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Un panino con motosega d'oro (10)
Che la ‘cura’ sia sbagliata!?
Eppure non ci sono errori di grammatica, come suggerisce il mio
amico del New England, la dotta calligrafia con apparenti ‘paradossi’
punteggiati e evidenziati da ‘squilibri’ suscita in qual tempo ammirazione e
indignazione compresa una certa antipatia per non aver ben compreso il contesto
dell’intera Rima.
…Come la faticosa conquista alla Cima per ogni ‘baratro’ e
‘crepaccio’ che vi si presenta, dappoi quando il mare calmo dall’alto
conquistato esprimiamo e dispieghiamo il colore della bandiera alta alla Vela
issata qual Albero maestro, confondendo Natura e desiderio ammirando e cantando
solenne inno, dimenticando chi il Vento o solo l’Elemento che pur soffia e
respira all’Albero maestro…
…Non vi sono ripetizioni eccetto tutte quelle che il linguaggio
filosofico consente, neppure paradossi, giacché individuiamo nella ‘cura’ un
sano metodo di intervento in qual tempo ‘cura’ del dovuto ‘progresso’; come bel
leggete ‘cura’ compare qual rimedio in nome del ‘progresso’ non ben ‘curato’,
di per sé questo un evidente ‘crepaccio’!
…Se solo lo avessimo ben assicurato alla ‘corda’ quella con cui si
è soliti ‘affiggere’ all’Albero maestro la bandiera della Legge d’ognuno, l’audace
non avrebbe certo ‘tradito’ il cammino così ben condiviso…
Precipitando nostro malgrado nel ‘crepaccio’.
…Sì! Fuor d’ogni dubbio!
Sarebbe con noi alla Cima per la solenne e dovuta conquista…
E non perché non vogliamo curare l’insano morbo dell’insanabile
idiozia (giacché il postino più volte ha pur ripetuto che da imbecilli perdere
in cotal modo la Vita), ma perché pensiamo bene che questa appartenga all’evoluzione
della Terra fin tanto la Natura che ne parla e specifica; ma quando l’uomo deve
curare un ‘male’ antico affine al limite in cui posto pur essendo superiore a
questa, pensiamo di parafrasare ed evidenziare i metodi della ‘cura’ stessa
entro e fuori una parantesi così come intesa la Vita…
Non posso soffermarmi nella corretta diagnosi o interpretazione
della ‘cura’ detta, neppure far intendere che, se della ‘cura’ la Terra
necessita allorquando potevamo e possiamo abdicare al remoto fato il mortale
destino d’ognuno con cui ogni specie, compreso il Pensiero con cui il dovuto ‘cogito’ et
distinguo misura differenza distanza e superiore
appartenenza (nel limite posto) nonché elevato destino… dal respiro nato, e non
certo soffocato; qualcosa non correttamente ‘diagnosticata’ dalla ‘cura’
adottata, in quanto abbiamo ‘cura’ e compito di preservare al meglio il nostro
dall’altrui gene derivato, in quanto dovremmo aver maggior ‘cura’ di porre
dovuta attenzione alla grammatica della Vita nei termini in cui questa ha
scritto non certo una Bibbia ma un intero Poema purtroppo giammai compreso;
dacché l’ultimo arrivato al porto dell’Universo e da cui Evoluto, almeno così
dicono e ciarlano, deve sempre adottare un sano rimedio entro una ‘cura’ in cui
porre i corretti termini della propria e non altrui ‘equazione’ della Vita, in
cui deducendo la stessa, non ha ancora bene afferrato con quale ‘cura’ un
Innominato ha gestito superiore Matematica nonché l’intera grammatica
incompresa.
Certo da un batterio nato, quello che ancora nel rimedio della
‘cura’ detta cerchiamo destinando la presunta capacità e genio oltre ogni
confine immaginato, e quando ne troviamo uno esultiamo dalla gioia ritrovata
per il marziano così amato, dimenticando il carico della stiva qual male antico
in cui per secoli ci siamo distinti per ogni porto conquistato.
La sana ‘cura’ per ogni Terra conquistata fu ed è il male seminato
e non certo in ragione d’un batterio così come la specie si distingue, quella
fu ed è costantemente sterminata perché oggetto indiscusso nonché portatore di
quel virus o batterio con cui colonizzando e civilizzando andiamo a fare le
dovute pulizie per ogni porto e non solo marziano.
…Ogni ‘batterio’ respirato ed incontrato, scuro e ben ossigenato,
così come Adamo nel proprio Paradiso, in onor del loro Dio pensano bene di,
proprio nei riguardi e ‘cura’ di come si principia la Vita’, sterminare con un
grande fuoco donde il Principio glutterato giammai sgrammaticato entro la vera
caverna della pazzia…
Ed allora cari amici e fratelli quivi convenuti da pellegrini
oppure alla Vela naufragati, così attenti agli accenti, agli apostrofi, agli
accidenti non ben ‘curati’ alle parentesi, ai rimandi, alle virgole e non solo
quelle indossate come copricapi, sfarfallanti e festanti, con colori e
ripetizioni evidenti, loro signori così attenti - dico ai futuri maestri e
regnanti - dovete essere apostrofati per la vera e sana ‘cura’ cui dovreste
esser destinati e non certo alla conquista della Terra, dacché ‘curando’ e
nutrendo l’insano appetito dissimile dalla bestia, avete ucciso e azzannato
peggio di questa, avendo ben ‘cura’ di accendere un fuoco entro la caverna così
come eravate soliti difendervi dalla stessa.
