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Circa il trionfo dell'idiozia (Prima parte)
Prosegue con un...:
Breve scritto dedicato ad un dissidente (3)
...Ero
rimasto - se ben ricordo - sospeso alla Cima o nell’Abisso d’un lungo Discorso,
e certo che codesto modo di scrivere (e non solo grammaticalmente - perché mi
si contesta anche la nobile arte dell’incidere sulla pietra come il nobile
papiro in digitale tradotto nell’epoca in cui i gradi rilevati e rivelati sono
al 451 di un lungo inverno, così come il libero mercato impone… e come presto
avremo modo d’intendere e volere e con questo leggere….), mi si rimprovera
cioè, nei secoli dei lumi precipitati, Ragione e Parola, e con essa, ‘libero
intelletto’ al ‘libero mercato’ offerto e mi si apostrofa, di conseguenza, non
più dal vescovo Nazianzeno reinterpretato nonché diligentemente ridistribuito
& sempre dal libero ed onesto mercato asservito dalle facoltose api - di
cui il Mandiville -, di non essere ospite gradito così come ogni Reo nell’oltraggio
o dubbio Atto del Libero Pensiero riacquisito…
…Le
facoltose ‘api’ intendono reciproco assenso e tacito sottinteso velato accordo
confinandomi all’esilio quando uccidono il libero arbitrio precipitando in ciò
di cui si compone la Memoria (narcotizzata o alcolizzata) offuscata e
calunniata in onor di miglior miele o concime… dall’alveare o formicaio
prodotto… ed al Bar servito…; giacché proprio lì come all’osteria sembra il
formarsi il miglior partito asservito…, e con lui il nebbioso offuscato Tempo derivato…
quanto unanimemente senza ‘licenza’ di ragione votato…
Cosa
- in verità e per il vero - regola e marca la differenza nella retta parola e
libero Eretico Pensiero? –
Mi
debbo scusare quindi con questi nobili Signori se ogni tanto scrivo in Rima e
la ricerca della Verità più evoluta comporta una difficile scelta inquisita ed
isolata; ringrazio loro di poter entrare a pieno titolo nell’alveare della
Storia, ricordando che forse non troppe ‘perle’ bisogna offrire all’allevamento
così come all’alveare eternamente sospeso nei propri illuminati giudizi
divenuti grugniti soprattutto quando ogni ‘libero’ bandito [ed il ‘bandito’
godere l’onore di miglior mensa offerta] da chi governa e cura cotal nuova
istruzione giacché le statistiche in merito per il fiero apicoltore indicano
una massiccia partecipazione al totale insindacabile principio da cui ogni
forma di cultura accresciuta e derivata elevando l’estetica della dovuta e
pilotata ‘visione’ alla parabola di diversa dottrina, e perseguendo, così come
e sempre la Storia, ogni ragionevole Profeta e la strana Visione circa codesta
Vita da tutti indistintamente reclamizzata anche con la fiera e durevole
calunnia, giacché le api emettono sempre il loro indistinguibile sibilo di cui
ogni copioso allevatore va pur fiero… nel nuovo mito così innestato… et anco
digitalizzato….
(il
curatore non ancor curato risponde a tutti i fedeli)
L’eredità illuminista non è fatta soltanto di idee, ma
anche di compromessi impuri, perché la filosofia, come tutte le manifestazioni
culturali della nostra civiltà, risente di certi interessi, interessi che
all’epoca tendevano a fare il gioco della classe media e del suo potere in via
di consolidamento, contribuendo a fondare e proteggere le sue aspirazioni e il
suo benessere economico.
L’esempio di Voltaire (come quello di Reclus) mostra come
sia facile far convivere queste opposte esigenze.
…La paradossale doppia eredità del XVII secolo – ovvero
la contraddizione tra l’agire interessato della classe media e la sua immagine
di sé, da sempre fonte di un certo grado di ipocrisia – è giunta fino a noi in
una successione ininterrotta. Anche noi parliamo volentieri di diritti umani
universali, ma la crescita economica dei nostri paesi dipende in misura ancora
maggiore che un tempo dallo sfruttamento di persone e risorse naturali.
