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La città è
completamente al buio perché da otto giorni si stanno svolgendo le grandi
manovre giapponesi. Per una scaletta stretta, rigida e tutta sbocconcellata
scendiamo in un antica cantina nella quale un vecchio cosacco di buona volontà
e la sua donna hanno attrezzato una taverna notturna frequentata dai residui
dell’Armata Bianca della Siberia. Il pavimento è stato arrangiato alla meglio
con un po’ di cemento. Contro le pareti sono situati i tavoli, rozzi e pesanti,
con intorno delle panche da caserma. Il soffitto è basso ed affumicato. Da
molti anni le pareti sono state imbiancate e sono tutte piene di iscrizioni in
russo, a lapis, a carbone, a sugo di pomodoro. Sono cognomi; evviva; insolenza;
maledizioni; date di battaglia; nomi di donne; nostalgie di luoghi e di amori. Sulla
parete di fondo un pittore ha abbozzato col carbone una vecchia veduta di
Pietroburgo coi ponti sulla Nevà e le cupole di Santa Sofia.
Un
pianoforte male in arnese, finito quaggiù chissà come, è il mobile principale
del luogo. Un tipo altrettanto vecchio e scalcagnato quanto lo strumento siede
sopra una cassa vuota dinanzi alla tastiera e ne estrae ballabili
nord-americani o musiche russe a seconda delle preferenze della clientela. Tutto
è povero nella ‘Grotta’, come la chiamano, povero e piuttosto sudicio, ma
contigua allo stanzone principale vi è una piccola cucina dove la moglie del
cosacco confeziona una squisita cucina russa, quale è difficile trovare altrove
a Harbin; i prezzi sono estremamente
modici e la vodka è di buona qualità.
Alla ‘Grotta’ sogliono raccogliersi la notte i cosacchi che non hanno sonno, qualche legionario calmucco o kirghiso che è rimasto a Harbin coi suoi compagni d’arme, cinque o sei colonnelli, due o tre generali, i musici dei ‘dancings’ di Harbin che sulle due chiudono i battenti, alcune donne anziane che sono anch’esse macerie dell’Armata Bianca, varie ragazze giovani, amanti od amiche degli avventurieri cosacchi. E vi fanno capo periodicamente tutti quei russi di Harbin che, maschi o femmine, giovani o vecchi, con soldi o squattrinati, sentono una data sera la nostalgia della vecchia Russia degli Czar e di Rasputin e sanno trovarla alla ‘Grotta’ con vodka e zabruski con musiche e canzoni, con allegrie chiassose e tristezze fonde.
Ogni tanto
vi fanno capolino i pochi capi sopravvissuti alla tormenta, il vecchio generale
Kislitzin, il filosofo Kunst, sicuri di trovarvi qualcuno dei loro antichi
battaglioni o, se non altro, dei cosacchi della loro stessa pasta che hanno
combattuto con Kolciak in Siberia, che hanno visto cadere Resiukin alla
battaglia di Gobi, che hanno condiviso col barone Unzern-Stenberg i fastigi
dell’effimero Regno cosacco di Mongolia che comunque hanno battagliato agli
ordini del generale Bialov, del generale Dutov, del generrale Bakisc, del
generale Kaigorodov, del generale Kazanev, del generale Annekov, del bizzarro
generale Kazagrandi di origine lombarda, dei tanti altri improvvisati generali
bianchi, morti in combattimento nelle steppe gelate della Siberia o fucilati
dai tribunali rossi di Irkutsk, di Novo-Nicolaievsk e di Troitskosavsk.
- Nottata calda!
