Precedenti capitoli:
The Far East (34/1)
Prosegue in:
Pellegrini & Predicatori (36) &
Ruscelli d'Autunno (37)
Lo abbiamo già enunciato in diverse premesse
citazioni e pensieri rafforzati anche da valenti ‘manifesti di cultura’, del
resto tutto il lavoro fin qui espresso (circa il ‘libero arbitrio’ & in
siffatta patria qui disdico e più non dico in quanto l’apparenza compone la
maschera al teatro della dubbia e propria falsa consistenza e scena all’atto
del Tempo imposta…) sia come curatore di
blog che come, non dico cronista - ma semplice osservatore di eventi - e critico con gli stessi si pone sempre avverso
al sistema e quindi ‘Eretico’ (onestamente perseguitato) per quanto giudicato ‘Ortodosso’.
Quindi non contrari all’economico progresso e/o
all’‘uomo moderno’ che si perfeziona nella costante sua progressione (sempre e
comunque sia a danno degli altri, cosa fra l’altro estranea al regno ‘naturale’
donde il tutto derivato, e codesto enunciato esula dalle sue naturali premesse rendendolo
[l’uomo] sì evoluto ma incapace di quella propria e specifica coerenza che lo
distinguono sempre e solo come il vero ed involuto predatore di Madre Terra)
bensì propensi a giudicarne contenuti e forma (sia politica che capitalistica);
e come questo si snoda ed arreca conseguente ed irreversibile danno, non a
beneficio della società e socialità in cui posto, ma nel costante inganno
arrecato ed offerto, specie in questi ultimi cento anni verso popoli e culture,
e nell’insieme, quella ‘sacralità’ appartenente alla nostra quanto altrui
genetica in quanto la reale manifestazione del detto ‘progresso’ tende a
rimuovere valori comuni a beneficio di interessi mai collettivistici (anche se
in apparenza giudicati tali), ma bensì per i pochi soggetti i quali nell’economica
industriosità ne godono impropriamente i frutti non perseguendo quegli
obiettivi confacenti con il territorio occupato secondo i meriti di una saggia
e retta (geo)politica, ma al contrario tendono ad appianare ogni possibile
compromesso soggiacente alle condizioni in cui l’uomo nato ed evoluto misura le
distanze fra la corretta interpretazione dell’evoluzione così come rivelata e
rilevata, e, in verità e per il vero, impropriamente adottata…
Quindi come già detto mi ripeto in cotal
‘manifesto’:
“L’avvento dei nuovi Signori
della Terra scatenerà anche una guerra senza quartiere per il dominio e il
saccheggio [della Terra], combattuta con le sobrie ed invisibili armi della
tecnica. Si tratterà della lotta per lo sfruttamento illimitato della Terra
come materia prima e per l’impiego senza riserve del ‘materiale umano’ al
servizio del potenziamento assoluto della volontà di potenza nella sua essenza…
Sotto la pioggia di bombe che distrugge secoli di storia d’Europa, anche il
politico moderno viene dunque ridotto in macerie con la sua aspirazione a
svolgere un’azione di direzione e di governo totale. Nessun Fuhrer può più
illudersi di guidare le sorti del mondo, senza obbedire egli stesso per primo
agli imperativi del comando che guidano l’assalto tecnico. Per questo la
sconfitta storica del nazismo nonché medesima del comunismo non annunciano e
premettono e/o risolvono la fine dell’èra del totalitarismo,
ma solo l’ingresso in una nuova fase, dal volto meno truce e sinistro. Si
comprenderà altresì come non poter immaginare come ‘salvatori’ gli Alleati
assieme ai Sovietici (non meno dei cinesi), entrambi di altre forme
altrettanto inquietanti di potenze nichilistiche, orientate al medesimo dominio
planetario. Russia e America (e come vediamo anche ai nostri giorni: la Cina)
rappresentano entrambe la stessa cosa: la medesima desolante frenesia
della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo
massificato e mercificato.
La dimensione dominante in queste realtà ‘virtuali’
è quella di un desolante livellamento, causato dalla riduzione di ogni cosa
all’estensione e al numero; tutto risulta uguale e indifferente, al punto che
questo puro quantitativo si è trasformato in una sorta di qualità. Già nel
1939 tutta l’umanità appare ormai minacciata da quell’uniformizzazione quale
supremo e vero pericolo. Essa è un fenomeno di carattere planetario che
nella sua forma essenziale presenta senz’altro gli stessi tratti in America e
in Russia come in Cina, in Giappone e in Italia, in Inghilterra e in Germania,
e che curiosamente è indipendente dalla volontà dei singoli, dalla specie dei
popoli, degli stati, delle civiltà. Al di là, quindi, delle differenti
ideologie proclamate e dalle differenti forme storiche assunte, il presupposto
‘metafisico’ della tecnica già risuonava nella formula annunciata da Lenin,
secondo la quale il bolscevismo è ‘potenza dei sovietici + elettrificazione’.
