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Paesaggi della paura (17/1) &
Aldiquà e Aldilà dell'umana... (cosa è la metafisica?)
Prosegue in:
Paesaggi della paura: speriamo sia femmina! (19)
Il fatalismo capriccioso delle divinità antiche era allora solo
leggermente scalfito da un nuovo credo religioso che, d’altronde, stentava a
farsi strada fra tanti, soprattutto fra i rustici i quali spesso limitati e
chiusi nel destino virtualmente ‘evoluto’ specchio ieri come oggi della propria
falsa cultura… Riporto un esempio analogo nel quale apparentemente il tempo
numerato compie un circolo di un millennio ed approdo con il ricordo di un
Frammento di una Rima composta in un solstizio di un Inverno porta di un Dio
Infinito e caduta nel cerchio di cui abate Atala ed i suoi agnelli si
raccontano ancor oggi medesimi e miseri tempi odierni… Nel monastero di Bobbio,
un suo monaco incendiò un tempio pagano costruito sui tronchi d’albero sulla
riva della Stàffora, vicino a Tortona. I contadini tutti, assieme ad i pastori
comandati dal gesuita di turno, presero a bastonate il monaco e lo gettarono
nel fiume, allora, oggi invece, fedeli ad un ‘parabola’
più consona alla pecunia con cui ugual gregge conta lo sterco della propria
materia, ‘attentarono’ in nome di un falso Dio il monaco Atala elevandolo a
santo nonché pastore del fiero monte ove l’Albero non certo gradito… L’episodio
della prima metà del secolo settimo ‘evoluto’ al secondo millennio integro e
regredito alla crosta con cui edificato, rivela in verità e per il vero, la
lotta che gli uomini di chiesa condussero e conducono oggi come allora, in
misura diversa, contro le pratiche pagane (per gli autori delle cronache - per i
ciarlatani accompagnati ai pennivendoli ed agli scribi di antica Memoria: l’Albero
pregato è ancora immutato nella sua Infinita bellezza - guarda un po’ disperato
tanti rami crollati ai suoi piedi come edifici precipitati per mano dell’uomo… L’uomo
che crea e fabbrica l’onesta pecunia nella Genesi della propria ed altrui
venuta in nome e per conto di un dio… Io pregai l’Albero e l’Infinita sua
Stagione specchio di un Universo né visto né immaginato… privato quantunque
della pecunia e della verità con cui pregare la radice della Memoria… non vista
forse solo Nascosta… E’ pur cosa gradita e saporita qual miglior condimento
alla tavola della loro piccola dottrina…).
…E’ nello stesso tempo, testimonianza della resistenza delle medesime
di fronte all’evangelizzazione delle montagne. Alberi sacri vengono abbattuti
(ieri come oggi in nome di ugual ‘progresso’), uno dopo l’altro, nel corso del
Medioevo, ma la sacralità della pianta, in cui forse si materializza più che in
altri elementi (la medesima Natura dell’intero Universo…), per i villani ed i
rustici… allora non venne meno (quando i tempi rivolgevano allo Spirito
della Natura dovuta preghiera non certo una Chiesa…), oggi invece, in tempi che
dicono maturi ove i frutti raramente crescono al ramo dei propri arbusti, viene
meno ogni principio di cui la forza originaria di un Primo Pensiero sottratta
alla volontà limite della materia raccolta e consumata ad una tavola imbandita
ove trema paura giacché il legno con cui si era soliti costruirla e pregarla
non più in uso al focolare della dimora ove il pasto sa d’agnello e il grasso
che ne sgorga e trasuda per sua natura saporito come cemento… E’ pur sempre un
buon condimento con cui allietare ed annunciare ogni Buona Novella satollo
della vita… difficile da digerire al ventre ove posta l’Eresia… giacché più
dura del cemento ed amara più d’ogni sconfitta barattata per vittoria nel conto
della Storia…
La Natura per tutto il Medioevo, è al centro dell’attenzione dell’uomo,
con un’intensità di interrogativi e osservazioni che a ‘voi’ può sembrare
ossessionante. Non conosciamo se non imperfettamente tale rapporto, assai
stretto, che nei ceti più bassi, soprattutto nelle campagne, assumeva caratteri
di quasi esclusività. Sicuri di essere legati ineluttabilmente al mondo
naturale (oggi i tempi sono irreversibilmente mutati…) e regolati dalle sue
stesse leggi, sia le persone colte che l’uomo comune vivono la propria vita
senza distogliere mai l’attenzione da esso, timorosi ogni qual volta segni
eccezionali (come terremoti, eclissi, aurore boreali ed altro ancora…) sembrano
rivelare un’impennata, uno scarto, un arrestarsi dell’evoluzione regolare delle
cose. La paura che accada qualcosa di irreparabile diventa, allora, facilmente
parossismo: dovunque, sulla terra e nel cielo, si osservano segnali di un mondo
che ammonisce a non infrangere le regole (regole equilibri e principi di un….)…
I documenti narrativi dell’alto Medioevo, letti, purtroppo, sino ad ora
(come
ora voi in codesto antico e Primo Evo….), prevalentemente come
repertori della Storia politica, dei trattati, delle paci, delle guerre, se li
osserviamo – come in realtà soprattutto sono – nelle loro caratteristiche di
specchio dei rapporti dell’uomo con la Natura, ci si presentano come cronache
attente e puntigliose di ciò che di naturale avveniva ed avviene sulla faccia
della terra, nelle acque, nel cielo. Soprattutto nei primi secoli del Medioevo,
i fenomeni naturali erano considerati e vissuti come segni. Questo linguaggio
della Natura non è analogamente riscontrabile nelle cronache del pieno e tardo
Medioevo, quando l’attenzione dello scrittore era attratta in maniera
altrettanta forte dall’aspetto più schiettamente naturale dei fenomeni e delle
loro conseguenze sulla vita materiale dell’uomo.
