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La doppia Anima (delle api) (49)
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Il Fiore e l'Universo (con dedica al Buddha) (51)
Un grande alveare affollato di api, che viveva nel lusso e negli
agi, e, tuttavia, tanto famoso per leggi e armi, quanto fecondo di numerosi e
vitali sciami, era considerato la grande culla delle scienze e delle arti. Mai
api ebbero governo migliore, né mai furono più inquiete e scontente. Esse non
erano schiave di una tirannide, né governate da una rozza democrazia, ma da re,
che non facevano ingiustizia perché la legge ne limitava il potere.
Molto affollato era il fecondo alveare, ma era proprio il gran
numero a farlo prosperare. Milioni di esseri si sforzavano d’appagare la
reciproca sfrenatezza e vanità, mentre altri milioni erano intenti a consumare l’ingegnoso
lavoro di quelli. Rifornivano metà dell’universo, e avevano, tuttavia, più
lavoro che lavoratori. Alcuni, con poca fatica e molto denaro, si lanciavano in
affari di gran guadagno, altri erano condannati alla falce e alla vanga e a
quei duri e pesanti mestieri nei quali miserabili di buona volontà si
affaticano ogni giorno e logorano forze e braccia, per mangiare. Mentre altri
facevano mestieri per i quali pochi fanno apprendistato, che non richiedono che
sfrontatezza e possono essere avviati senza un soldo: truffatori, parassiti,
mezzani, giocatori, borsaiuoli, falsari, ciarlatani, indovini, e tutti quelli
che, con inimicizia, astutamente volgono senza scrupoli a loro vantaggio la
fatica del prossimo buono, ma malaccorto. Costoro venivano chiamati furfanti
ma, eccetto che per il nome, da essi non differivano quelli che lavoravano
veramente. Mestieri e impieghi avevano tutti i loro imbrogli, non c'era professione
che non avesse i suoi trucchi.
Ma chi potrebbe ridir tutti gli inganni? Persino i rifiuti che si
vendevano per strada come concime per ingrassar la terra, spesso erano, per un
quarto, mescolati con pietre e ciottoli inutilizzabili, e il contadino
brontolava lui che vendeva burro pieno di sale.
Così ciascuna parte era piena di vizi, ma l’insieme un paradiso;
adulate in pace e temute in guerra, erano rispettate dagli stranieri e,
prodighe delle loro ricchezze e delle loro vite, erano la bilancia di tutti gli
altri alveari. Tali erano le benedizioni di questo Stato: le loro stesse colpe
contribuivano alla loro grandezza, e la virtù, che dalla politica aveva appreso
mille astuzie, per questa felice influenza era diventata amica del vizio; e,
quindi, anche la peggiore delle api faceva qualche cosa per il bene comune.
Ma come è vana la felicità dei mortali! Avessero esse solo
conosciuto i limiti della felicità, e che la perfezione quaggiù è più di
quel che gli dèi possono concedere, le insensate che brontolavano se ne
sarebbero state contente coi loro ministri e col loro governo. Ma esse invece,
a ogni insuccesso, come creature perdute senza riparo, maledicevano politici,
esercito, flotta, e ognuna gridava: Abbasso gli imbrogli! e ingiustamente, benché
consapevole dei propri, non voleva sopportare quelli degli altri.
Alla minima cosa mal fatta e che intralciava gli affari pubblici
tutte quelle malandrine senza pudore gridavano: Santi dèi, se solo ci fosse un
po’ di onestà! Mercurio sorrideva a tanta impudenza e gli altri chiamavano
mancanza di buon senso questo inveire contro quel che amavano, ma Giove, preso
da indignazione, alla fine, irato, giurò che avrebbe liberato lo schiamazzante
alveare dalla frode, e lo fece. In quel preciso momento questa si allontana e
l'onestà colma i loro cuori e mostra loro, come il famoso albero, quelle colpe
di cui esse si vergognavano e che in silenzio ora confessano, arrossendo per le
loro cattiverie, come bimbi, che vorrebbero nascondere una monelleria e, col
rossore, rivelano i loro pensieri, immaginando, se qualcuno li guarda, che gli
si legge in fronte quel che hanno fatto.