La Bestia vi saluta nella propria ed altrui autodifesa.
Dedicando cotal motto alla Cima cui affissa la corda maestra…
…Al risveglio non
ricordavo di aver sognato, ma mi perseguitava un’idea fissa che forse si era
insinuata con il favore del sonno.
Tornare da Greta o
impazzire!
Rabbrividii, balzai giù
dalla cuccetta, madida del vento umido che penetrava dovunque.
Fuori, sul ponte, il cielo
sembrava una lamiera grigio-azzurro, e le onde agitate lavavano il cordame,
innaffiavano le tavole e mi spruzzavano in viso una pioggia di schiuma. Guardai
l’orologio e calcolai la distanza percorsa dalla nave durante il mio sonno;
dovevamo essere suppergiù nell’arcipelago di Norrköping, e perciò considerai
sfumata ogni speranza di tornare indietro. Il paesaggio mi sembrava completamente
sconosciuto, dagli isolotti disseminati nelle insenature alle scogliere
rocciose, alla dimensione dei capanni sparpagliati lungo le rive, alla foggia
delle vele dei pescherecci. E dinanzi a quella natura estranea mi assalì un principio
di nostalgia. Ero strozzato da una rabbia sorda, disperato di trovarmi mio
malgrado incastrato in quel cargo come un pesce in barile, a causa di una forza
maggiore che si chiamava «onore».
…Sfogata la mia rabbia
furiosa, caddi esausto in uno stato di opprimente prostrazione; curvo sul
parapetto, lasciavo che le onde mi sferzassero le guance che scottavano, e
intanto continuavo a divorare i particolari della costa con gli occhi avidi di
scoprire un lume di speranza, meditando di raggiungere la riva a nuoto...
Ebbi un lampo, un’idea, una
sola: scavalcata la passerella con un balzo felino, fui davanti al capitano e
gli dissi con decisione:
‘Mi faccia scendere o
impazzisco!’.
Il capitano mi gettò una
rapida occhiata, senza rispondermi, sbalordito come di fronte a un pazzo
fuggito dal manicomio, chiamò il secondo e senza pesare le parole gli ordinò:
‘Faccia sbarcare
quest’uomo con il suo bagaglio. È uscito di senno’.
Un istante dopo ero seduto
nella pilotina che avanzava a gran colpi di remi, e in cinque minuti fui a
terra.
Sono davvero pazzo!?
Il pericolo era così
imminente da rendere necessario uno sbarco precipitoso?
Non mi consideravo in
grado di giudicare le mie condizioni in quel momento, visto che il malato
mentale, stando a quanto sostengono i dottori, non è cosciente della propria deviazione
e il fatto che sviluppi ragionamenti coerenti non prova in alcun modo che siano
normali.
Da provetto investigatore,
cominciai a passare in rassegna episodi analoghi avvenuti in passato.
Una volta, quand’ero all’università,
alcune esperienze difficili – suicidio di un compagno di studi, delirio
amoroso, ansia del futuro – mi avevano condotto a uno stato di estrema
agitazione nervosa, tanto che ero angosciato di tutto anche in pieno giorno e avevo
paura di restare nella mia stanza perché mi sdoppiavo vedendo me stesso, cosa
che costrinse i miei amici a sorvegliarmi a turno di notte con una quantità di
candele accese e il fuoco crepitante nella stufa.
Un’altra volta, colto da
un acuto rimorso provocato da disgrazie di ogni tipo, mi misi a correre per la
campagna, vagare per i boschi, e alla fine mi arrampicai in cima a un pino, mi
sedetti a cavalcioni di un ramo e concionai gli abeti in basso, di cui volevo
sovrastare il mormorio con la mia voce, credendo di essere un oratore che
parlava alla folla.
Era accaduto proprio lì
vicino, in quello stesso isolotto nel quale avevo passato tante estati e di cui
si scorgeva il promontorio all’orizzonte.
Riandando con la memoria a
quell’episodio con tutti i suoi particolari bizzarri, mi persuasi di essere
caduto perlomeno in uno stato temporaneo di confusione mentale.
Che fare?
Avvisare i miei amici,
prima che la voce si spargesse in città. Ma la vergogna, il disonore di essere annoverato
fra gli squilibrati!
Era insopportabile!
Mentire, seminare falsi
indizi, senza riuscire a darla a bere?
Era una cosa che mi
ripugnava!
…Schiacciato dagli scrupoli,
combattuto fra diversi piani per uscire da quel labirinto che non aveva
sbocchi, ebbi voglia di sparire per sempre, di sottrarmi alle fastidiose
domande che mi aspettavano, di trovarmi un buco nella foresta e rintanarmici per
morire come fanno gli animali selvatici quando sentono avvicinarsi la loro ora…
(…Nella stessa Foresta
Giuliano incontra Strinberg; ora sono in Tre e non più Uno solo: la Matematica
comincia a porre gli accenti della propria impropria dottrina…)
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