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Benito
Mussolini
era nato nell’83 a Dovia, una frazione di Predappio in quel di Forlì. Suo padre
Alessandro veniva da una famiglia di piccoli coltivatori diretti che, andati in
rovina, avevano dovuto vendere il podere, e gestiva un’officina di fabbro, ma
ci si dedicava poco, tutto preso com'era dalla politica. Militava nel partito
socialista, che allora si chiamava ‘internazionalista’ e che ancora non si era
liberato dalla sua matrice anarchica. Di questa matrice portava egli stesso ben
visibili le stigmate nel suo acceso massimalismo, che gli valse prima l’ammonizione,
e poi la prigione per sei mesi.
Molti
storici dicono che Alessandro (il
padre) contò molto per la formazione di Benito.
Ma questo ci sembra che valga solo per il carattere, i cui segni ereditari sono
evidenti. Lo stesso nome gli fu dato in omaggio a Benito
Juarez, il rivoluzionario messicano che pochi anni prima aveva fatto
fucilare l’imperatore Massimiliano, così come suo fratello ebbe quello di Arnaldo
in omaggio ad Arnaldo da Brescia. Ma sul piano ideologico non si vede che cosa
Alessandro potesse insegnare al figlio perché nella sua testa c’era soltanto
una gran confusione, come risulta dai pochi scritti in cui si cimentò, e nei
quali si leggono pensieri di questo genere:
‘Il socialismo è la scienza e l’excelsior che
illumina il mondo. E una sublime armonia di concetti, di pensiero e d’azione
che precede al gran carro dell’umano progresso nella sua marcia trionfale verso
alla gran méta del bello, del giusto e del vero’.
Come profitto scolastico il giovane Benito se la cavava abbastanza bene, ma senza molto applicarsi. Fin da allora rivelava una straordinaria facilità a impadronirsi subito d’un argomento riducendolo all’essenziale: il che gli evitava lo sforzo di approfondirlo. Ma sui libri di testo ci stava poco. Preferiva i romanzi, soprattutto quelli ‘sociali’ di scuola francese, da Hugo a Zola; e per leggerli in pace si ritirava nella t o r re campanaria. Ma seguiva anche i giornali, quando riusciva a procurarsene.
Sui sedici anni
prese contatto con la locale sezione socialista, ma non risulta che vi abbia
militato attivamente. Infatti non ostentò mai il distintivo d’obbligo dei
socialisti romagnoli: la cravatta rossa, rimase sempre fedele a quella nera, ch’era
il distintivo, altrettanto d’obbligo, dei repubblicani. Anche come letture,
alla politica non dedicava molto tempo, forse svogliato dai cattivi compendi di
marxismo che suo padre gli aveva propinato da bambino, e oltre i quali sarebbe andato
poco anche da grande. Il suo socialismo era quello dei ‘miserabili’, nonché
degli opuscoli e degli articoli di Costa, di Cafiero, di Cipriani e degli altri
‘internazionalisti’ che allora andavano per la maggiore. Forse l’unico classico
del socialismo che gli entrò nel sangue come il più congeniale fu Babeuf, di
cui lesse quasi tutto e su cui compose anche delle cattive poesie di stampo
carducciano. Come non ebbe amici, così non ebbe amori.
La sua
scuola di galanteria fu il bordello, di cui conservò sempre lo stile grossolano
e spicciativo. Orgoglioso della propria virilità, la trovava incompatibile con
l’abbandono e la tenerezza. Delle molte donne della sua vita, non si concesse a
nessuna, tranne forse l’ultima, Claretta. Le prendeva come il gallo prende la gallina.
Il diploma di maestro con cui tornò a casa nel ’901 non gli servì a trovare un posto. Cercò di rendersi utile dando una mano al padre nell’officina, ma con poco costrutto perché entrambi detestavano il lavoro; e intanto prendeva lezioni di violino da un maestro locale, un certo Montanelli, che bene o male gl’insegnò a strimpellarlo, e sebbene seguitasse a proclamarsi socialista, attività politica non ne svolse.
Le sue
ambizioni sembravano più che altro letterarie perché la maggior parte del tempo
lo passava a buttar giù abbozzi di romanzi che poi lasciava regolarmente a
mezzo. Finalmente il comune socialista di Gualtieri gli offrì una supplenza, che
gli servì solo a capire di essere poco vocato alla pedagogia. Alla fine dell’anno
scolastico egli scrisse all’unico compagno di scuola con cui era rimasto in
corrispondenza, Bedeschi, che lasciava il posto perché non lo pagavano
abbastanza. Ma mentiva. Non gli rinnovavano l’incarico perché, appena arrivato,
aveva sedotto una giovane sposa che, cacciata di casa dal marito, era andata a
vivere con lui: cosa che aveva scandalizzato anche i socialisti, propugnatori
del libero amore, purché praticato lontano dalle loro mogli.
Fu allora
che decise di emigrare in Svizzera.
Vi giunse nell’estate del ’902, e ci rimase quasi due anni e mezzo, salvo un breve rimpatrio per una malattia di sua madre. Fu, per la sua formazione, un periodo importante, ma non per l’esperienza proletaria vissuta e sofferta deliberatamente, come dicono alcuni suoi apologeti. Mussolini fece anche il manovale, il magazziniere e altri umili mestieri perché le circostanze qualche volta ve lo costrinsero. Ma in realtà sin dapprincipio egli cercò di mettere a frutto la propria superiorità d’intelletto e di cultura sugli altri emigrati - povera gente analfabeta o semianalfabeta - dandosi ad attività organizzative e propagandistiche.
