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L’unità di un insieme sarebbe data dal pensiero che pensa quell’insieme.
Lo spunto è interessante e, tuttavia, non sembra portarci là dove Cantor voleva andare. Infatti, una tale soluzione cozza con il fatto che gli insiemi finiti “troppo grandi” e gli insiemi infiniti non possono essere pensati nella loro estensione completa. Ora, per chi come Cantor ritiene che gli insiemi (finiti e infiniti) non siano semplici costruzioni della mente umana, ma esistano anche nella realtà questa soluzione non può andare bene.
Una posizione realista come quella di Cantor, che afferma l’esistenza di insiemi infiniti indipendentemente dalle capacità umane di trattare con essi, non può che appellarsi a un principio diverso dal pensiero umano.
A questo proposito Hallett richiama l’attenzione su un passo del Civitate Dei di Agostino, citato da Cantor, in tale passo Agostino difende l’esistenza di un numero infinito (ovvero sostiene che il numero dei numeri finiti sia infinito). L’infinitezza del numero è data dal fatto che non esiste un numero maggiore di tutti gli altri: esistono dunque infiniti numeri finiti. Ma Dio, per Agostino, non può non conoscere la totalità del numero: egli conoscerà quindi una totalità composta da infiniti membri.
Ora, prosegue Agostino, conoscere significa unificare nel proprio pensiero l’oggetto conosciuto, cioè renderlo finito: ogni infinità conosciuta da Dio è resa finita nella sua mente. Una entità è resa finita se la si può trattare come un oggetto individuale. Anche la totalità del numero, in quanto diviene un oggetto conosciuto, viene resa finita da Dio, diviene cioè un oggetto singolo.
Secondo Hallett, l’idea agostiniana per cui Dio, conoscendo oggetti infiniti, li renda in qualche misura finiti fu fatta propria da Cantor: in tal modo l’unità degli elementi di un insieme è resa possibile dal pensiero di Dio, che rendendo finito un insieme lo rende un oggetto individuale. Cantor invocherebbe qui Dio per giustificare l’esistenza di insiemi infiniti indipendenti dal pensiero umano; gli insiemi sarebbero quindi visti come dei corrispettivi delle “idee divine”.
Il chiamare in causa Dio con la sua capacità di rendere finito l’infinito giustificherebbe la possibilità di trattare in modo omogeneo gli insiemi finiti e quelli infiniti: proprio perché per Dio non vi è differenza essenziale tra insiemi finiti e infiniti, allora quest’ultimi dovranno essere trattati nel modo più omogeneo possibile ai primi.
Si potrebbe vedere in questa invocazione di Dio una soluzione ad hoc di un problema riguardante la natura degli insiemi. Certamente tale soluzione non ha soddisfatto coloro che hanno proceduto lungo la via dell’assiomatizzazione della teoria; operazione portata avanti anche nel tentativo di chiarire la nozione di insieme. Cantor avrebbe tuttavia negato con fermezza questa ipotesi: fin dal principio egli ha sviluppato la sua teoria all’interno di un quadro ontologico-metafisico ben definito; quadro che contribuisce in modo essenziale alla determinazione della propria nozione di “insieme”.
È per questo che siamo convinti che senza una adeguata comprensione della filosofia di Cantor non è possibile intendere la sua nozione di insieme. Uno dei principi fondamentali presente in Cantor fin dalle prime battute della teoria è che l’assoluto (Dio, il tutto) non può essere determinato insiemisticamente (cioè matematicamente); ciò significa che non vi è qualcosa come l’insieme di tutte le cose. Non vi è un numero che possa rappresentare la quantità di enti contenuti nell’universo, perché se esso esistesse allora l’universo sarebbe un insieme: ma questo è proprio ciò che la concezione dell’assoluto di Cantor vieta. L’assoluto è in qualche modo “troppo grande” per essere numerato, anche da un numero infinito. Le ragioni di tale impossibilità sono da ricercarsi nella teologia scolastica di stampo tomista, ben presente a Cantor.
Sottratto un numero infinito a Dio, Dio rimane sempre Dio.
Lungo la gerarchia transfinita (la gerarchia di insiemi infiniti) si può procedere all’infinito verso insiemi sempre più grandi, ma mai si raggiungerà l’assoluto:
‘È per me fuor di dubbio che lungo questa via [teoria del transfinito] avanzeremo per sempre, e mai arriveremo a un limite invalicabile – ma nemmeno a una comprensione, sia pur approssimata dell’Assoluto. L’Assoluto si può solo riconoscere, ma mai conoscere, nemmeno in forma approssimativa’.
