giuliano

lunedì 27 settembre 2021

LA PERCEZIONE DELLA REALTA' (43)

 






























Precedenti capitoli:


Circa la percezione della realtà (42)


& una visione della stessa...


Prosegue con il...:


Patrimonio naturale (44/5)








Che l’animale non parli è così una teoria generale che condanna l’animale a non parlare in un modo preventivo e universale, pre-scrivente (alla lettera), discorso dunque violento, discorso sull’animale, padronanza innaturale sull’animale. Discorso che non si dispiace dell’ostinazione dell’animale a non parlare, discorso che anzi se ne compiace rassicurandosi sulla propria superiorità giuridica, ontologica, religiosa. Salvo poi in un’economia distorta, se non perversa, rivendicare dei diritti per gli animali, animali che sono stati preventivamente separati, sequestrati dalla vita dell’uomo e dal suo proprio limite.

 

Il sequestro raddoppiato e violento, falsamente universalizzante, dell’animale come vivente che non parla, si struttura originariamente in una relazione bipolare: uomo e animale. Perciò il rigore di questa posizione implica che la dottrina dell’animale come non parlante si costituisca come dottrina dell’animale come non rispondente.

 

L’animale potrebbe, eventualmente, anche parlare. L’evoluzione della natura potrebbe portare gli animali (pensiamo agli animali domestici sempre più abitati, sempre più avvolti dal luogo del nostro desiderio) a parlare. Ma in ogni caso gli animali non potrebbero rispondere. È nella risposta lo strappo dalla bestia, il costituirsi del simbolico, la capacità di un rapporto cosciente.




Derrida incalza nell’attaccare implacabilmente questa strategia di discorso che coincide per lui come una battaglia per una diversa e più umana concezione della ragione.

 

Proprio di un certo male che è insito in questa parola vorrei cercare di parlare cominciando col balbettare alcuni chimerici aforismi.

 

L’animale che sono, parla?

 

È una domanda intatta, vergine, nuova e a venire, una domanda del tutto nuda.

 

Al di là del racconto biblico – nota Derrida – sembra che nel discorso occidentale ricorra un identico schema.

 

Quale schema?

 

Il proprio dell’uomo, la sua superiorità sull’animale come della Natura, il suo stesso diventar-soggetto, la sua fuoriuscita dalla natura, la sua socialità, il suo accesso al sapere e alla tecnica, tutto questo e tutto ciò che costituisce il proprio dell’uomo (in un numero infinito di predicati), deriverebbe da questa mancanza originaria, da questo difetto di proprietà, da questa proprietà umana come mancanza di proprietà – e al “si deve” che trova qui la sua forza e il suo impulso.




 Heidegger è l’ultimo dei grandi autori della tradizione filosofica che Derrida esamina in questo testo nel suo corpo a corpo con la pensabilità dell’animale, problema intrecciato in modo originario quanto enigmatico alla pensabilità dell’umano. Il testo preso in considerazione dal filosofo francese è il seminario degli anni ’29-’30 che si intitola: Concetti fondamentali della metafisica.

 

Il nodo cruciale di questo testo heideggeriano, da cui prende l’avvio e a cui ritorna la lettura derridiana, è la questione dell’‘in’ quanto tale come ciò che manca all’animale (e quindi dell’intera Natura qual vero specchio e riflesso della stessa). È l’‘in’ quanto tale, come struttura, che manca all’animale. Heidegger, osserva Derrida, tiene a sottolineare che questo in quanto tale non dipende dal linguaggio, dal logos.

 

‘Quando si dice in effetti che l’animale non ha il logos, questo vuol dire, innanzitutto, che egli non ha l’‘in’ quanto tale che fonda il logos’.

 

Ecco perché è alogon.




 D’altra parte il logos è ingannevole, perché è in grado di far credere che è quello che non è: allora il logos mette in secondo piano. All’animale-Natura-Mondo- il logos non è dato perché l’animale ‘mondano’ è assorbito dal conflitto pulsionale del suo comportamento: ciò con cui l’animale è in relazione non gli è dato nel suo essere in quanto tale.

 

Per Heidegger l’‘in’ quanto tale è una determinazione essenziale della struttura del mondo. Da ciò segue che l’‘in’ quanto è dato come un possibile punto di attacco del problema del mondo. L’‘in’ quanto infatti funziona come un’enunciazione che è la forma ordinaria della parola umana. Riferire il problema dell’animale al problema della parola è, per l’Heidegger, inserire tale problema nel quadro di una triade di termini che è: mondo (Welt), finitezza (Endlichkeit), solitudine (Einsamkeit).

 

Derrida esordisce con l’avvertirci che per Heidegger in questo testo del ’29, animalità è nozione parlabile in relazione alla nozione di tonalità (Stimmung). La Stimmung è nozione non completamente padroneggiabile in una forma di pensiero razionale e cosciente, d’altra parte non sembra adeguatamente circoscrivibile all’interno dell’opposizione tra conscio e inconscio. Semmai sarebbe padroneggiabile in quell’altra opposizione tra sonno e veglia, che si annuncia come più radicale della prima.




Secondo Aristotele il sonno non significa non essere svegli, ma costituisce piuttosto un tipo di legame, un legame più stretto, che non permette di accogliere l’altro.

 

Che cosa vuol dire destare una tonalità?

