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Dovuti precetti... (3)
Mi parve di
scoprire sulla sua faccia un’espressione mefistofelica.
Sorrideva!
‘Ed io’
…gli dissi,
‘ed io,
disgraziato!’.
‘Guardate’,
…mi
rispose, indicandomi col dito una piccola tavola a parte,
‘guardate:
ecco il vostro posto! Un uomo come voi non deve mangiare con tutta quella gente
là’.
Oh il degno
discendente degli Octodurii! Ed io che avevo pensato male di lui! La mia
piccola tavola era apparecchiata meravigliosamente. Quattro piatti formavano la
prima portata, e in mezzo troneggiava un arrosto d’un aspetto tale da far
vergogna a un ‘beefsteak’ inglese!
L’albergatore
vide che esso attraeva tutta la mia attenzione. Si chinò misteriosamente al mio
orecchio:
‘Solo per
voi’,
…mi disse:
‘non posso
servire a tutti un simile piatto!’.
‘Di che
cos’è dunque quell’arrosto?’.
‘Filetto
d’orso, nient’altro!’.
Avrei
preferito che mi lasciasse credere trattarsi di un semplice filetto di bue.
Guardavo macchinalmente quel cibo decantato. Esso mi ricordava quelle
disgraziate bestie che da piccolo avevo visto ruggenti e infangate, con una
catena al naso e un uomo all’estremità della catena, ballare pesantemente, a
cavallo d’un bastone, come il bambino di Virgilio; sentivo il rumore sordo del
tamburo su cui l’uomo batteva, il suono acuto del piffero in cui soffiava, e
tutto ciò non contribuiva a creare in me alcuna speciale simpatia per la carne
che avevo davanti. Avevo preso l’arrosto sul mio piatto, e dal modo trionfante
con cui la forchetta vi si era piantata, avevo sentito che possedeva per lo
meno quella quantità che doveva rendere così infelici i montoni di mademoiselle
Scudéry.
Tuttavia
esitavo sempre voltandolo e rivoltandolo sulle due facce rosolate allorché
l’albergatore che mi guardava senza comprendere il motivo della mia esitazione
mi decise con un ultimo:
‘Assaggiatelo!
Mi saprete poi dire se è buono!’.
Infatti ne
tagliai un pezzo grosso come un’oliva, l’impregnai di tutto il burro che era
capace di assorbire e scostandolo le labbra lo misi fra i denti spinto più
dalla vergogna che dalla speranza di vincere la mia ripugnanza.
L’albergatore,
in piedi dietro di me, seguiva tutti i miei movimenti con l’impazienza benevola
d’un uomo sicuro e felice di potermi fare una lieta sorpresa.
Confesso
che la mia fu grande.
Ciò
nonostante non osavo manifestare subito la mia opinione; credevo ancora di essermi
sbagliato: tagliai silenziosamente un secondo pezzo, grande il doppio del
primo, gli feci prendere la stessa strada con le medesime precauzioni e quando
fu trangugiato:
‘Ma è
proprio orso?’,
dissi.
‘Orso’.
‘Davvero?’.
‘Parola
d’onore’.
‘È veramente
straordinario!’.
In quello
stesso momento l’albergatore fu chiamato alla tavola grande. Vi andò, ormai
sicuro che stavo per fare onore al suo piatto favorito, lasciandomi alle prese
col mio arrosto. I tre quarti erano già scomparsi quando ritornò, e riprendendo
la conversazione nel punto in cui l’aveva interrotta:
‘L’animale
col quale siete alle prese’
…disse,
‘era una
bestia famosa’.
Feci col
capo un segno di approvazione.
‘Pesava
trecento chili!’.
‘Bel peso!’
(Non perdevo un boccone).
‘Non lo si
è potuto prendere senza fatica, ve lo garantisco!’.
‘Credo
bene!’,
E mi misi
in bocca l’ultimo pezzo.
‘Quel
mostro ha mangiato metà del cacciatore che l’ha ucciso’.
Il boccone
mi uscì dalla bocca come se una molla lo avesse rovesciato.
‘Che il
diavolo vi porti!’,
dissi,
voltandomi dalla sua parte…
‘Non si
fanno questi scherzi ad un uomo che sta mangiando’.
‘Io non
scherzo, signore; è la verità’.
Sentivo il
mio stomaco rivoltarsi.
‘Era’,
…continuò
l’albergatore…
‘un povero
cacciatore del villaggio di Fouly, chiamato Guillaume. L’orso, di cui non resta
più nulla al di fuori di quel piccolo pezzo che avete là sul vostro piatto,
veniva tutte le notti a rubare le sue pere; poiché tutto va bene per quelle
bestie. Tuttavia si rivolgeva di preferenza ad un albero carico di pere
bergamotte. Chi lo direbbe che un animale come quello là abbia gli stessi gusti
dell’uomo…..’.
(A. Dumas)
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