Se la contraddizione è rimasta invariata, però, il contesto è oggi completamente diverso. Nel XVII secolo il cambiamento climatico non era ancora percepito come un evento globale, e anche in caso contrario le società europee non avrebbero saputo rispondere in modo più efficace, perché il metodo scientifico non era ancora riconosciuto in tutta Europa, i rapporti di potere erano troppo radicati nella dimensione locale e le influenze politiche tradizionali troppo rigide per lasciare un margine di manovra. Oggi sappiamo che il cambiamento climatico che ci attende è una conseguenza dello sviluppo industriale della nostra specie. Siamo ancora incapaci di prevedere tutte le sue ricadute, ma sappiamo che decisioni rapide e determinate ci consentiranno di renderle meno catastrofiche.
Siamo la prima generazione nella storia del genere umano
ad avere un’idea piuttosto precisa dell’eredità che toccherà in sorte ai nostri
posteri. Certo, gli scenari futuribili messi a punto dagli scienziati sono
soltanto dei modelli fondati su semplificazioni e approssimazioni matematiche,
ma se non altro, a differenza degli uomini del XVII secolo, oggi siamo
consapevoli del modo in cui il nostro comportamento influisce su certi
importanti meccanismi. Un vertice sul clima come quello che si è chiuso a
Parigi nel 2016, con le sue tiepide risoluzioni destinate a entrare in vigore
solo a distanza di cinque anni, e quasi certamente per venire violate, manipolate
e crivellate da eccezioni di ogni sorta, non è una risposta convincente alla
crisi che stiamo attraversando, ma piuttosto un segno della scarsa forza di
volontà con la quale ci apprestiamo ad affrontare trasformazioni radicali, e
questo nonostante il margine di gioco per cercare quantomeno di governarle si
stia progressivamente riducendo.
Ci attendono rivolgimenti importanti, per cui faremmo
meglio a sfruttare fin da ora il privilegio evolutivo che ci è stato concesso,
cioè la capacità di progettare. Oggi come allora la crisi colpisce innanzitutto
i presupposti economici della nostra esistenza materiale. In epoca tardofeudale
si trattava della produttività della cerealicoltura, oggi dello sfruttamento
delle risorse naturali, condotto al limite estremo, e forse già molto oltre. I
costi ecologici e i rischi connaturati alla produzione e alla promozione delle
fonti di energia fossili e delle relative materie prime aumentano
vertiginosamente, mentre le prime vittime del riscaldamento globale della
crosta terrestre sono già costrette ad abbandonare le loro terre d’origine.
Sul piano delle relazioni internazionali l’imperativo
della crescita porterà a conflitti per il controllo dei mercati (come già
accaduto nel XVII secolo e a ridosso della Grande guerra). Una volta
soddisfatti i bisogni di base e saziati i bisogni artificiali all’interno di un
dato spazio vitale, i mercati ricercano per necessità nuovi territori da
sfruttare per poter crescere ancora, scontrandosi in modo inevitabile con altri
mercati mossi dalla stessa ambizione. La crisi si allargherà e aggraverà fino a
che il prezzo da pagare in termini di esperienza collettiva non risulterà
troppo oneroso, costringendoci a rivedere le nostre tattiche. È probabile che
molti esseri umani soffriranno nel corso di questi sviluppi, ma anche noi, come
i nostri antenati all’epoca della piccola era glaciale, finiremo per dover
reinventare le nostre pratiche e le nostre metafore economiche, politiche e
culturali.
I primi testimoni del cambiamento climatico ragionavano quasi senza eccezione da un punto di vista religioso. Quel maltempo catastrofico era un castigo divino, la natura era percepita come un universo morale incentrato sui principi cristiani. Rispondere alle grandinate primaverili o alle fasi di siccità con digiuni, preghiere, processioni o roghi di streghe sembrava all’epoca la strategia giusta.
Si potrebbe affermare che la dottrina del libero mercato
sia una riproposizione degli ideali illuministi in chiave alleggerita. La sua
differenza rispetto ad altre tradizioni liberali, quella che fonda la sua
specificità, è legata a un problema annoso: il modo in cui una società è tenuta
a concepire e proteggere la libertà.