 

Le questioni della tonalità, del tedio, sono poste, nella seconda parte di questo seminario, come indisgiungibili dalla questione del mondo. Il mondo del resto si intreccia alla solitudine e alla finitezza e, con questi altri due termini si radica nella questione del tempo, secondo una mossa già presente in Essere e Tempo.

 

L’animale [come la Natura] ha il tempo?: questa domanda  spiazza e ridefinisce la formulazione classica della domanda sull’animale:

 

‘L’animale (così come la Natura) ha la parola?’.

 

Per Heidegger la questione dell’animale è la questione del tempo, che si pone in rapporto al mondo. In definitiva, nota Derrida, la questione del mondo coincide con la questione dell’istante (Augenblick).

 

Che cosa è l’istante?




A tale questione si riconducono anche le questioni su che cosa è la finitezza e su che cosa è la solitudine. Curiosamente – qui Derrida coglie una classica movenza della strategia heideggeriana –, poche righe dopo il filosofo tedesco dice che la finitezza è l’elemento unificante dei tre. Non è più la temporalizzazione, ma è invece la finitezza che è dichiarata comandare il percorso del seminario. Esattamente come in Essere e Tempo, il tempo è concepito come orizzonte trascendentale della questione dell’essere.

 

Allora ciò che l’uomo e l’animale (ovvero la Natura) hanno in comune è la finitezza, una certa finitezza. Sono mortali tutti e due. Non c’è finitezza della pietra: l’animale è finito come l’uomo, ma non propriamente come l’uomo. L’animale non ha la finitezza come l’uomo, come non ha la parola, come non muore. Nel par. 42 (II parte, Cap. II) Heidegger propone di paragonare tre tesi:

 

1. La pietra è senza mondo,

 

2. L’animale è povero di mondo,

 

3. L’uomo è formatore di mondo.

 

Queste tesi, osserva Derrida, sono tesi che riguardano il mondo, più che la pietra, più che l’animale, più che l’uomo.




 Ma che cosa è il mondo perché Heidegger possa dire queste cose?

 

Sembra che Heidegger confessi: non sappiamo che cosa è il mondo!

 

Heidegger ci propone in questo seminario, commenta Derrida, un nuovo e terzo modo di interrogarsi su che cosa è il mondo.

 

Ciò avviene secondo tre cammini.

 

Il primo cammino è dato dalla storiografia: la storia della parola mondo. Ma questo è solo un’appendice.

 

Il secondo cammino è la storia della formazione del concetto racchiuso in tale parola. Questo cammino riguarda il rapporto tra il cosmo greco e la concezione cristiana del mondo, che si sedimenta nella nozione di realtà creata. L’uomo è parte di tale realtà ma è anche uno che è di fronte al mondo e ha il mondo. L’uomo è perciò padrone e servitore del mondo.

 

Ma ad Heidegger interessa – dice il filosofo francese – un terzo cammino che è proprio quello intrapreso in questo seminario. Come afferrare il fatto che l’animale-Natura non ha il mondo come l’uomo?




Bisogna riandare alle tesi sulla pietra, sull’animale, sull’uomo. Anche qui il termine medio, questa volta l’animale, ha il privilegio di chiarire e unificare gli altri due. L’animale è povero di mondo… Si coglie qui l’essenza dell’animalità dell’animale, la natura vivente del vivente.

 

Ora la natura dell’animalità dell’animale e la natura dell’umanità dell’uomo hanno in comune ‘la possibilità di morire’. Siccome l’animale muore, a partire da ciò Heidegger pone la questione dell’essenza dell’animalità a partire dall’essenza del vivente.

 

Ma il Dasein è un esistere che non è essenzialmente un vivente. Questa circolarità (animale-uomo-vivere-morire-esistere) è vertiginosa, dice Heidegger. Costituisce una vertigine perturbante.

 

Che è l’animale?

 

Domanda che significa, nel contesto di/per Heidegger chiedersi: che cosa è il mondo?




L’animale, affermava prima il filosofo tedesco, è povero di mondo, povero non nel senso di un meno ma nel senso di una privazione: l’animale è privato del mondo. Il privato, il non proprio, lo si coglie nell’animale: l’animale ha il mondo nel modo del non averlo.

 

Heidegger dice che l’animale si sente povero di mondo. Si tratta di una tonalità, di un sentimento: l’animale si sente privato del mondo. Egli è come chiuso, rinserrato in questo sentimento di stordimento. La lucertola, ripete mille volte Heidegger, ha rapporto con le pietre, ma non in quanto tali, ha rapporto con il sole, ma non in quanto tale. Si potrebbe azzardare l’affermazione secondo cui per il filosofo tedesco l’animale è l’essere in cui si manifesta che il proprio è il significato, ma che tale significato propriamente non lo si ha.

 

Tuttavia ciò sembra accessibile per Heidegger nel modo del sentimento, in questo discostandosi dalla grande tradizione della filosofia, da Platone a Lacan, che pone la povertà di mondo, la privazione in un discorso che implica, come Derrida richiama, l’illusione, la violenza, lo spergiuro, la menzogna.

 

In ogni caso parlando dell’animale si parla sempre dell’uomo, nella tenerezza e anche nella mostruosità dei bestiari medievali, fitta popolazione di personaggi ironici, mentitori, rappresentanti di passioni umane.

 

(G. Dalmasso)










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