...mi dice il colonnello nel prendere posto all’unico tavolo ancora libero. Il locale è infatti pieno di gente e di fumo. Nell’atmosfera greve è sospeso un potente odore di tabacco, di alcole, di olio bollente, di pesce in salamoia, di ascelle sudate. Il pianista - una faccia alla Beethoven, ma scolorata e scarnita dai digiuni - martella sul piano una canzonetta popolare russa che vari ubriachi accompagnano dai tavoli canticchiando. In un angolo della vecchia dal mento aguzzo e dalla pelle color sughero sgranocchia avidamente ceci arrostiti ed ogni dieci, dodici ceci si fa il segno ortodosso di croce. Alle pareti sono appese varie fotografie di generali russi in colbàc e pelliccia: ingiallite, affumicate, male incorniciate, preistoriche.
– Quello - mi dice il colonnello indicandomi un ritratto
più grande degli altri, - è l’ammiraglio
Kolciak, capo di tutte le forze bianche della Siberia, fucilato dai bolscevichi
nel 1920 ad Irkustk.
- Viva Kolciak!
…grida
qualcuno che ha inteso nell’ebrezza il nome dell’ammiraglio.
- Viva Kolciak! Ed ancora della vodka per me!
- E’ Ghisleief! precisa il colonnello. - Un valoroso che era aiutante di campo dell’ammiraglio.
Aveva il grado di capitano ed era un tipo in gamba. Oggi la vodka lo ha
abbrutito.
Scoppia uno schiamazzo d’inferno in un angolo tra un gruppo di Kolciakisti ed un gruppo di semionofisti. Tra Kolciak e Semionof i rapporti erano pessimi. La loro rivalità personale sopravvive alla loro morte, nei cuori e nelle ubbriachezze degli ex-dipendenti.
- Kolciak è stato tradito dal generale Sirowy!
urla un
gigante biondo, tutto ciuffo, assestando un tremendo pugno al tavolo che vibra
dolorosamente in tutti i suoi piatti sudici e le zuppiere vuote.
Sirowy? chiedo. -
Il cecoslovacco?
Sì mi
spiega il colonnello, - Sirowy, l’ex
Primo ministro di Cecoslovacchia. Egli
è ben conosciuto da noi. Comandava in Siberia la Legione ceca ed ha combattuto
i bolscevichi di Kolciak. I cosacchi non amavano i cechi i quali facevano la
guerra con troppa ferocia, bruciavano i villaggi, uccidevano donne e bambini. Il
ceco è un popolo feroce! Dove passavano i cechi seminavano il terrore e ciò
contribuì a farci perdere molte simpatie in Siberia, fra i russi e fra i
mongoli.
– Che Dio lo stramaledica! urla la vecchia dei
ceci.
– Rinunziammo all’attacco, continua il generale. – Fu un errore gravissimo che costò la vita
dell’ammiraglio Kolciak e che determinò il crollo di tutta la resistenza bianca
in Siberia. Tre giorni dopo eravamo attaccati noi dai bolscevichi con una
schiacciante superiorità di artiglieria. Migliaia dei nostri caddero. Io fui
ferito quel giorno cinque volte. L’ammiraglio fu catturato al tramonto e
fucilato la notte stessa.
– E i cechi? chiedo.
–
Durante la battaglia, la Legione ceca abbandonò la sua posizione scoprendo il
nostro fianco all’avvolgimento nemico ed occupò per conto suo la stazione, dove
si impadronì di diecimila vagoni vuoti. Sirowy avvertì laconicamente il Comando
che, considerando la battaglia perduta, si ritirava il ferrovia prima che i
bolscevichi diventassero padroni della linea. Era il tradimento vero e proprio!
Sirowy si era messo d’accordo coi russi. le notti durante la battaglia, mentre
i russi combattevano uno contro dieci, 40.000 cechi abbandonarono il campo di
Sirowy.
– Che Dio lo maledica! ripeté la vecchia dei
ceci.
– Il tradimento fu aggravato dal fatto che i
cechi portarono via anche migliaia di vagoni vuoti, per cui quando il generale
Voiciovski ordinò il ripiegamento sulla stazione, trovò che non v’era più un
treno. I cechi s’erano portati via tutti i convogli. Fu per noi il disastro
– Che Dio
lo stramaledica!
insisté la vecchia.
