giuliano

martedì 12 giugno 2018

LA FAVOLA DELLE API (50)




















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La doppia Anima (delle api) (49)

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Il Fiore e l'Universo (con dedica al dio Budha) (51)













Un grande alveare affollato di api, che viveva nel lusso e negli agi, e, tuttavia, tanto famoso per leggi e armi, quanto fecondo di numerosi e vitali sciami, era considerato la grande culla delle scienze e delle arti. Mai api ebbero governo migliore, né mai furono più inquiete e scontente. Esse non erano schiave di una tirannide, né governate da una rozza democrazia, ma da re, che non facevano ingiustizia perché la legge ne limitava il potere.

Molto affollato era il fecondo alveare, ma era proprio il gran numero a farlo prosperare. Milioni di esseri si sforzavano d’appagare la reciproca sfrenatezza e vanità, mentre altri milioni erano intenti a consumare l’ingegnoso lavoro di quelli. Rifornivano metà dell’universo, e avevano, tuttavia, più lavoro che lavoratori. Alcuni, con poca fatica e molto denaro, si lanciavano in affari di gran guadagno, altri erano condannati alla falce e alla vanga e a quei duri e pesanti mestieri nei quali miserabili di buona volontà si affaticano ogni giorno e logorano forze e braccia, per mangiare. Mentre altri facevano mestieri per i quali pochi fanno apprendistato, che non richiedono che sfrontatezza e possono essere avviati senza un soldo: truffatori, parassiti, mezzani, giocatori, borsaiuoli, falsari, ciarlatani, indovini, e tutti quelli che, con inimicizia, astutamente volgono senza scrupoli a loro vantaggio la fatica del prossimo buono, ma malaccorto. Costoro venivano chiamati furfanti ma, eccetto che per il nome, da essi non differivano quelli che lavoravano veramente. Mestieri e impieghi avevano tutti i loro imbrogli, non c'era professione che non avesse i suoi trucchi.




Ma chi potrebbe ridir tutti gli inganni? Persino i rifiuti che si vendevano per strada come concime per ingrassar la terra, spesso erano, per un quarto, mescolati con pietre e ciottoli inutilizzabili, e il contadino brontolava lui che vendeva burro pieno di sale.

Così ciascuna parte era piena di vizi, ma l’insieme un paradiso; adulate in pace e temute in guerra, erano rispettate dagli stranieri e, prodighe delle loro ricchezze e delle loro vite, erano la bilancia di tutti gli altri alveari. Tali erano le benedizioni di questo Stato: le loro stesse colpe contribuivano alla loro grandezza, e la virtù, che dalla politica aveva appreso mille astuzie, per questa felice influenza era diventata amica del vizio; e, quindi, anche la peggiore delle api faceva qualche cosa per il bene comune.

Ma come è vana la felicità dei mortali! Avessero esse solo conosciuto i limiti della felicità, e che la perfezione quaggiù  è più di quel che gli dèi possono concedere, le insensate che brontolavano se ne sarebbero state contente coi loro ministri e col loro governo. Ma esse invece, a ogni insuccesso, come creature perdute senza riparo, maledicevano politici, esercito, flotta, e ognuna gridava: Abbasso gli imbrogli! e ingiustamente, benché consapevole dei propri, non voleva sopportare quelli degli altri.




Alla minima cosa mal fatta e che intralciava gli affari pubblici tutte quelle malandrine senza pudore gridavano: Santi dèi, se solo ci fosse un po’ di onestà! Mercurio sorrideva a tanta impudenza e gli altri chiamavano mancanza di buon senso questo inveire contro quel che amavano, ma Giove, preso da indignazione, alla fine, irato, giurò che avrebbe liberato lo schiamazzante alveare dalla frode, e lo fece. In quel preciso momento questa si allontana e l'onestà colma i loro cuori e mostra loro, come il famoso albero, quelle colpe di cui esse si vergognavano e che in silenzio ora confessano, arrossendo per le loro cattiverie, come bimbi, che vorrebbero nascondere una monelleria e, col rossore, rivelano i loro pensieri, immaginando, se qualcuno li guarda, che gli si legge in fronte quel che hanno fatto.

