giuliano

venerdì 21 marzo 2014

CANI DI PASSAGGIO: i comici regi (o regnanti) (88)




































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Cani di passaggio: i comici regi (o regnanti...) (87)











Al mio ingresso in città vidi il mio poeta che usciva dal famoso monastero
di San Gerolamo, ed egli, come mi scorse, mi venne incontro a braccia
aperte, mentre io correvo a lui con rinnovate manifestazioni della mia gio-
ia, per averlo trovato.
E subito egli cominciò a tirar fuori pezzi di pane, più teneri di quelli che
soleva portar con sé quando veniva nell'orto, e ad affidarli ai miei denti
senza bisogno di ripassarli coi suoi; la qual graziosa novità soddisfece la
mia fame con rinnovato piacere.
Il fatto che il pane era tenero, e che il mio poeta usciva dal monastero
che ho detto, me fece entrare in sospetto che le sue muse fossero un po'
decadute, come quelle di tanti altri.




Prese la via della città, ed io gli tenni dietro, con l'intenzione di assumer-
lo per padrone, se egli ne era contento, pensando che con gli avanzi del
suo castello avrei ben potuto mantenere il mio accampamento; perché
non v'è borsellino meglio fornito e più aperto di quello della carità, le cui
generose mani non son mai povere, tanto che io non sono affatto d'accor-
do con quel proverbio che dice: 'Dà più l'avaro che l'ignudo', come se il
duro avaro potesse dare qualche cosa, mentre in effetti il generoso, an-
che allorché è nudo, dà il suo buonvolere, quand'anche non possa dare
altro.
Passin passino, andammo a finire in casa di un capocomico che, a quan-
to rammento, si chiamava Angulo il Cattivo, figlio di un altro Angulo, non
capocomico, ma attore, che fu il più simpatico di quanti ne ebbero allora,
ed oggi ne hanno, i teatri di commedia.




Tutta la compagnia s'era radunata per ascoltar la commedia del mio pa-
drone; ma a metà del primo atto, uno alla volta o a coppie, se l'andaro-
no filando tutti quanti, eccezion fatta per me e per il capocomico, che
costituivamo tutto l'uditorio.
La commedia era tale, pur essendo io un perfetto asino in materia di
poesia, ebbi l'impressione che l'avesse composta Satanasso in persona
per totale rovina e perdizione del poeta stesso, il quale già aveva la go-
la stretta, nel veder la solitudine in cui l'uditorio l'aveva lasciato; e non
c'era da far le meraviglie, se l'anima presaga gli sussurrava dentro la
sventura che lo minacciava.




Infatti, di lì a poco, tornarono gli attori con le comparse; senza far mot-
to agguantarono il mio poeta e, se non fosse stato perché ci si mise di
mezzo l'autorità del capocomico con preghiere e minacce, indubbiamen-
te gli avrebbero fatto il gioco della coperta.
Io rimasi stupefatto per quell'incidente; il capocomico restò disgustato;
i commedianti, tutti allegri, e il poeta, mortificato. Così, con santa pa-
zienza, anche se un po' a denti stretti, riprese la sua commedia e, ripo-
nendola in seno, borbottò fra sé e sé: 'Non conviene dar pane a chi
non ha denti'; con le quali parole se n'andò impettito.
Io ero tanto infuriato, che non potei né volli seguirlo; e fu una santa co-
sa, perché il capocomico mi fece tante carezze, da costringermi a rima-
nere con lui, talché in meno d'un mese divenni un magnifico attore di
intermezzi ad una magnifica comparsa di pantomima accompagnati da
una brigata intera di marionette.....




Mi misero una museruola di nastri e mi insegnarono ad assalire sulla
scena la persona che mi indicavano; e siccome gl'intermezzi finivano il
più delle volte a legnate, nella compagnia del mio padrone, quasi sem-
pre alla fine mi aizzavano, ed io mi lanciavo addosso a tutti, buttando-
li a terra e facendo ridere gl'ignoranti, con gran guadagno del mio pa-
drone.
Scipione mio, quante te ne potrei raccontare, di ciò che vidi in quella
compagnia di comici e buffoni (di corte...) ed in altre due nelle quali
entrai più tardi (sì Scipione, perché i veri comici e poeti erano esclusi
dal teatro regio dei Regnanti, un teatro dove questi buffoni sono soliti
dar le loro misere rappresentazioni..., ed il popolo o la nutrita corte
spettatrice dei loro spettacoli, volente o nolente applaude (a piene) le
mani, certo quando non sono occupati in ben altre faccende.
Certo quando non sono accupati nel letame del loro misero reame.).

(M. de Cervantes, Novelle esemplari, Colloquio dei cani;
 Fotografie di: Zack Secklers)














 

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