…Il pensiero-calcolante cattura ormai tutti i popoli della Terra,
finendo con l’assumere il senso di un destino mondiale, infatti sul piano della
Storia dell’essere il materialismo proclamato dal marxismo va ricondotto
all’essenza della tecnica in virtù della quale ‘tutto appare come il materiale
da lavoro’ e su questo piano, dunque, esso mostra di avere il medesimo
fondamento dell’americanismo.
Così come il nazionalismo e internazionalismo,
poggiando sulla stessa metafisica della soggettività, finiscono per essere
indistinguibili, allo stesso titolo di collettivismo e l’individualismo.
Nitzsche aveva infatti preconizzato: ‘Si avvicina il tempo in cui sarà
ingaggiata una lotta per il dominio della Terra – sarà ingaggiata nel nome di
dottrine filosofiche fondamentali, ma lo scontro epocale tra nazismo, comunismo
e americanismo, che ha insanguinato la storia del Novecento, conclusosi infine
con il trionfo della superpotenza americana, si rivela in ultima istanza, al di
là del piano storico dello scontro tra ideologie contrapposte, lo scontro tra
gradi e forme diverse di una medesima volontà di potenza che, attraverso la
tecnica, intende imporre il proprio dominio sull’intero pianeta. E non c’è
dubbio che, da questo punto di vista, l’America abbia saputo con maggiore
efficacia imporre il proprio modello totalitario, proprio perché meglio
delle altre potenze in gioco, è stata in grado di travestirlo nel suo esatto
contrario, sostituendo l’edonismo consumistico al terrore, la pubblicità alla
propaganda, il regno della (apparente) libertà e della libera realizzazione
degli interessi di ciascuno all’assoggettamento disciplinare delle masse
asservite al consumismo materialistico. Per questo oggi, avendo saputo
coniugare la necessità della tecnica con il liberismo economico, ha
assurto il ruolo, con fede missionaria, di incontrastata promotrice di una
Tecnica che promette libertà (di impiegare e consumare risorse) e felicità (nel
‘libero’ impiego e consumo), divenendo, anche, politicamente la prima potenza
mondiale”.
(C. Resta, Nichilismo Tecnica Mondializzazione)
Quindi da saggio ‘manifesto’ detto dal Far East procediamo
simmetricamente in questa doppia linea in cui corre l’alta velocità della vita
verso il Go West per i futuri Baby che correndo non si accorgono, in
verità e per il vero, di procedere verso il baratro del viaggio della vita,
anche quando questa celebra(va) il Grande Regno del Sacro non protetto né pregato e/o rinnovato entro e
fuori le grandi muraglia dell’impero [medesimo impero], bensì cancellato ad uso
e consumo di chi pur viaggiando e correndo cieco di quanto Sacro creato nel
nome e per conto del Creato e fors’anche di un comune Dio celebrato
sacrificando al materialismo un Paradiso in Terra nell’Inferno fondato…
Saliamo sul treno detto….
Nel non lontano 1873, dopo la Guerra di Secessione (in verità e per il
vero non ancora del tutto terminata…) in America la struttura finanziaria della
nazione somigliava ad un grande bacino imbrifero. Man mano che la massa
monetaria grazie alle grande compagnie ferroviarie affluiva nel grande bacino
finanziario al centro di Manhattan, i banchieri ne investivano buona parte in
prestiti a vista a brevissimo termine ed alto tasso d’interesse agli operatori
di borsa, legando le sorti delle nuove comunità rurali cresciute dai territori
sottratti ai nativi più sperdute all’andamento del mercato azionario (il
sistema non certo mutato solo evoluto ed esportato, non si può negare l’umor di
Stato compiaciuto del proprio operato quando l’Agenzia di turno offre il
voto allo ‘scolaro in servizio’ incidendo sulla vita politica ed economica di
una intera nazione e/o unione…, tacendo però sul vero senso del bene goduto e a
chi sottratto, e altresì, negando quanto danno arrecato… nel TEMPO E LA MEMORIA
COSI’ OFFESE E DEGRADATE).
A partire dal Novecento, il sistema della Federal Riserve
avrebbe semplificato molto i grandi movimenti di denaro attraverso il paese.
