di permettere la trasmissione e la comunicazione veritiera. Da qui l’interesse per le frasi dense, enigmatiche, sintetiche, nelle quali si trovano condensate intere biblioteche – ‘frasi tali che, per costruirle, un uomo venderebbe i suoi castelli e le sue terre’ (Journal, agosto 1851).




Ecco dunque il discorso sul metodo del filosofo Henry Thoreau: elogio della saggezza indiana, dell’intuizione, della simpatia e dell’empatia con la materia del mondo; esaltazione di una conoscenza soggettiva; cultura dell’oscurità; inclinazione a suggerire più che ad affermare; preferenza accordata all’immagine, alla poesia, all’allegoria, rispetto al discorso, alla filosofia e alla dimostrazione; rivendicazione di una fenomenologia sensista; oltre alla figura dell’Indiano, in compagnia dell’Eremita e del Bramino; culto della semplicità e dei temperamenti ad essa associati: il Bambino, il Semplice di spirito, l’Incolto.

La cultura infatti allontana dalla natura, corrompe la verità di un essere che coincide con la sua semplicità.

Fustigando il ‘preteso sapere’, Thoreau osserva che la conoscenza si ottiene spesso a detrimento della natura, che viene ignorata, negletta, sciupata o maltrattata. Gli esseri semplici invece non la danneggiano affatto. Il filosofo rimanda più volte all’ignoranza socratica di chi sa di non sapere nulla – o poco, molto poco, e che questo poco confina col nulla rispetto all’ampiezza di tutto ciò che ignora.




Sin dal termine dei suoi studi, Thoreau cominciò a criticare aspramente la modernità, caratterizzata dal trionfo dei mercanti, dei tecnici, degli ingegneri, dei banchieri, dei commercianti e di tutti coloro che in quel periodo stavano edificando l’America trionfante che tanto affascinava il Tocqueville della Democrazia in America. Il filosofo non ama le città, il denaro, il commercio, le fabbriche, l’industria; preferisce la campagna, l’autosussistenza, la produzione per il consumo personale, e quella che definisce ‘l’economia di vita’, altrove chiamata anche… la filosofia.

Contro questo regno americano del denaro, che si sposa così bene al puritanesimo, si vedono fiorire parecchie comunità fourieriste. Fruitland, come abbiamo visto, ma anche un certo numero di esperienze promosse da discepoli dell’autore del Nuovo mondo industriale e societario, come Victor Considérant, Albert Brisbane, George Ripley, i quali credono che la salvezza, e anche la felicità, degli uomini passino attraverso soluzioni collettive e comunitarie alternative al modo di produzione capitalistico liberale.





Contro il predominio del mercato, gli utopisti credono nel piano eudemonista e nella riorganizzazione paradisiaca della società. In questa disposizione d’animo, ma andando oltre il fourierismo, John Adolphus Etzler pubblica nel 1833 The Paradise within the Reach of all Men, without Labor, by Powers of Nature and Machinery [Il paradiso alla portata di tutti gli uomini, senza lavoro, per mezzo della potenza della natura e della meccanica], un successo ai suoi tempi.... 

(M. Onfray; Fotografie di A. Masuri)















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