…Nei primi secoli del Medioevo, tutto ciò che esorbitava dai limiti del
normale si pensava generato, per così dire, dalla Natura; si trattava di esseri
materiali, seppure spesso mostruosi, legati al mondo vegetale, animale, umano.
Più tardi, invece, acquistarono un contenuto ed una fisionomia sovrannaturale,
in concomitanza con il progressivo allontanarsi dell’uomo dalla Natura, della
distruzione di molte sue componenti, tra le quali boschi e foreste, che vennero
ridotte a coltura. Le selve che restarono dopo il lungo intervento
colonizzatore divennero via via realtà estranee all’uomo spesso paurose. E’
significativo che le apparizioni dei morti iniziassero allora ad ever luogo
soprattutto in esse. Ma nell’alto Medioevo tutto, pur con diverse sfumature,
era assimilato alla Natura, magari deformata o abbellita: lo stesso Paradiso
veniva immaginato come sublimazione della terra coltivata dall’uomo, un
giardino bellissimo, con acque, fiori, alberi. Si credeva che l’uomo si
muovesse con facilità da questo all’altro mondo: prima di morire la visione del
Paradiso si schiudeva sul capezzale, si sentivano profumi intensi, si udivano
musiche inebrianti. I morti non di rado tornavano in vita per raccontare
dell’altro mondo, i santi scendevano su questo a compiere un pellegrinaggio al
sepolcro di un martire famoso, a pregare per la propria anima sulla propria
tomba. Insomma, il mondo naturale e quello ‘soprannaturale’ non erano ancora
divisi dalla linea che si andrà allargando e irrigidendo ad iniziare dal pieno
Medioevo; l’uno e l’altro erano fatti della stessa materia, seppur sublimata
per quanto concerne il secondo.
…Il grande e delicato Alcuino, monaco poeta, vedeva lo svanire rapido
delle cose, il cambiare delle forme, il loro cammino verso l’annullamento di
tutto. Non è certo solo il desiderio di comporre belle parole – che pure gli
sono care – a spingere il dotto uomo di chiesa a gettare lo sguardo
sull’orizzonte della fine. Una vita precaria, una morte che allora scandiva le
vicende degli uomini con colpi più fitti delle nascite, lo portano spesso a
tristi considerazioni. La morte sul campo di battaglia, la mortalità infantile,
le pestilenze, la nutrizione legata ai capricci delle stagioni (e quindi spesso
scarsa) mantenevano bassa la media della vita. Basta leggere i documenti del
tempo, dove l’uomo fa capolino per vendere un campo, averne uno in affitto,
operare uno scambio di terre per constatare che gran parte delle persone non ha
il padre: il nome personale, che veniva precisato con quello del padre, ci
prospetta una folla innumere di ‘figli del fu’: Pietro del fu Andrea, Paolo di
Antonio di buona memoria… Le cronache poi sono segnate a scadenza ravvicinata
dalla segnalazione di nobili caduti in battaglia, di figli di grandi personaggi
deceduti per malattia in età giovane, di carestie e pestilenze micidiali. Siamo
ben lontani dal possedere una nozione dell’incidenza di questo sulla coscienza
degli uomini; gli occhi di coloro che morivano e di quanti li vedevano morire
non ci sono noti affatto: quali sofferenze, quali rimorsi, paure? Possiamo
soltanto dire che la morte era rispettata, come fatto davanti al quale
bisognava fermarsi e riflettere, qualcosa che anche allora era difficile
accettare.
Gli uomini, dunque, erano pochi, almeno i vivi; mentre con il
trascorrere del tempo, le aree cimiteriali acquistavano una dimensione ed
un’importanza che noi forse non riusciremo mai ad immaginare. Era un mondo di
morti, e così comprendiamo il pessimismo dei chierici, il loro assistere
impotenti e scettici allo svanire della vita; come capiamo gli innumerevoli
donativi alle chiese, dettati dalla paura di morire e dalla volontà di
procurare preghiere a quell’altra massa di persone, ben più consistente, che
dormiva dentro e attorno alle chiese, attendendo il giorno in cui sarebbero
state svegliate per il giudizio finale.
(V. Fumagalli, Paesaggi della paura)
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