Le opportunità di far valere e vivere la propria libertà
sono equamente distribuite?
Il mercato è un level
playing field, un campo da gioco perfettamente piano nel quale chiunque può
avere successo grazie all’intelligenza e al duro lavoro?
In questo caso sembrerebbe giusto premiare
l’intraprendenza e penalizzare l’inerzia. Oppure il gioco è truccato, cioè
alcuni dei contendenti hanno chance incalcolabilmente migliori di altri grazie
alla loro origine sociale, al loro grado di istruzione e alle maggiori risorse
di cui dispongono?
Il sogno del libero mercato concepisce tutti i soggetti
coinvolti in processi economici come ugualmente liberi e ugualmente capaci di
perseguire i propri interessi materiali, e quindi di prendere decisioni
ponderate. Un altro dei presupposti è l’idea che quelle decisioni siano sempre
decisioni razionali, finalizzate al proprio personale tornaconto. Come in de
Mandeville, sono le api più ingegnose e astute a imporsi, vivendo nel lusso e
dando da mangiare a migliaia di compagne con i loro eccessi e le loro abitudini
decadenti.
L’idea che la libertà dell’essere umano si potesse
definire in termini puramente economici è nata in parallelo a quella di una
libertà incondizionata di ordine etico. Al crollo delle grandi ideologie
messianiche del XX secolo quella concezione economicista della libertà è
sembrata la candidata migliore per colmare il vuoto lasciato dall’implosione di
più di un grande modello di trascendenza. Il ‘Mercato’ era il sostituto ideale
di Dio, dello Spirito e del Progresso. Da un lato, statistiche e dividendi alla
mano, è riuscito ad ammantarsi di un’aura di fattualità e neutralità
scientifica al di qua di ogni ideologia; dall’altro le sue dinamiche sono
sufficientemente opache da rendere possibile una messa in scena spettacolare. I
suoi misteriosi capricci vanno decifrati, tanto che un’intera casta di profeti
e auguri, più potente di qualunque clero, vive lautamente della loro
interpretazione.
Tendiamo a parlare dei mercati come di remote divinità,
inquiete, apatiche o iperattive a seconda dei casi. Sacrifichiamo esseri umani
sull’altare della crescita economica. Nel XVII secolo correva voce che il
potere statale fosse stato accaparrato da una congiura di preti e magistrati.
Oggi, invece, sono gli economisti a saziare la nostra fame di trascendenza.
Già nel 1944 Karl Polanyi metteva in guardia dalla
tentazione di considerare la società come una mera appendice dell’economia.
All’epoca poteva sembrare un’idea eccentrica, ma oggi quello scompenso è
diventato la nostra realtà. È sorprendente quanta criptoteologia si nasconda
nel modello in apparenza scientifico del libero mercato. Forse è ingiusto
coinvolgere Giovanni Calvino in un dibattito scatenatosi a secoli dalla sua
morte, e del quale il riformatore religioso non poteva immaginare nulla, ma
l’esaltazione della ricchezza e della riuscita economica, il più volgare e il
più trasparente tra i sottoprodotti sociali del nostro ipereconomicismo, ha
moltissimo in comune con la dottrina calvinista della predestinazione, come
abbiamo già osservato.
Dio stabilisce a propria discrezione chi merita la grazia
e chi no, e la ricchezza è un segno di elezione.
La ricchezza è una virtù e la povertà un vizio.
Peggio ancora: la povertà è assenza di grazia divina, e
come tale è una sciagura senza alcun rimedio. Dio ha volto le spalle alle
classi più deboli…
Già nel XVIII secolo Adam Smith ammetteva implicitamente
la propria incapacità di dimostrare quel dogma quando adduceva l’idea che per
ragioni non meglio precisate una ‘mano invisibile’ avrebbe corretto le
asimmetrie del mercato. Un corrispettivo economico del deus ex machina che nel teatro barocco spuntava dal nulla per
sciogliere arbitrariamente una situazione senza via di scampo.
Il mito del libero mercato non risente soltanto della
dottrina calvinista della predestinazione e del dogma della provvidenza: anche
il presupposto della razionalità di tutti gli attori è tanto indimostrabile
quanto intriso di religione.