Durante tutto l’anno grandi quantitativi di contanti di denaro si muovevano
verso New York per tornare in autunno verso le zone dei terreni agricoli. E
viaggiavano tutti in ferrovia. Le Compagnie ferroviarie non maneggiavano
direttamente i carichi di beni ma anche di contanti; il grande potere delle
grandi Compagnie ferroviarie – le prime grandi società ad emergere negli Stati
Uniti – sbalordiva il nascente capitalismo americano. “La società moderna ha
creato una classe di esseri artificiali che promettono di diventare ben presto
i padroni del loro creatore”….
...Nella primavera del 2002
a Lhasa stava cambiando tutto...
Le politiche scelte per potenziare la campagna ‘Go west’ stavano
trasformandosi da progetti in imprese reali, destinate a mutare il Tibet in una
civilizzata società post-industriale simile a Pechino, Shangai o al centro
manifatturiero di Shenzhen. Era una visione che meritava molto di più di una
ferrovia. In realtà, richiedeva la precipitosa urbanizzazione non solo di
Lhasa, ma anche dei più piccoli villaggi delle regioni più rurali. Nel nono
piano quinquennale per la TAR del 1996, il governo centrale aveva richiesto la
creazione di più di 70 nuove cittadine e di diverse grandi città entro il 2020.
Quegli obiettivi, che erano stati vagamente definiti decenni prima, quando Mao
aveva dichiarato che la popolazione del Tibet avrebbe dovuto raggiungere i 10
milioni, ricevevano ora una grossa spinta dalla nuova audacia della Cina.
Il primo passo della nascente trasformazione del Tibet implicava
l’eliminazione di ogni infrastruttura antiquata, con un processo che era
iniziato a Lhasa nel 2002 (ancor prima, come già enunciato nel...1950), poco
dopo il disgelo primaverile. Se ci spostava in direzione ovest sulla Bejing
Donglu, verso il torreggiante palazzo del Potala, la città appariva sottosopra.
I crescenti tormenti dello sviluppo facevano sembrare i quartieri situati tra
Barkhor e la piazza del palazzo appena bombardati. Solo l’angolo di una strada
manteneva la caratteristica architettura tibetana sbandierata sugli opuscoli
turistici, cioè un muro a forma lievemente piramidale ricoperto di calce
che splendeva al sole. A poca distanza, l’intera città era coperta da cumuli di
macerie. Una piccola strada, delimitata da pochi muri sinuosi che erano
sopravvissuti alla distruzione, portava a quello che era stato un cortile
centrale, il nucleo tradizionale degli edifici residenziali di Lhasa.
Una donna anziana, sua figlia e la nipotina erano sedute fuori da una porta e cercavano di proteggere le scodelle di ‘noodle’ dalla
onnipresente polvere delle demolizioni. Vicino a loro ondeggiava un enorme telone di plastica blu che sostituiva uno
dei muri demoliti. Le donne avevano la bocca protetta dal filtro dell’immancabile
velo. Vicino a loro si estendeva un’area desolata coperta da nubi di polvere, dove alcuni
uomini, in cima a mucchi di macerie bianche di circa cinque metri, facevano
ruotare le mazze in lunghi archi fluttuanti per poi abbatterli ovunque fossero ancora rimaste
parti di muro intatte. La donna più giovane spiegava che la polizia
annunciava ai residenti la demolizione solo quando era il momento che se ne andassero.
Lei e la madre aspettavano la notizia da un momento all’altro, ma non sapevano
dove andare. La campagna di demolizione della gran parte di Lhasa, quasi simile
a quella che si stava conducendo quell’anno a Pechino nei tipici quartieri ‘hutong’,
raggiunse il culmine nel maggio del 2002. Allontanarsi da un quartiere per
ventiquattro ore significava tornare e trovare che aveva cambiato aspetto, che
un altro edificio era stato distrutto e al suo posto erano già stati alzati
nuovi ponteggi. Come un mare crescente, i negozi cinesi e i portici che si
erano insediati all’estremità occidentale di Lhasa stavano lentamente avanzando
oltre il palazzo del Potala verso il Barkhor, il quartiere più caratteristico,
più sacro e più tibetano della vallata. Alla sua estremità meridionale, gli
antichi edifici lungo il fiume Kyichu venivano demoliti a ritmo devastante per
far posto a nuove costruzioni. Il santuario storico del Barkhor era preso d’assalto.
Stranamente, in quell’epoca i turisti preferivano vedere l’altro aspetto di Lhasa.
