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i vermi del fuoco (3)
Chi saliva
verso i pinnacoli delle Scogliere di Marmo poteva contemplare in tutta la sua
ampiezza la regione sottoposta a quelle violenze. Onde raggiungere le cime noi
eravamo soliti arrampicarci per la stretta gradinata scolpita nel sasso e che
s’iniziava dalle rocce presso là cucina di Lampusa; i gradini erano lavati
dalla pioggia, e conducevano ad una balza sovrastante, donde si dominava ampio
il cerchio dell’orizzonte. Ivi trascorrevamo ore soleggiate, mentre le vette
risplendevano di variopinte luci, poiché dove le acque filtranti avevano corroso
le bianche rocce, quivi erano sparse larghe strisce rosse e brune. Inoltre
l’edera oscura copriva a tratti le rocce e da esse pendeva in grandiosi
festoni, e le foglie argentee della lunaria brillavano di tra le umide crepe.
Nella
salita il nostro piede sfiorava i rossi tralci di more e spaventava le
lucertole, che fuggendo con bagliori verdastri si nascondevano tra le rocce.
Ove l’erba grassa e costellata di azzurre genziane contornava balze sporgenti,
ivi erano druse di cristallo fregiato incluse nella roccia, nelle cui caverne i
gufi sbattevano gli occhi sognanti. I falchi veloci e dal color bruno della
ruggine ivi si annidavano, e noi passavamo tanto vicini alle covate da vedere
le nari del loro becco, rivestito di una pelle delicata simile ad azzurra cera.
I primi segni del male non furono notati. Quando dalla Campagna giunsero le voci dei tumulti si pensò ad un acuirsi dei vecchi contrasti causati da vendette famigliari; ma ben presto si seppe ch’esse assumevano aspetto nuovo, inusato e ben più cupo. Il primitivo senso d’onore, che aveva dato legge alla violenza, andò smarrito, e rimase il puro misfatto, senza apparente ragione. Sembrava che agenti e spie, venuti dalle foreste, fossero entrati a far parte delle fazioni per impadronirsene a scopi estranei. In questo modo le vecchie forme persero ogni loro senso. Un tempo, se avveniva di trovare ad un bivio un cadavere con la lingua forata dal pugnale, non vi era dubbio che un traditore ivi era caduto, vittima di vendicatori lanciati sulle sue tracce. Dopo la guerra invece si poteva bensì inciampare ancora in cadaveri che portavano tale segno, ma ciascuno ormai sapeva trattarsi di un semplice misfatto.
In simili
casi la plebaglia, sotto la guida di gente venuta dai boschi, era solita
presentarsi la notte alle fattorie, e se le si rifiutava l’ingresso, le porte venivan
forzate con la violenza. Queste bande eran dette dei ‘Vermi del fuoco’, perché
usavano assalire le case con travi e puntoni, cui erano legate faci ardenti. Il
nome era anche altrimenti interpretato, e cioè dall’uso, ad invasione riuscita,
di sottoporre le genti alla tortura del fuoco per sapere ove fossero nascosti
denari e tesori. Si udiva narrare di codeste bande tutto ciò che di più
abbietto l’uomo possa compiere. E fra l’altro, per diffondere attorno il
terrore, essi eran soliti imballare i cadaveri degli assassinati in ceste od in
barili; e questi funesti carichi erano inviati, assieme alla merce che giungeva
dalla Campagna, alla casa dei famigliari.
Nella Campagna, all’incrocio fra i tratturi e i confini dei vari appezzamenti, si vedevano di solito le statue delle deità dei pastori. Queste deità, custodi dei confini, erano grossolanamente scolpite in pietre od in vecchia quercia, e già di lontano se ne indovinava la presenza dall’odore rancido, che se ne diffondeva. Infatti le tradizionali offerte votive consistevano in calde miscele di burro e di quel grasso della trippa che il coltello sacrificale poneva da parte. Sul verde prato, attorno alle immagini sacre, si vedevano quindi nere macchie di fuochi; e i pastori, compiuta l’offerta, toglievano dal fuoco votivo un ramo annerito, con il quale, la notte del solstizio, segnavano di un marchio il corpo così delle donne come delle bestie che speravano esser feconde.
Se noi
incontravamo in questi luoghi le donne che venivano dalle mungiture, esse
abbassavano sul viso il fazzoletto, che portavano in capo; e il fratello
Ottone, amico e conoscitore delle deità campestri, non passava mai oltre, senza
consacrar loro una parola giocosa. Egli attribuiva loro una antichità
immemoriale e le diceva compagne a Giove sin dall’infanzia del Dio.
Inoltre, e
non lungi dal cosiddetto ‘Corno del Carnefice’, si trovava un boschetto di
salici piangenti, ov’era la immagine di un toro con rosse narici, rossa lingua
e il membro colorito in rosso: il luogo era malfamato e correvano voci che vi
si compiessero orribili cose.
Ma nessuno avrebbe mai pensato doversi adorare alla Marina le deità del lardo e del burro, che davano latte alle mammelle delle vacche; eppure ciò avveniva da parte di gente che da tempo motteggiava la religione tradizionale e le sue cerimonie sacrificali. Quegli stessi spiriti che si erano ritenuti abbastanza forti per sottrarsi ai vincoli dell’antica religione degli avi furono soggiogati dalla magia di barbari idoli. E lo spettacolo offerto da un simile traviamento era più ripugnante che non il vedere un ubriaco a mezzogiorno: costoro s’illudevano di alti voli e se ne gloriavano, mentre si avvoltolavano nel fango.