Nel XVII secolo il problema ha visto contrapporsi
cartesiani e spinoziani: siamo esseri per definizione razionali oppure veniamo
mossi e dominati dalle nostre passioni?
Ma allora perché a ogni nuova generazione scegliamo di
riprodurci?
Perché non siamo creature innanzitutto razionali!
Perché molto spesso le grandi decisioni della vita hanno
poco o nulla a che vedere con vantaggi monetizzabili.
L’idea che l’essere umano sia un soggetto innanzitutto razionale si può vedere come una ripresa di alcuni temi del pensiero illuminista; se intesa come fondamento di una teoria empirica del consorzio umano, però, non può reggere alla prova dei fatti. Le possibili interpretazioni dei concetti liberali fondamentali, cioè la libertà e i diritti umani, coprono uno spettro molto ampio: dall’ ‘emancipazione del proletariato’ in Urss e in Cina al dominio del ‘libero mercato’. Non di rado sono stati investiti di accenti religiosi e sottintesi politici. Gli ideali illuministi hanno perso la loro innocenza. Si sono piegati a compromessi, e molti, forse troppi, sono stati deformati e invocati a sproposito, molte, troppe volte.
Eppure l’intuizione alla loro base, l’idea che tutti gli esseri umani nascano uguali, è stata l’innovazione di maggiore portata nella storia del pensiero sociale. Prendendo le mosse dall’esperienza concretamente vissuta delle differenze che potevano convivere nelle grandi città commerciali, i pensatori illuministi hanno affermato i diritti degli individui contro quelli della collettività. È a quell’epoca e a quelle idee che dobbiamo, tra le altre cose, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: principi che vengono violati ogni giorno in tutto il mondo, ma che come istanza normativa esercitano su tutti noi un potere universalmente vincolante. È il sogno della democrazia e della giustizia sociale, del femminismo e dell’emancipazione postcoloniale, dei diritti civili e dell’uguaglianza per tutti. Il sogno più grande e bello che l’umanità abbia mai sognato. Un bel sogno, ma anche molto difficile, dal momento che la prospettiva di un’uguaglianza davvero universale esige un possente sforzo di fantasia: gli illuministi radicali sostenevano che l’essere umano è parte della natura, un animale come gli altri, anche se di gran lunga il più interessante (quantomeno dal nostro punto di vista).
Nessun Dio governa le nostre vite, che nessun ordine
superiore e nessun destino storico abbracciano e ricomprendono. Gli altri
animali, salvo eccezioni, conoscono la solidarietà solo all’interno di un
branco o come sottoprodotto di una gerarchia sociale. La natura è fatta di
cacciatori e prede. Nessun animale al di fuori del branco ha il diritto di non
essere cacciato, di crescere in pace i propri piccoli, di vivere al sicuro e di
non morire di fame.
Il dinamismo sociale porta con sé il cambiamento
tecnologico, i flussi migratori, nuove concezioni morali e il tramonto delle
verità eterne, sostituite da esperimenti, ipotesi e discussioni senza fine. La
libertà del sogno liberale implica la necessità di costruirsi attivamente. È un
sogno che ha conquistato intere società, trascinandole via con sé, facendole
muovere in continuazione: domani nulla sarà più come ieri.
Il sogno liberale si rimette continuamente in
discussione, generando senza sosta nuovi scenari, nuove promesse e nuove
esigenze. Così facendo produce anche interpretazioni sempre nuove della propria
storia, sottraendosi alla prova della verità.
Anche nel caso migliore il fatto di vivere in uno stato di flusso permanente, senza la speranza di poter saziare un giorno la nostra sete di verità, mette gli individui a dura prova, sia sul piano intellettuale che su quello personale. Le circostanze, però, tendono quasi sempre a favorire pochi fortunati, e interpretare il concetto illuministico della libertà in senso puramente economicista, nei termini di un’autoregolamentazione del mercato, significa fare del sogno liberale un idolo assetato di sacrifici umani.
(A. Farrachi; Giuliano;
J. Bury; P. Blom)
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