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Sette anni prima (Guerra e pace...)
A parte il cattivo e accidioso carattere di Sofija, largamente
riconosciuto, Tolstoj non doveva essere un marito comodo. Si legge nel suo
diario: ‘Mi è indispensabile possedere una donna. La lussuria non mi lascia in
pace’.
Henri Troyat ha annotato qualche avventura: da giovanotto seduce Gasa,
una serva, e la zia Antoinette, per punire la svergognata, la scaccia; di
un’altra, ancora a settant’anni, ricorda ‘il corpo vigoroso’; dalla contadina
Aksinja, che è la sua amante per tre anni, ha un figlio, Timofej, che guida la
slitta e lo chiama ‘signore’. Confessò poi, nella tarda età: ‘Io ero insaziabile’.
Alla minima contrarietà si inaspriva, e aveva eccessi di febbre e
crampi allo stomaco. Non risparmiava neppure i giudizi severi e ingiusti;
Dostojevskij aveva trovato Anna Karenina ‘un romanzo piuttosto noioso e per
nulla straordinario’; Tolstoj ricambiava dicendo dei fratelli Karamazov: ‘Non
sono riuscito ad arrivare fino in fondo. Basterebbe in tutta la vita, un unico,
buon libro’.
Mi mostrano una pesante macchina da scrivere Remington, il registratore
che Edison gli mandò in dono; ricordo le memorie di Bulgakov, il segretario che
fu testimone delle passioni degli ultimi anni: Lev Nikolajevic ascolta senza
emozione la sua voce, riceve tutti, a tutti scrive. ‘Egli stendeva una prima
bozza’ ricorda Aleksandra, l’unica figlia superstite ‘che io copiavo con larghi
margini tutto attorno, e gliela portavo alle nove del mattino. All’una, o
all’una e mezzo, scendeva a colazione, e io riprendevo il manoscritto
rielaborato: non rimaneva più nulla della primitiva stesura. Riscriveva nei
margini e fra le righe, senza lasciare il minimo spazio. Io allora ribattevo il
testo. Un articolo dovetti rifarlo cinquanta volte’.
Questa macchina, penso, ha battuto le pagine della ‘sonata a Kreutzer’;
ha raccontato le meditazioni del generale Kutuzov sotto l’incalzare delle
truppe napoleoniche, e l’incendio di Mosca; ha risposto alla lettera del
contadino di Kolacev che chiedeva a Tolstoj di spiegargli il senso della vita e
di Dio; a quella del commerciante di Samara che aveva dubbi sull’oltretomba: ‘Ci
sarà per l’anima un premio o un castigo?’; alla ragazza di Pjatigorsk che,
disperata e sola, voleva avvelenarsi con l’acido fenico.
Un pianoforte, un samovar d’argento, un barometro.
Guardo alcune fotografie che mostrano il vecchio Lev: ha quasi
ottant’anni, e galoppa nella grande pianura, su uno sfondo di rami spogli;
guida un aratro trainato da due cavalli bianchi; eccolo sotto l’enorme quercia
che chiamavano ‘l’albero dei poveri’, porta un berretto bianco, accarezza una
bimba dalla sottana troppo lunga, i capelli nascosti sotto il fazzoletto, come
le donne.
Discute con i contadini che al suo passaggio si tolgono il cappello,
passa intere notti a parlare della morte, della precarietà delle giornate
terrene, dello spirito che continua. Passo per la camera degli ospiti, dove
soggiornarono Gorkij e Cechov; Cechov aveva un sorriso sbiadito, gli occhi
rassegnati; la faccia da popolano di Gorkij rivela fierezza e duri propositi.
Guardo i libri che Lev consultava spesso: un dizionario enciclopedico,
il Corano, la Bibbia, Platone e Confucio. Vicino allo scaffale c’è la
riproduzione di una Madonna di Raffaello che amava. A una parete sono appese le
corna di un’alce, forse trofeo di una caccia nelle foreste che si distendono
qui attorno. I quadri del pittore Orlov, nel salotto, rappresentano le stagioni
in campagna: si miete la segale, si portano i puledri ai pascoli, fumano i
camini delle isbe, e i bambini giocano nella fangosa piazzetta del villaggio.
Anche lui portava la lunga camicia bianca, come i pastori e i contadini, col
cinturone di cuoio e gli stivali di feltro.
Mi fermo davanti alla sua scrivania: è posta sotto una finestra, si
vedono abeti, faggi e l’erba verde; qui passò lunghe ore a meditare sulla sorte
degli uomini e a inventare un destino per Liza, per Natasa, per Anna o per
Katjusa, per Nechljudov, per Vronskij, o per Pierre Bezuchov, le sue creature.
‘Tutte le felicità si assomigliano’ ha scritto ‘ma ogni infelicità ha la sua
fisionomia particolare’.
Camminava tra questi boschi, lungo i sentieri tracciati tra gli sterpi,
spesso solo, alla ricerca di se stesso e della verità, si sedeva incappottato,
mentre i pioppi rabbrividivano nel vento dell’autunno, sotto il balcone di
legno, a leggere la corrispondenza o a raccontare favole ai nipotini, ascoltava
la gente e spiegava ai paesani che presto qualcosa sarebbe accaduto, e anche la
Russia sarebbe cambiata….
Diceva: ‘Ebbene, Lev Nikolajevic, a voi che vi trovate dinanzi alla
morte debbo dire che il mondo affogherà ancora una volta nel sangue e ucciderà
non solo i signori, uomini e donne, ma anche i loro figli, perché non possano
nuocere. Mi dispiace che non possiate vivere fino a quel tempo, e vi auguro una
fine felice’.
Anche Tolstoj sentiva che la tempesta stava per scatenarsi; anche lui
voleva una rivoluzione ma senza crudeltà che ogni rivolta trascina. Esortava:
‘Non commettete mai nulla che sia contrario all’amore’.
… Se ne andò sette anni prima….
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