Il
Forestaro non amava né i borghi contadineschi né gli eremi dei poeti né alcun
altro luogo dove l’attività fosse meditata e pensata. Il meglio fra ciò che
aveva dimora nei suoi territori era una masnada di rozzi birboni, per i quali
la gioia del vivere consisteva nel cercare una pista e nel dar la caccia alla
selvaggina o all’uomo, devoti al vecchio di padre in figlio. Costoro erano gli
ottimati della landa, mentre quei piccoli Cacciatori, che vedevamo alla Marina,
venivano da strani villaggi, che il vecchio sostentava nel profondo recesso
della foresta d’abeti.
Quando le onde della distruzione più aspramente si frangevano contro le Scogliere di Marmo, la memoria del tempo trascorso presso i Mauretani riviveva in noi, e consideravamo la forza come unica salvezza. Le potenze in contrasto alla Marina si equilibravano ancora in modo da permettere anche a poche forze di far traboccare la bilancia dall’uno dei lati; e sino a quando le leghe lottavano l’una contro l’altra, sino a quando Biedenhorn con le sue soldatesche rimaneva dubbioso, il Forestaro poteva contare su poca gente.
Noi progettavamo assieme a Belovar e la sua gente di dar la caccia, nottetempo, ai Cacciatori, e d’impiccarne alla crocevia quanti se ne potesse cogliere, parlando così ai gauchos dei villaggi dell’abetaia l’unico linguaggio loro comprensibile. Quando discutevamo di tali piani il vecchio agitava per la gioia il suo largo pugnale nella guaina come per un gioco amoroso, e insisteva che dovessimo affilare le tagliole e che le mute dei cani avrebbero digiunato, per prepararsi alla caccia, sino a quando lasciassero penzolare le rosse lingue a terra per cupidigia di sangue. Ed anche noi ci sentivamo pervadere le membra dall’impulso alla violenza come dalle fiamme di un lampo.
Ma se
invece nell’erbario o nella biblioteca ragionavamo con maggiore perspicacia
sulla situazione, decidevamo con animo sempre più fermo di contrastare alla
violenza solo mediante la pura forza dello spirito. Dopo la guerra di Alta
Plana credevamo di aver riconosciuto esservi armi più forti di quelle che
tagliano e trafiggono; e tuttavia si ricadeva a volte, come accade ai bimbi, in
quel mondo infantile, ove lo spavento è onnipossente. Non conoscevamo ancora la
piena padronanza di sé di cui solamente l’uomo è dotato.
A questo
proposito il frequentare padre Lampro ci era di supremo vantaggio. Noi avremmo
deciso anche per nostra ispirazione in tal senso, secondo l’animo che ci aveva
persuasi di ritornare alla Marina; e nondimeno avviene, in una simile
conversione dell’intimo sentire, che altri ci sia vicino per aiuto e conferma.
La presenza del buon maestro ci suggerisce ciò cui dal nostro intimo aneliamo e
ci rende capaci di essere noi stessi; un nobile esempio prende vita e radici
nel profondo del nostro cuore, perché dall’esempio possiamo intuire di che cosa
anche noi siamo capaci.
Si iniziò quindi alla Marina uno strano periodo della nostra vita. Mentre il misfatto si diffondeva per la regione come una crescita di funghiglia nel legno marcio, noi ci approfondivamo sempre più nel mistero dei fiori e il loro calice sembrava a noi più luminoso che non mai prima. Particolarmente proseguivamo il nostro lavoro circa il linguaggio, poiché nella parola sapevamo riconoscere la magica spada il cui lampeggiare fa impallidire la potenza dei tiranni. Trino ed uno sono la Parola, la Libertà e lo Spirito.
Mi è
davvero lecito affermare che la fatica ci era di giovamento. Il mattino ci
risvegliavamo gioiosi e ci pareva di gustare quel buon sapore di sé stessi, di
cui l’uomo nello stato di perfetta salute diviene partecipe. Non ci era
difficile allora il dar nomi alle cose, e nell’Eremo della Ruta noi ci
muovevamo come in uno spazio ove fosse diffusa una potenza magnetica. In una
sottile ebbrezza e quasi cinti di un alone traversavamo le stanze e il giardino
e posavamo le nostre schede sul caminetto.
In consimili giorni e quando il sole era alto nel cielo ascendevano le guglie delle Scogliere di Marmo, passando oltre gli oscuri geroglifici formati dalle lachesi lanceolate, per il sentiero dei serpenti, e salendo quindi per la scala scavata nella roccia, che scintillava chiara al sole. Dalla più alta cresta delle Scogliere, che a mezzodì risplendeva abbagliante e visibile assai da lontano, contemplavamo a lungo la regione attorno, e i nostri sguardi cercavano di spiare i segni della salvezza in ogni piega della terra ed in ogni distesa. Di poi una benda sembrava cadere a noi dagli occhi e vedevamo quella terra al modo come le cose esistono solo nel mondo della poesia, nello splendore della sua indistruttibile vita.
Lietamente
la certezza si esaltava in noi che la distruzione non ha dimora fra gli
elementi e che il suo inganno solo consiste alla superficie delle cose,
similmente alle nebbie, che non possono resistere al raggio del sole. E
presentivamo: se potessimo vivere in celle non distruttibili, oltre ogni fase
della distruzione, noi procederemmo come per aperti portali da una sala in
un’altra sempre più irraggiante di luce.
Di frequente fratello Ottone, quando sostavamo sulle cime delle Scogliere di Marmo, diceva di ritenere che fosse tale il senso della vita umana, di rinnovare la creazione nell’effimero, come il bimbo ripete per gioco l’opera del padre; il significato del seminare e del generare, del costruire e dell’ordinare, della immagine e della poesia essere che in essi la grande opera si annuncia come in specchi formati di un variopinto cristallo, ben presto infranto.
(E. Junger)
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