– Fu una
ritirata spaventosa, a cavallo, in slitte, a piedi, per la campagna gelata.
Migliaia di cosacchi morirono di freddo, di fame, di stanchezza sulla
sterminata distesa bianca della Siberia. La ritirata era segnata sulla neve da
una riga interminabile di cadaveri. Quei mille e mille morti russi, Sirowy li
ha tutti sulla coscienza! L’ho dichiarato nettamente nel mio libro ‘Tra le
fiamme della guerra civile’, perché resti un documento per la storia.
Un grande silenzio segue le ultime parole del vecchio generale. Sulle anime e sulle ubriachezze grava il peso di tutti quei mille e mille morti rimasti nella neve. Poi da uno dei tavoli si alza una voce ed intona un canto. Tutti i cosacchi balzano in piedi a far coro. E’ un canto nazionale cosacco: il ‘Sagustie Kazaki’: un po’ religioso, un po’ guerriero, un po’ barbaro: straordinariamente forte. Il vecchio generale lo ascolta in piedi, la mano alla fronte, nel saluto militare. Un soffio di poesia rinfresca e nobilita la taverna miserabile nella quale agonizza – grot-tesca e dolorosa – una epopea.
Nel frattempo era entrata nella taverna una
giovane donna – bellissima – e s’era seduta al tavolo della vecchia dei ceci. Non
doveva avere più di vent’anni. Una di quelle straordinarie bellezze bionde che
si trovano nei vicoli di Harbin.
– Ballaci qualche cosa, Maruscka! le dice qualcuno quando
il coro è terminato e le anime sono tutte sospese verso l’Infinito.
– Ho altro per la testa che ballare, Vassili! risponde la ragazza. –
Maestro, la ‘Glàsaia’, chiedono parecchi. Il pianista attacca il pezzo
sulla tastiera gialla e sdentata che pare anch’essa un frantumo di guerra e di
rivoluzione. Una donna che sta tutta raggomitolata in un angolo, canta per conto suo la canzone senza abbandonare il
suo angolo né il suo raggomitolamento. Ha una voce calda e dolce, con alcune
note basse, aspre e dolenti. Dinanzi le fuma un piatto di cavoli lessi, tra due
bottigliette di vodka, già vuote.
Di scatto,
Màruscka s’alza, si strappa il cappello che libera una formidabile capigliatura
bionda tutta ricci e baleni, si punta le
mani sui fianchi con un gesto mezzo lascivo mezzo guerriero, e fra gli applausi
generali attacca la danza classica cosacca. E’ una danza di maneggio e di
steppa che in certi momenti ha il ritmo dei trotti cadenzati ed in altri
l’impeto dei galoppi a tutta briglia. La danza strappa agli avventori urla
selvagge di entusiasmo. Altre bottiglie finiscono in pezzi sotto le gambe dei tavoli.
– Viva Kolciak! Viva Semionof! si grida. – Abbasso Sirowy! urla il gigante dal ciuffo. – Che Dio li maledica! aggiunge con costanza la vecchia dei ceci.
E
l’esaltazione slava esplode nella bettola fumosa.
Tutti
cantano, gridano, parlano, masticano, tracanna-no, litigano, si abbracciano,
rompono piatti e bottiglie. Le fiamme dei fornelli avvampati intorno alle
padelle proiettano bagliori spettrali sui volti degli uomini e delle femmine.
Le mani battono con cadenza selvaggia il ritmo frenetico del finale della
‘cosacca’. Magnifica è la femmina con la bionda criniera sconvolta dalla danza,
rosse le guance, fiammeggianti gli occhi, palpitante il seno, tutto fremente e
sudato il corpo felino.
– Forza, Màruscka! Brava, Mu-ka! Avanti, Marka!…
(M. Appelius, Al di là della grande muraglia)
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