Ma, o dèi, quale costernazione! Che grande e repentina trasformazione! In mezz’ora, in tutta la nazione, la carne diminuì di un penny per libbra, cadde la maschera dell’ipocrisia al grande statista ed al villano, ed alcuni, notissimi nel falso aspetto che avevano assunto, apparvero, al naturale, come stranieri. Da quel giorno il tribunale fu vuoto, poiché adesso i debitori pagavano spontaneamente anche i debiti che i creditori avevano dimenticato, e costoro li rimettevano a quelle che non potevano pagare. Quelle che erano in torto tacevano e lasciavano cadere i processi cavillosi e vessatori, dal momento che niente poteva prosperare meno degli avvocati in un alveare onesto, tutti, eccetto quelli che avevano guadagnato abbastanza, con i loro calamai se ne andarono in frotta.




Guardate ora il glorioso alveare e vedrete come onestà e commercio vanno d’accordo. Ma lo spettacolo dura poco, rapidamente si dilegua e mostra tutt’altro aspetto, poiché, non soltanto se ne sono andate quelle che ogni anno spendevano grandi somme, ma molte, che ci vivevano sopra, sono anch’esse quotidianamente obbligate ad andarsene. Invano hanno tentato altri mestieri, tutti sono ugualmente affollati.

Crolla il prezzo della terra e delle case; meravigliosi palazzi, le cui mura, come quelle di Tebe, vennero innalzate con la musica, devono esser dati in affitto, e gli dèi familiari, un tempo lieti nelle ricche dimore, avrebbero preferito morire tra le fiamme piuttosto che vedere la volgare scritta sulla porta irridere a quelle superbe di cui si adornarono. L’arte del costruire è ormai finita, gli artigiani sono senza lavoro. Non c’è più un sol pittore famoso per la sua arte, e sconosciuti sono gli scalpellini e gli scultori.

E mentre vanità e lusso diminuiscono, anche le vie del mare sono abbandonate. Non ci sono più mercanti, e intere fabbriche vengono chiuse. Tutte le arti e i mestieri sono negletti: l’accontentarsi del proprio stato, rovina dell’industria, le induce ad apprezzare i prodotti del paese e a non cercare né desiderare altro. In così poche rimangono nel grande alveare, che non possono difenderne la centesima parte dagli attacchi dei numerosi nemici, ai quali tuttavia esse resistono valorosamente, finché si ritirano in un rifugio fortificato, e qui difendono il loro territorio o muoiono. Non ci sono mercenari nel loro esercito, e, poiché combattono eroicamente per la patria, il loro coraggio e la loro lealtà sono infine coronati da vittoria. Ma trionfarono non senza perdite: molte migliaia di api perirono. Indurite dalla fatica e dall’esercizio, considerarono un vizio lo stesso riposo, e ciò rafforzò talmente la loro sobrietà che, per evitare ogni eccesso, volarono nel cavo di un albero tutte soddisfatte e oneste.






                                                           Morale



Cessate dunque di brontolare: soltanto i pazzi si sforzano di far diventare onesto un grande alveare. Godere dei piaceri del mondo, essere famosi in guerra, e pure vivere in pace, senza grandi vizi, è una vana utopia dell’intelletto. Frode, lusso e superbia debbono esistere fino a quando ne cogliamo i benefici. La fame è una piaga spaventosa, non c’è dubbio, ma senza d’essa, chi digerisce e gode buona salute?

Non dobbiamo il vino alla vite misera e contorta che, fin quando cresceva liberamente, soffocava le altre piante e dava solo legna, ma ci allietò del suo nobile frutto quando fu legata e potata?

Così il vizio diventa benefico quando è sfrondato e corretto dalla giustizia. Anzi, se un popolo aspira a essere grande, il vizio è necessario allo Stato quanto la fame per mangiare. La virtù da sola non può far vivere le nazioni nello splendore; coloro che vorrebbero far tornare l’età dell’oro insieme con l’onestà debbono accettare le ghiande.

Bernard de Mandeville















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