Precedenti capitoli circa
lo Stato di necessità (10)
& il Lombardo & la Lumaca [11]
Prosegue con il
Prosegue ancora con lo...:
Stato di corruzione (15/4)
…Al tema de
L’osso che canta
ci riportano, invece, molti racconti nei quali, se pur cambiano i motivi
iniziali, l’assassinio ci viene rivelato nelle forme che già conosciamo o
comunque in forme dello stesso tipo.
Così, ad esempio,
un racconto portoghese ci narra di un fratello che uccide il fratello in
seguito alla scoperta di un tesoro (la quale, com’è noto, fa da sfondo a molti
tipi novellistici). Avvenuto il delitto l’ucciso viene seppellito. Sulla sua sepoltura nasce allora una canna.
Un giorno, però, passa lì vicino un pastore, il quale taglia un po’ di quella
canna per farsi un flauto. E il flauto comincia a cantare:
Toca, toca, oh pastor,
Or meus irmnos me mataram,
Por trez maçasinhas de ouro
E ao cabo nao as levaram.
Il pastore
cede il suo flauto, il quale, passando da individuo a individuo (il testo dice:
andiando de individuo pasa individuo),
giunge fra le mani dei genitori del morto. E così canta:
Toca, toca, oh meu pae
Toca, toca, oh minha mne
Os meus irmaos me mataram
Por trez maçasinhas de ouro
E ao cabo nao nas levaram.
Lo stesso motivo delle canne, chè anzi sono esse stesse a cantare e a rivelare il delitto si ritrova in un racconto dell’Alta Bressia, nel quale, movente del delitto, è una questione del tutto futile. C’erano una volta due fanciulli, un fratello e una sorella, che andavano insieme per i campi. Essi incontrarono sul loro cammino un cespuglio di prugnole. Allora si azzuffarono perché ciascuno di essi voleva mangiarsele tutte. La sorella, che era la primogenita, uccide il fratellino, lo sotterra in un campo vicino e rientrando dice ai suoi genitori che suo fratello s’era perduto nel bosco. Dopo qualche tempo la tomba del fratello si ricopre di piante, e in special modo di canne. Una pastorella conduce il suo gregge nel campo ed ecco che le canne si mettono a cantare…
Abbiamo
visto, così, che il tema de L’osso che canta
(quale venne fissato dall’Aarne) si articola, come, del resto, avviene per la
maggior parte delle fiabe, in una serie di motivi, alcuni dei quali provengono
da vari tipi novellistici. Bisogna aggiungere, comunque, che il tema dell’Osso che canta
(insieme a quello, direi, de L’uccello che canta) è noto anche fra i popoli
primitivi.
Manca nei
racconti che provengono da questi popoli il motivo dell’ucciso mangiato. Vi
troviamo, però, il motivo dell’uccisione di uno dei protagonisti, il cui
assassinio viene denunciato nei modi che noi conosciamo.
Così, ad esempio, in Africa, nella Costa degli Schiavi, si narra di due ragazzi che vanno ad una riunione dove la primogenita riceve mille cauris, mentre duemila ne riceve il più piccolo. La primogenita uccide il fratello e s’impossessa dei suoi cauris. Quando rientra dice ai suoi di avere lasciato il fratello in cammino. Dopo qualche tempo la madre si reca per raccogliere delle foglie e arriva alle vicinanze dove era stato ucciso il figlio, le cui ossa s’erano imputridite e avevano prodotto un fungo. La madre si affretta a raccoglierlo, quando il suo figlio si mette a cantare:
‘Madre non mi strappare non mi strappare madre -
lo fui presso ai miei amici -Essi mi donarono duemila cauris - Essi ne donarono
mille a mia sorella - Essa mi ha ucciso, allora, la crudele’.
Ebbene:
abbiamo qui un’altra azione. L’uccisore non è più un uomo, bensì una donna.
Di un altro
fratricidio il quale ci ricorda senz’altro il parricidio della favola di Besso,
ricordata da Plutarco – ci narra un
racconto diffuso fra i Bantu Meridionali, e precisamente fra i Becjuana...
…Una volta,
or è tanto tempo, un uomo uccise un altro uomo e tenne nascosto il suo
misfatto. L’ucciso fu cercato per ogni dove, ma non si trovò, né si ebbe di lui
alcun sentore, e così non si seppe che Bilwe aveva ucciso suo fratello Bilwane.
Ma quando tutto intorno taceva, ecco che Bilwe udiva un uccello cantare e il
ritornello diceva: ‘Cwidi, lo voglio dire a tutti! Bilwe ha ucciso suo fratello’.
Bilwe si
alzava fra la gente, tendendo l’orecchio e guardando da ogni parte; guardava
gli altri, poi si metteva a sedere. La cosa si ripeteva continuamente, fosse egli
addormentato o sveglio. Di lì a poco egli accusò un tale di essere lui il
propalatore di quella voce; interrogò sua madre, ma essa disse di non saper
nulla. Allora Bilwe si ammalò, e quando gli chiedevano del suo male, diceva: ‘Non
sono malato, ma deperisco per questa causa che mi si fa’.
Suo padre e sua madre cominciarono ad osservarlo, anche quando dormiva. Talvolta, mentre stava mangiando, si alzava e diceva: ‘Ptui’; quando andava in qualche posto se ne stava seduto senza dire una parola, oppure si difendeva dicendo: ‘No!, non è vero. Sì, certamente, capo’. Allora suo padre gli domandò: ‘Dimmi, figlio mio, cos’è che ti fa soffrire così. Con chi parli?’. Bilwe rispose: ‘Padre, è questa accusa di aver ucciso mio fratello che non mi lascia né di giorno né di notte’. Il padre gli chiese chi era che l’accusava; e Bilwe disse: ‘Non lo so, non lo vedo, ma mi accusa, anzi è molto insistente nell’accusarmi’. ‘Figlio’ disse il padre ‘hai tu ucciso Bilwane?’. E quegli rispose: ‘Sì padre’.
