'Solo per voi’ mi disse: ‘non posso servire a tutti un simile piatto!’.
‘Di che cos’è dunque quell’arrosto?’.
‘Filetto d’orso, nient’altro!’.
Avrei preferito che mi lasciasse credere trattarsi di un semplice
filetto di bue. Guardavo macchinalmente quel cibo decantato. Esso mi ricordava
quelle disgraziate bestie che da piccolo avevo visto ruggenti e infangate, con
una catena al naso e un uomo all’estremità della catena, ballare pesantemente,
a cavallo d’un bastone, come il bambino di Virgilio; sentivo il rumore sordo
del tamburo su cui l’uomo batteva, il suono acuto del piffero in cui soffiava,
e tutto ciò non contribuiva a creare in me alcuna speciale simpatia per la
carne che avevo davanti. Avevo preso l’arrosto sul mio piatto, e dal modo
trionfante con cui la forchetta vi si era piantata, avevo sentito che possedeva
per lo meno quella quantità che doveva rendere così infelici i montoni di
mademoiselle Scudéry.
Tuttavia esitavo sempre voltandolo e rivoltandolo sulle due facce
rosolate allorché l’albergatore che mi guardava senza comprendere il motivo
della mia esitazione mi decise con un ultimo: ‘Assaggiatelo! Mi saprete poi
dire se è buono!’.
Infatti ne tagliai un pezzo grosso come un’oliva, l’impregnai di tutto
il burro che era capace di assorbire e scostandolo le labbra lo misi fra i
denti spinto più dalla vergogna che dalla speranza di vincere la mia ripugnanza.
L’albergatore, in piedi dietro di me, seguiva tutti i miei movimenti con
l’impazienza benevola d’un uomo sicuro e felice di potermi fare una lieta
sorpresa.
Confesso che la mia fu grande.
Ciò nonostante non osavo manifestare subito la mia opinione; credevo
ancora di essermi sbagliato: tagliai silenziosamente un secondo pezzo, grande
il doppio del primo, gli feci prendere la stessa strada con le medesime
precauzioni e quando fu trangugiato: ‘Ma è proprio orso?’ dissi.
‘Orso’.
‘Davvero?’.
‘Parola d’onore’.
‘E’ veramente straordinario!’.
In quello stesso momento l’albergatore fu chiamato alla tavola grande.
Vi andò, ormai sicuro che stavo per fare onore al suo piatto favorito,
lasciandomi alle prese col mio arrosto. I tre quarti erano già scomparsi quando
ritornò, e riprendendo la conversazione nel punto in cui l’aveva interrotta:
‘L’animale col quale siete alle prese’ disse ‘era una bestia famosa’.
Feci col capo un segno di approvazione.
‘Pesava trecento chili!’.
‘Bel peso!’ (Non perdevo un boccone).
‘Non lo si è potuto prendere senza fatica, ve lo garantisco!’.
‘Credo bene!’ E mi misi in bocca l’ultimo pezzo.
‘Quel mostro ha mangiato metà del cacciatore che l’ha ucciso’.
Il boccone mi uscì dalla bocca come se una molla lo avesse rovesciato.
‘Che il diavolo vi porti!’ dissi, voltandomi dalla sua parte ‘Non si
fanno questi scherzi ad un uomo che sta mangiando..’.
‘Io non scherzo, signore; è la verità’.
Sentivo il mio stomaco rivoltarsi.
‘Era’ continuò l’albergatore ‘un povero cacciatore del villaggio di
Fouly, chiamato Guillaume. L’orso, di cui non resta più nulla al di fuori di
quel piccolo pezzo che avete là sul vostro piatto, veniva tutte le notti a
rubare le sue pere; poiché tutto va bene per quelle bestie.
Tuttavia si rivolgeva di preferenza ad un albero carico di pere
bergamotte. Chi lo direbbe che un animale come quello là abbia gli stessi gusti
dell’uomo…..’.
(A. Dumas, In viaggio sulle Alpi)
(A. Dumas, In viaggio sulle Alpi)
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