giuliano

giovedì 27 marzo 2014

LA DIVISA NERA (Lo Straniero) (6)











































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La divisa nera (5)

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Paura di cadere (Lo Straniero) (8/7)













Scendemmo all’Hotel Sindoz, testimone di antichi fasti ormai sepolti. Nel salone da pranzo, carico di decorazioni, camerieri in frac dall’aria professorale (baroni di scienze arcane elevate alla dignità di professione…) ci servivano lentamente un magro pasto su vasellami stemmati con antichi araldi e motti come quelli già accennati….
Pochi altri clienti sedevano a tavola: tipi per lo più dimessi, chi in maglione, chi in tuta. Nessuno ci degnò di uno sguardo. Alzatomi presto il mattino dopo, andai a svegliare Arrigo che aveva sempre il sonno duro. Rimasi sbalordito quando venne ad aprirmi una ragazzetta non sgradevole vestita solo di un asciugamano. Arrigo era ancora sotto le coltri. Quel diavolo di un uomo, perfino in un paese così ostico, non aveva perduto tempo.
La nostra esperienza sciistica si ridusse al minimo…




Come impianti di risalita, esisteva soltanto un rudimentale skilift di trecento metri. Ma il peggio era la neve, pesante e attaccaticcia (come la macchina gialla e nera…) come non avevo trovato mai sulle Alpi. Arrigo fu d’accordo con me per ripartire senz’altro, nonostante la ragazzina. Per lo meno, ci eravamo cavati il capriccio. Senonché al ritorno dai campi di neve nera, non trovammo più la nostra auto dinanzi all’albergo.
Il portiere, in inglese, ci spiegò che era stata prelevata dalla polizia. Alla polizia, non senza riguardevole cortesia di modi, ci fu spiegato che a Seorca era stato commesso un errore. Per regolamento, nessuna macchina poteva essere noleggiata o adoperata da Stranieri (senza divisa nera…).
Servizi pubblici non esistevano. Come noi, allora, si poteva far ritorno al nostro umile Tomo bianco non ancora del tutto ingiallito o annerito? Il problema – fu la risposta – non rientrava nelle competenze dell’autorità amministrativa di Seorca.




Vedendoci costernati – poiché anche in Belora l’umanità sussiste, uno degli ufficiali del comando ci offerse di accompagnarci alla capitale con la sua macchina; ma dovevamo aspettare due giorni. Guardandolo meglio, lo riconoscemmo per il tipo strano che aveva pilotato la fantomatica giardinetta.
Scarso conforto furono in quell’attesa le successive esercitazioni sulla tenebrosa neve nera, che si rivelava sempre più viscosa e impraticabile, inaffidabile, incompetente… Durante il viaggio da Mehraklya a Seorca, il sinistro ufficiale al volante non disse una parola. I sedili, dietro, erano incomodi, la macchina procedeva sobbalzando a non più di trenta all’ora. La schiena curva del poliziotto ispirava malinconia.
Giunti fino alla capitale, finalmente l’ufficiale aprì bocca. Nel suo stentato tedesco ci chiese dove volevamo essere deposti. Rispondemmo: all’Eskurus Hotel, grazie!
Ma l’Hotel era chiuso. Nelle vicinanze, due giorni prima, erano stati trovati per la via manifesti sovversivi non autorizzati dalla guardia nera. Ragione per cui era stato proclamato una specie di stato di emergenza indetto dalla Repubblica Nera, con la democratica chiusura di tutti i locali e stabilimenti pubblici. Anche i voli di linea erano stati sospesi sine die.




La terra di Belora ci scottava ormai sotto i piedi….
In che modo avremmo potuto levare le tende?
Col treno, ci fu spiegato.
Ma come entrare in stazione senza essere visti dalla speciale Guardia Nera?
Nel piazzale antistante era in corso, evidentemente, un importante raduno politico; migliaia di cittadini si stipavano, emettendo grida a noi incomprensibili. Non era un raduno politico. Interrogando qua e là, Arrigo seppe che l’assembramento era permanente, si trattava dei viaggiatori in attesa dei treni. Ciascuno portava al collo una medaglietta metallica col numero di provenienza. Un inserviente, prima che noi lo potessimo impedire, ce lo infilò per la testa anche a noi.
Ma quanto c’era da aspettare?
Le voci erano discordi.
Chi parlava di pochi giorni, chi di mesi, chi di anni, chi di una vita intera…




Intanto senza che noi ci se ne rendesse conto, un recinto di filo spinato venne steso tutto intorno  da uomini corpulenti, baffuti e pasciuti dal candido color rosa, ad impedire l’accesso alla stazione di nuovi candidati. A tutti noi furono distribuiti una coperta a testa e un rancio a base di trippa. Poco dopo un impiegato in divisa nera della dogana, venne a controllare il nostro bagaglio.
Là sulla piazza – cominciava a cadere un nevischio nero – le nostre due valigie furono aperte e il doganiere si accinse a rovistarle controllando di sovente i numeri dati, sparpagliando gli indumenti e gli oggetti ivi riposti, che i presenti, con il permesso della Guardia Nera, sottraevano via via senza che il funzionario intervenisse. Ben presto tutte le umili nostre cose furono inghiottite in silenzio dalla folla; alle proteste di Arrigo il doganiere non batté ciglio.
Dopo sei giorni di calvario, facemmo conoscenza con un professore di lingue, che parlava correttamente l’inglese, turco e francese. Con grande franchezza e non senza pietà, ci disilluse dall’idea di poter mai più tornare alla nostra immagine di bianco vestita, tomo in bella copertina libro di vita!
Quello, scoprimmo, era il campo di concentramento da Repubblica nutrito, e le divise nere che lo controllavano non obbedivano a nessuna autorità: erano e sono guardie, e basta.
Ma la speranza è dura a morire…… 

(D. Buzzati, La neve nera, I fuorilegge della montagna)















   

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