Che
la politica seguitasse a interessarlo relativamente, lo dimostra il fatto ch’egli
non cercò contatti con l’ambiente internazionale dei rivoluzionari europei, che
allora avevano in Svizzera una delle loro più fiorenti centrali. Fra gli altri
c’era anche Lenin, con cui pare che
una volta si sia incontrato ma senza sapere chi fosse perché portava un altro
nome.
Mussolini non era attratto dai
loro problemi dottrinari voleva soltanto risolvere quello suo personale con
qualche attività che lo esentasse dal lavoro manuale e perciò prese contatto
col sindacato italiano dei muratori da cui ebbe un sussidio, e col giornale L’avvenire del lavoratore, di cui
ottenne la collaborazione. Furono questi i primi effettivi rapporti ch’egli
strinse col partito socialista, e lo fece per sbarcare il lunario. I proventi
che ne ricavava erano scarsi. Ma ebbe modo di rivelarsi anche a se stesso, come
un efficace comiziante e un polemista incisivo. Sebbene poveri di contenuto e
ancora pieni di smagliature, sul livello medio della pubblicistica socialista
di allora, i suoi articoli facevano spicco per concretezza e polposità.
In aprile fu di nuovo espulso dalla Svizzera perché, essendogli scaduto il passaporto e non potendo rinnovarlo per la sua condizione di disertore, ne aveva falsificato la data. Stavolta dovevano consegnarlo alla polizia italiana, che lo avrebbe avviato alla prigione. Ma appunto per questo i ‘compagni’, sia italiani che svizzeri, organizzarono tali manifestazioni di protesta anche sulla stampa e in Parlamento che la misura fu revocata, e il reprobo, dopo un breve soggiorno in Ticino e in Savoia, poté tornarsene a Losanna.
Fu quella -
dirà più tardi nel breve saggio autobiografico scritto nel carcere di Forlì – ‘un’estate di forte occupazione
intellettuale’. Mantenendosi alla meglio col solito lavoro propagandistico
e integrandone gli scarsi proventi con saltuari impieghi, s’iscrisse all’Università
per seguire i corsi di Vilfredo Pareto, il grande economista e sociologo
italiano che sottoponeva a una critica demolitrice la democrazia e le ideologie
che le fanno da supporto. Non è vero ch’egli ebbe rapporti diretti col Maestro,
come dicono alcuni suoi biografi. Lo smentisce lo stesso Pareto in una lettera
a Placci:
‘Mussolini venne ai miei corsi, ma io non lo
conobbi personalmente’.
È vero però che il giovanotto rimase fortemente impressionato dalle sue lezioni: non tanto forse per la profondità del pensiero ch’egli non era in grado di penetrare, quanto perché esse fornivano un puntello dottrinario alle sue intuizioni. Il disprezzo per le teorie umanitarie, la giustificazione della violenza come forza motrice della Storia e il concetto che questa avesse a protagoniste le minoranze e non le masse, egli già li aveva nel sangue, ereditati dal padre. Ma Pareto glieli mise in bella copia, debitamente autenticati sul piano culturale.
Ora non
frequentava più soltanto i poveri manovali, ma aveva allacciato rapporti con
persone destinate a contare sul seguito della sua avventura politica una di
queste era Giacinto Menotti Serrati,
un socialista di Oneglia di poca scuola e di scarse e abborracciate letture, ma
reduce da avventure alla Jack London. A vent’anni era già delegato al primo
congresso del partito, quello di Genova che aveva proclamato la scissione dagli
anarchici, dei quali egli fu poi sempre il bersaglio. Lo consideravano un
traditore e non smisero mai di denunziarlo come agente provocatore e delatore
al servizio della polizia: un’infame calunnia.
Tutta la sua vita era stata un andirivieni fra tribunale e prigione, intramezzato da espatrii e rimpatrii clandestini. Aveva fatto il mozzo, lo scaricatore di porto a Marsiglia, il terrazziere nel Madagascar, il giornalista a New York, e finalmente era approdato in Svizzera in qualità di propagandista e organizzatore degli emigrati italiani. La sua amicizia con Mussolini - destinata a sfociare dieci anni più tardi nella più accanita e irriducibile inimicizia - nacque soprattutto da una certa affinità di temperamento. Anche Serrati era un autodidatta e un massimalista, senza originalità di pensiero e istintivamente avverso ai Turati, ai Treves e agli altri ‘intellettuali’ del partito. Ma, a differenza di Mussolini, sapeva anche ridere, almeno fin quando non s’impermaliva perché era suscettibilissimo e incapace di controllare i propri furori. Un personaggio insomma di mediocre levatura, ma rispettabile sul piano umano: coraggioso, generoso, onesto, sincero. Lo dimostrò con Mussolini aiutandolo fraternamente a scalare nel partito posizioni sempre più alte, senza mai ingelosirsene, cosa rara fra i politici.
Romperà con
lui unicamente per ragioni ideologiche, e da allora gli sarà nemico nella
stessa misura in cui gli era stato amico.
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