In effetti, visitare la città nel 2002 significava entrare in una specie di
caparbio stato di negazione che si appoggiava sulla sopravvivenza di un numero
ancora sufficiente di aspetti tipicamente tibetani, come i templi profumati di incenso e i monaci vestiti di
giallo zafferano. La guida del Tibet di ‘Lonely Planet’ non dedicava più di
qualche decina di parole alle parti della città esterne all’area del Barkhor,
come se non esistessero. I visitatori si addentravano in giri senza fine per il
Barkhor, visitando il tempio di Jokhange quello vicino di Ramoche, fotografando
i pellegrini tibetani con gli abiti dai colori vivaci che erano arrivati a
Lhasa dalla campagna, poi sorseggiavano un aromatico ‘masala’ indiano o un ‘daal
baat’ tibetano in un caffè destinati ad attrarre il gusto degli occidentali. Quando
ne avevano voglia abbastanza del Barkhor, potevano prendere un taxi per il Potala
o fino ai grandi monasteri vicini, come quelli di Drepung e Sera, o al massimo
organizzare un giro in jeep nei dintorni. Per gli stranieri era illegale usare
i servizi pubblici verso le principali mete turistiche fuori Lhasa, ma, da quando Pechino aveva identificato il turismo come uno dei
pilastri della regione, non mancavano le guide e neppure le agenzie. Mentre
scivolavano da una stradina all’altra, i viaggiatori scrutavano minuziosamente
ovunque, in una silenziosa competizione per scoprire gli angoli più genuini,
evitando di instaurare legami tra loro per salvaguardare le loro private
fantasie alla Francis Younghsband: ognuno avrebbe potuto essere il primo
occidentale a scoprire la vera Lhasa in mezzo alle macerie. Ma più sovente si
lamentavano della città imperfetta che avevano trovato. Secondo alcuni, Lhasa
era stata ridotta a un deludente crocicchio di turisti sulla strada verso l’Everest,
il Nepal o l’Occidente incontaminato del Tibet.
Un antropologo espatriato, Matthew, cercava ogni tanto di scrollare gli
occidentali dalla loro miopia, sfidandoli a guardare a occhi aperti il Tibet in
via di estinzione. ‘Il fascino del Tibet è in qualche modo una serratura a
tempo, sopravvissuto a diversi cambiamenti,e la gente vuole afferrarlo in
qualche modo’, mi spiegò. ‘La maggior parte dei turisti va in Tibet per
qualcosa di esotico: c’è questa idea di vedere che cosa riusciamo a catturare
di quanto esisteva precedentemente, ignorando che cosa c’è adesso’.
Ma mentre molti occidentali scrutavano il passato con la lente d’ingrandimento,
i cinesi tenevano sempre di più gli occhi fissi sul futuro. Al centro dei
rapidi cambiamenti nelle strade di Lhasa c’era il grande dilemma moderno della
Cina: come sarebbe stato possibile trasformare le province più povere da un
passivo a un attivo?
Per quattro anni, Pechino accompagnò il Tibet verso un maggiore grado
di autonomia e una rinascita religiosa che erano diventati inimmaginabili da
quando il Dalai Lama era fuggito in esilio nel 1959. Furono eliminate le tasse
e il Paese ritornò alla proprietà privata, dopo che vennero smantellati gli
ultimi pezzi del sistema delle comuni e i resti del grande balzo in avanti. I
cambiamenti ebbero un effetto immediato e positivo sul benessere dei
tibetani. Al centro di quelle politiche c’era la consapevolezza che
fosse possibile ricondurli all’ovile del comunismo attraverso il progresso e lo
sviluppo economico più che con la forza bruta.
Ma alla metà degli anni’ 80, forse sentendosi sicura degli sforzi
politici fatti, Pechino cambiò la politica di riforme, allontanandosi dalla
ricerca di progresso per i tibetani e sostituendola con un’aggressiva modernizzazione
economica, definita su scala nazionale più che locale. In quegli
anni di riforme, però, i tibetani avevano rafforzato la loro identità
culturale. La rinascita dei monasteri e la fiorente cultura religiosa
contribuirono alla crescita di un senso di indignazione nei confronti dei
cinesi e un inorgoglito desiderio di protestare a voce alta. Nel settembre del
1987, i monaci inferociti dalla risposta al vetriolo della Cina agli sforzi del
Dalai Lama per risvegliare la consapevolezza internazionale sulla situazione
tibetana, protestarono fuori dal tempio di Jokhang. Più di una decina
furono arrestati e, di conseguenza, scoppiò una rivolta di solidarietà. I
tibetani assaltarono e incendiarono la stazione di polizia del Barkhor. La
polizia cinese sparò sulla folla dai tetti, uccidendo dieci persone e ferendone
moltissime altre. Le agitazioni e la tensione continuarono per un anno e mezzo.