Ma, o dèi, quale costernazione! Che grande e repentina
trasformazione! In mezz’ora, in tutta la nazione, la carne diminuì di un penny per
libbra, cadde la maschera dell’ipocrisia al grande statista ed al villano, ed
alcuni, notissimi nel falso aspetto che avevano assunto, apparvero, al
naturale, come stranieri. Da quel giorno il tribunale fu vuoto, poiché adesso i
debitori pagavano spontaneamente anche i debiti che i creditori avevano
dimenticato, e costoro li rimettevano a quelle che non potevano pagare. Quelle
che erano in torto tacevano e lasciavano cadere i processi cavillosi e
vessatori, dal momento che niente poteva prosperare meno degli avvocati in un
alveare onesto, tutti, eccetto quelli che avevano guadagnato abbastanza, con i
loro calamai se ne andarono in frotta.
Guardate ora il glorioso alveare e vedrete come onestà e commercio
vanno d’accordo. Ma lo spettacolo dura poco, rapidamente si dilegua e mostra
tutt’altro aspetto, poiché, non soltanto se ne sono andate quelle che ogni anno
spendevano grandi somme, ma molte, che ci vivevano sopra, sono anch’esse
quotidianamente obbligate ad andarsene. Invano hanno tentato altri mestieri,
tutti sono ugualmente affollati.
Crolla il prezzo della terra e delle case; meravigliosi palazzi,
le cui mura, come quelle di Tebe, vennero innalzate con la musica, devono esser
dati in affitto, e gli dèi familiari, un tempo lieti nelle ricche dimore, avrebbero
preferito morire tra le fiamme piuttosto che vedere la volgare scritta sulla
porta irridere a quelle superbe di cui si adornarono. L’arte del costruire è
ormai finita, gli artigiani sono senza lavoro. Non c’è più un sol pittore
famoso per la sua arte, e sconosciuti sono gli scalpellini e gli scultori.
E mentre vanità e lusso diminuiscono, anche le vie del mare sono
abbandonate. Non ci sono più mercanti, e intere fabbriche vengono chiuse. Tutte
le arti e i mestieri sono negletti: l’accontentarsi del proprio stato, rovina
dell’industria, le induce ad apprezzare i prodotti del paese e a non cercare né
desiderare altro. In così poche rimangono nel grande alveare, che non possono
difenderne la centesima parte dagli attacchi dei numerosi nemici, ai quali tuttavia
esse resistono valorosamente, finché si ritirano in un rifugio fortificato, e
qui difendono il loro territorio o muoiono. Non ci sono mercenari nel loro
esercito, e, poiché combattono eroicamente per la patria, il loro coraggio e la
loro lealtà sono infine coronati da vittoria. Ma trionfarono non senza perdite:
molte migliaia di api perirono. Indurite dalla fatica e dall’esercizio, considerarono
un vizio lo stesso riposo, e ciò rafforzò talmente la loro sobrietà che, per
evitare ogni eccesso, volarono nel cavo di un albero tutte soddisfatte e
oneste.
Morale
Cessate dunque di brontolare: soltanto i pazzi si sforzano di far diventare onesto un grande alveare. Godere dei piaceri del mondo, essere famosi in guerra, e pure vivere in pace, senza grandi vizi, è una vana utopia dell’intelletto. Frode, lusso e superbia debbono esistere fino a quando ne cogliamo i benefici. La fame è una piaga spaventosa, non c’è dubbio, ma senza d’essa, chi digerisce e gode buona salute?
Cessate dunque di brontolare: soltanto i pazzi si sforzano di far diventare onesto un grande alveare. Godere dei piaceri del mondo, essere famosi in guerra, e pure vivere in pace, senza grandi vizi, è una vana utopia dell’intelletto. Frode, lusso e superbia debbono esistere fino a quando ne cogliamo i benefici. La fame è una piaga spaventosa, non c’è dubbio, ma senza d’essa, chi digerisce e gode buona salute?
Non dobbiamo il vino alla vite misera e contorta che, fin quando
cresceva liberamente, soffocava le altre piante e dava solo legna, ma ci
allietò del suo nobile frutto quando fu legata e potata?
Così il vizio diventa benefico quando è sfrondato e corretto dalla
giustizia. Anzi, se un popolo aspira a essere grande, il vizio è necessario
allo Stato quanto la fame per mangiare. La virtù da sola non può far vivere le
nazioni nello splendore; coloro che vorrebbero far tornare l’età dell’oro
insieme con l’onestà debbono accettare le ghiande.
Bernard de Mandeville
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