E da quell’istante
fu guarito dal suo male, anzi tornò ad ingrassare.
Lo stesso
motivo dell’uccello che rivela un delitto (altrimenti destinato a rimanere
ignoto) si ritrova fra gli stessi Bantu meridionali, fra i Xosa. Con questa
differenza: che l’uccisa qui è la moglie, i cui parenti, conosciuto il delitto,
uccidono l’incauto uccisore.
Njengebule
aveva due mogli, le quali un giorno se ne andarono a raccogliere legna nel
basco. La più giovane trovò un nido di api nel cavo di un albero, e chiamò la
sua compagna perché l’aiutasse a tirar fuori il favo. Ciò fatto, si sedettero e
si misero a mangiarlo; la più giovane consumò spensieratamente tutta la sua
parte, mentre l’altra ne tenne in serbo un poco, avvolgendolo con delle foglie
per portarlo a casa al marito. Giunte al villaggio, entrarono ciascuna nella
sua capanna. La maggiore vi trovò seduto il marito e gli diede il favo. Njengebule
la ringraziò del pensiero e mangiò il miele, pensando, mentre mangiava, che
anche la moglie più giovane, che era la sua favorita, doveva avergliene
portato. Finito che ebbe da mangiare si affrettò ad entrare nella capanna di
lei, e si mise a sedere, aspettando che essa gli offrisse il buon boccone.
Ma aspettò invano, e impazientitosi finì per chiedere:
‘Dov’è il miele?’.
E quella
rispose:
‘Non ne ho’.
Allora egli
andò in furia e la colpì col bastone più e più volte. Il mazzolino di penne che
essa portava sulla testa (come distintivo della sua qualità di allieva
dottoressa) cadde per terra; egli furibonde la percorse ancora, finché la donna
cadde, e morì. Il marito si affrettò a seppellirla; poi, raccolti i suoi
bastoni, si avviò verso il villaggio dei genitori di lei, ad annunziare la sua
morte (come avvenuta accidentalmente) e a chiedere la restituzione del bestiame
con cui l’aveva comprata. Ma la piccola piuma che le era caduta dalla testa
quand’egli l’aveva bastonata si trasformò in uccellino che a volo lo seguì.
Egli aveva
già percorso un certo tratto, quando vide un uccello fermo su un cespuglio
lungo la strada, e sentì che cantava così:
‘lo sono la piccola piuma della brava
raccoglitrice di legna, la moglie di Njengebule. io sono colei che fu uccisa
per capriccio dal marito, che voleva dei pezzetti di favo’.
L’uccello continuò a seguirlo volando al margine del sentiero, finché lui gli gettò un bastone. L’uccello non vi fece caso, e lo seguì ancora. Allora l’uomo lo colpì con un bastone nodoso, e, avendolo ucciso, lo gettò via, e riprese la sua strada. Ma di lì a poco l’uccellino tornò e ripeté la sua canzone; sicché l’uomo, furibondo, gli gettò un altro bastone, lo uccise, si fermò a seppellirlo, e si rimise in cammino. Ma mentre egli camminava, ecco riapparire l’uccello che si mise a cantare:
‘lo sono la piccola piuma, ecc’.
Fuori di sé
dalla rabbia l’uomo disse:
‘Che fare di questo uccello che seguita a
tormentarmi con discorsi che non voglio sentire? Ora l’ucciderò una volta per
tutte lo metterò nella borsa e lo porterò con me’.
E ancora una volta colpì col bastone l’uccellino e, uccisolo lo raccolse e lo mise nella borsa, legandola stretta con una striscia di pelle, ritenendo così di aver liquidato definitivamente il suo nemico.
Finalmente
arrivò al villaggio dei parenti di sua moglie, dove trovò una danza in pieno
fervore e si affrettò a prenderne parte. Salutate che ebbe le sue cognate una
di esse gli chiese del tabacco, e lui impaziente di cominciare a danzare e del
tutto dimentico di quel che c’era nella borsa, ch’egli aveva deposta, le disse
di aprirla. Ed ecco che, aperta la borsa, ne schizzò fuori l’uccello che volò
in cima al pilastro della porta, vi si appollaiò e cominciò a cantare:
‘lo sono la piccola piuma della brava
raccoglitrice di legna, la moglie di Njengebule; io sono colei che fu uccisa
per capriccio del marito, che voleva dei pezzetti di favo’.
L’uomo udì,
e vedendo che tutti del pari avevano udito, fece per darsi alla fuga. Ma alcuni
uomini gli saltarono addosso e lo tennero stretto dicendo:
‘Perché vuoi fuggire?’.
Egli
rispose:
‘Io ero venuto semplicemente per danzare, non so
di chi parli quell’uccello’.
Ma l’uccello
riprese a cantare e il suo canto risuonò nettamente sopra le teste di coloro
che lo tenevano stretto:
‘Io sono la piccola piuma...’.
Essi
stettero ad ascoltare e il senso della canzone cominciò a chiarirsi in loro, sì
che divennero sospettosi. Gli chiesero:
‘Cosa dite questo uccello?’.
Ed egli:
‘Non so’.
Allora l’uccisero....
[PROSEGUE CON: L'OSSO CHE CANTA & LA FORESTA CHE ASCOLTA]
Nessun commento:
Posta un commento