Intanto il Dalai Lama conduceva una campagna di opinione, rivolta ai governi
occidentali, per far conoscere la causa dei diritti, se non
dell’indipendenza, del Tibet, che gli fece vincere il Premio Nobel per la
pace nel 1989. Ancora una volta, Pechino fu costretta a restaurare l’ordine
sulle sue rauche frontiere e nominò segretario del partito nella TAR Hu Jintao,
il giovane governatore della provincia del Guizhou, uno dei candidati alla
presidenza del partito. Con la prospettiva di succedere a Jiang Zemin, Hu non
poteva permettersi errori.
Il giorno dopo la sua nomina, la polizia represse
un’altra protesta nel Barkhor, questa volta sparando direttamente a chiunque
facesse sventolare una bandiera del Tibet. Un mese dopo, Hu si recò a
Shigatze per incontrarsi con il Panchen Lama, che però gli oppose una certa
resistenza, prendendo al volo l’opportunità per criticare apertamente il
dominio della Cina sul Tibet, con un lacerante ed insolito richiamo ai leader
di Pechino. Cinque giorni dopo, nonostante fossero note le sue buone condizioni
di salute, fu trovato morto nel monastero di Tashi Lhunpo, dove viveva,
apparentemente per un infarto: la sequenza di eventi portò molti tibetani a
convincersi che Hu avesse qualcosa a che fare con quella morte. La rabbia
crebbe. I tibetani si resero conto in fretta che per loro, senza protezione del
Panchen Lama, l’epoca delle riforme liberali era alla fine. Nel mirino della
strategia di controllo cinese c’era la religione. Hu Jintao riteneva che la
diffusione della religione in Tibet fosse del tutto inconciliabile con gli
obiettivi delle ‘quattro modernizzazioni’ che definivano la politica economica
cinese: la religione, come sostenevano lui e molti altri conservatori,
coltivava il nazionalismo. I tibetani dovevano creare un mercato basato sui
beni materiali, non pregare i Buddha dorati o il Dalai Lama, la cui
testimonianza in tutto il mondo dava parecchio fastidio a Pechino. Da allora,
il governo iniziò un periodo di intensa repressione delle pratiche religiose
nei monasteri. Attraverso un processo di ‘rieducazione’, i monaci dovettero
studiare testi di propaganda cinesi per poi essere interrogati a fondo e
dimostrare la loro lealtà, e a volte erano mantenuti in isolamento per molti
giorni. Il governo chiedeva che disconoscessero il Dalai Lama e giurassero la
loro fedeltà al Partito comunista. Quelli che rifiutavano venivano
imprigionati, altri si suicidarono. Il risultato fu che il sistema monastico,
che aveva iniziato a ricomporsi negli anni 80, fu di nuovo travolto e i
tibetani dovettero sottomettersi ai cinesi un’altra volta.
Il governo cinese ritiene che per il 2020 saranno necessarie più di
85.000 camere d’albergo (per non parlare di futuri campi base organizzati per
l’avventura della cima), non solo a Lhasa ma bensì nel grande deserto probito
agli stranieri di un tempo: la richiesta di sviluppo turistico dell’altopiano
attraversato dal Grande Treno (portatore di merci persone e contanti per ugual
Riserve a cui destinare futuri ‘riservisti’ confinati entro e non oltre il
proprio territorio come la Storia conserva atroce memoria); ed intanto il treno
di lusso con il proprio prezioso carico di circa 1000 $ a notte offrirà ai
turisti appartamenti da 38
metri quadri con sale da pranzo private e vasche da
bagno con l’acqua calda…. Se si valuta come starebbe il Tibet (e la sua antica
scienza Sacra) con noi o senza di noi, è chiaro che starebbe meglio con noi,
dichiarò lo stesso - uno dei tanti e troppi direttori dell’antica
Compagnia - a proposito del suo investimento di 130 milioni di $.... (Buon
Viaggio…).
Ciò di cui un tempo un Viaggio avventuroso nel quale le meraviglie
della civiltà tibetana, della sua millenaria cultura e della sua storia erano
una ricompensa per la tenacia e la scomodità per arrivarci, ora, invece, è
diventato una routine… a dispetto di tutta quella antica sacralità per sempre
perduta per non parlare di quella magnifica Natura fin sul Tetto di un dèmone
muratore presiedere l’Inferno!
(A. Lustgarten, Il grande treno)
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