L’assoluto rappresenta quindi fin dall’inizio una limitazione dell’applicabilità del concetto di insieme. L’idea che l’assoluto non sia trattabile insiemisticamente rappresenta una costante in tutto il pensiero di Cantor; tuttavia, una volta emerse le antinomie, egli tenterà di utilizzare direttamente tale idea come criterio di distinzione tra molteplicità consistenti e non-consistenti.
Dalla citazione sopra riportata della lettera inviata a Dedekind nel 1899 Cantor chiama le molteplicità inconsistenti anche “assolutamente infinite”. Ora, l’idea che l’assoluto non possa essere un insieme costituisce una sorta di “principio di limitazione” per la grandezza degli insiemi, tuttavia non ci dà un criterio preciso per stabilire quando un insieme è “troppo grande”.
(F. Costantini)
Nell’archivio della famiglia Florenskij si è conservato un manoscritto recante la seguente intestazione: ‘Corso di base. Introduzione alla filosofia antica (15 lezioni tenute nel semestre autunnale del 1908 presso l’Accademia Teologica di Mosca agli studenti del secondo anno). Le lezioni n. 12, 13 e 14 di questo ciclo sono dedicate alla teoria della conoscenza e sviluppano tre nuclei tematici:
1. La conoscenza come sistema di atti di distinzione;
2. La conoscenza come giudizio sulla realtà;
3. Il momento religioso-metafisico della conoscenza.
I contenuti del primo punto appariranno poi sul Messaggero teologico (Bogoslovskij vestnik) vol. I, n. 1 del 1913, pp. 147-174 col titolo Predely gnoseologii. Osnovnaja antinomija teorii znanija [I limiti della gnoseologia. L’antinomia fondamentale della teoria della conoscenza], mentre il secondo ed il terzo punto nelle intenzioni dell’Autore sarebbero successivamente dovuti confluire in un altro articolo, seguito del primo.
La questione conoscitiva, su cui verte ‘I limiti della gnoseologia’, riveste un ruolo predominante tra gli interessi speculativi di Pavel Florenskij, costituendo peraltro la coordinata fondamentale del suo opus maximum, ‘La colonna e il fondamento della verità’.
Nelle pagine che emergono ci è offerto un approccio interdisciplinare ad essa, in una tessitura sinfonica che abbraccia letteratura, fisica, matematica, filosofia, senza trascurare qualche penetrante osservazione di taglio psicologico, e denotando persino presagi della teoria della relatività.
L’antinomia gnoseologica cui allude il sottotitolo è quella nella quale si viene a trovare la ragione umana quando, nell’esplicare la sua attività conoscitiva, le si prospetta di scegliere in definitiva tra due sole opzioni, quella del realismo e quella idealista. Sia in un caso che nell’altro essa si ritroverà relegata ineluttabilmente entro gli angusti confini tracciati da queste due strade, che si rivelano entrambe dei vicoli ciechi.
È questo lo scacco di una ragione che non si voglia aprire alla trascendenza. Constatata allora l’impossibilità di comporre l’inconciliabilità tra questi due modelli gnoseologici Florenskij, nel solco della più genuina tradizione russa, addita un’altra strada, quella della ‘verità vivente’, aperta in ultima analisi a quell’invisibile in cui già molti secoli prima era stata ravvisata la fonte di ciò che è visibile dall’amato maestro Platone, del quale Florenskij opera una rilettura singolarmente profonda, capace di esaltarne la perenne attualità.
L’originalità dell’impianto di questa “lezione” risiede in gran parte nell’angolo di visuale peculiare all’Autore, fornitogli dalla scienza matematica, che resterà per lui un’abitudine del pensiero, lo strumento ermeneutico per eccellenza, di cui si avvarrà come base per una rinnovata visione unitaria, integrale e dinamica della realtà.
Su questo sentiero Florenskij era stato condotto, in un certo senso, dall’ambiente della Scuola matematica di Mosca, all’interno della quale spiccava la figura di Nikolaj Vasil’evič Bugaev (1837-1903), che fu suo autorevole docente, e della cui concezione scientifica, connotata da fruttuose implicazioni gnoseologiche, il giovane Pavel Aleksandrovič rimase subito attratto. Particolarmente felice risultò poco dopo l’integrazione della prospettiva “moscovita” con la teoria degli insiemi di Georg Cantor (1845-1918), preziosa per la sua capacità di unire uno e molteplice, finito ed infinito. Quell’infinito di cui è gravido ogni momento della storia e della vita di ciascuno di noi.
(M. Di Salvo)
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