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Mentre crescevo (15)
‘Eh! Ma anche tu cominci a mangiare il frutto delle piante che hai
piantato tu stesso’.
‘Beh! Se uno incomincia da giovane a lavorare un uliveto, quando è
vecchio può godere dei frutti delle sue piante. E’ da quando avevo meno di
trent’anni che ho incominciato a piantare. Molte di esse non hanno attecchito e
come vedi le stiamo rimpiazzando. Ci vuole molto per fare un oliveto: una
vita’.
Ci faceva vivere nella speranza: un giorno ci avrebbe arricchito. Ci
faceva vivere più che mai l’angoscia propria del pastore e del contadino in
proprio. Ci avvinghiava sempre di più con gli artigli della speranza divenire potenti anche noi…. Nella povertà
più meschina e più nera, già ci faceva vivere il giorno della ricchezza. Non
aveva importanza quando sarebbe avvenuto, vicino o lontano. L’importante era
sentirlo e viverlo in quella angoscia.
Sentirsi liberi e illudersi di viverlo presto o tardi. Noi lo si
pensava. Si cercava anzi di farlo sorgere con il pensiero quel giorno. Non
potevamo sapere che al di là dell’orizzonte dell’oliveto c’era la storia che
aveva sbrindellato l’economia dei campi e che noi stessi eravamo divenuti
un’appendice. E allora perché questo entusiasmo e questo dinamismo per la
produzione? Perché tanta fantasie per la costruzione delle chimere e tanta foga
per inseguirle?
L’anelito della ricchezza si era
sprigionato dentro di noi in maniera cieca ed irrazionale. L’egoismo personale
insomma, che nella cattiva sorte prima era la difesa che alimentava lo spirito
di conservazione, ora nella buona l’oliveto lo trasformò in egoismo feroce, in
cieco furore per il guadagno gettando uno spettro incolmabile sulla nostra
esistenza.
Così come altre chimere lo gettava su tutta la massa di campagna. I
paraocchi per cui era possibile vederci a
rivelarci come classe sfruttata da un’altra. Guardando le pecore che
crescevano di numero e l’oliveto che s’innalzava sempre di più verso il cielo,
ci succedeva dunque di vivere quello stesso egoismo che nella mala sorte ci
tuffava come cani famelici sul tozzo di pane, sulla preda. Eravamo figli
quell’egoismo che ci salvò dalla fame e ora nella buona sorte non potevamo
mutare metro.
… E quella speranza che ci faceva vivere contenti, nella nostra beata
ignoranza, tutto il rigore dell’esistenza precedente, ora ci lanciava nella
lotta del possesso. L’unico linguaggio per divenire era il guadagno: la
competizione sul lavoro come base morale per entrare nel prestigio sociale. Una
vera sfida spietata e senza quartiere.
Ora so che tutta questa corsa
sfrenata per l’accrescimento del peculio in antagonismo con gli altri non era
altro che il senso incontrollato dell’inconscio alla ricerca rapace del ‘mio’
opposto al ‘tuo’ come terreno necessario per divenire. Era il nostro ‘io’, ora
lo riconosco, che diveniva come le querce in continua lotta tra di loro e con
il sottobosco che soffocavano con le loro branche. Ognuno di noi era una
quercia in lotta spietata e dichiarata in aperta campagna. Tutti i pastori
erano un bosco di querce che infiltravano a gara le loro radici nel terreno e
innalzavano le loro branche in cerca di spuntare una sull’altra: in cerca di
sottrarre l’aria all’altra. Querce che avevano la facoltà di ridersi del
sottobosco (dei loro servi) e delle altre piante che avevano superato in
altezza.
CHE STRANO BOSCO E CHE RAZZA DI LOTTA DELL’ISTINTO!
Ora capisco che noi, come gli altri pastori e gli altri contadini,
articolavamo la nostra esistenza sull’istinto e sulla brama del possesso come
quelli che al di là dell’orizzonte del nostro campo facevano la storia e ne
tracciavano il senso. E’ una scoperta che mi ha stupito, ma che sento di
confessare. Facendo le dovute proporzioni, noi tutti non eravamo meno borghesi
di quelli che ora definisco borghesi.
La stessa lotta nel guadagno basato sull’istinto del possesso: la
stessa aspirazione a primeggiare sugli altri quasi per distruggerli. Certo, una
borghesia in embrione, ma sempre con gli stessi caratteri e con la medesima
ferocia nel voler essere tale. Con le sue norme rigide prima nel far fronte
alla sopravvivenza e nello strafare nel potere poi quando le circostanze lo
favorivano.
Naturalmente allora non lo sapevamo.
Quello stato era la molla della nostra esistenza istintuale. Il
paradosso più assurdo era però che accanto alla borghesia che deteneva il
potere noi stessi vivevamo la nostra ‘borghesia inconscia’ come base della
borghesia effettiva. Una crudele scoperta. Altro che individuarci come massa
sfruttata. Noi tutti inseguivamo le chimere del nostro egoismo sulla base dei
singoli egoismi contrapposti e pronti a sbranarci a vicenda come in lotta per
la preda.
E’ triste veramente ora per me sapere che i pastori non la conoscono
questa tremenda verità. Ed è dolente che loro continueranno a urlarsi come i
loro cani il ‘mio’ ed il ‘tuo’ in modo bestiale e ferino. Vivranno ancora
sbranandosi a vicenda e sputando sangue tragicamente per padroni che non
conoscono. Su questa base di egoismo granitico e rapace, mio padre aveva
costruito l’oliveto. Sulla morale dell’istinto, sostenuto dalla ricchezza. Ora
mi sembra strano che anche lui battesse una strada curioso e contento come
quando io in groppa al suo somaro inseguivo i suoi zuccherini.
… La tirannide titanica del suo egoismo lo costringeva incessantemente
a dilatarsi senza dolore i muscoli sul lavoro, ed ognuno costruiva da giovane
per la vecchiaia, senza sapere che, in una società siffatta, la vecchiaia
sarebbe stata, ‘oliveto o meno’, tragicamente disprezzata da tutti i giovani
(ed io ho sempre disprezzato l’oliveto di mio padre, e con lui i frutti di quel
bosco a cui aveva contrapposto la sua Naura, Seconda Natura, demone malvagio
che lottava con la vera Natura del sottobosco….).
(G. Ledda, padre padrone)
(G. Ledda, padre padrone)
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