giuliano

martedì 22 settembre 2020

IL TRIONFO DELL'IDIOZIA (Seconda parte)

 









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 Circa il trionfo dell'idiozia (Prima parte)


Prosegue con un...:


Breve scritto dedicato ad un dissidente (3) 








...Ero rimasto - se ben ricordo - sospeso alla Cima o nell’Abisso d’un lungo Discorso, e certo che codesto modo di scrivere (e non solo grammaticalmente - perché mi si contesta anche la nobile arte dell’incidere sulla pietra come il nobile papiro in digitale tradotto nell’epoca in cui i gradi rilevati e rivelati sono al 451 di un lungo inverno, così come il libero mercato impone… e come presto avremo modo d’intendere e volere e con questo leggere….), mi si rimprovera cioè, nei secoli dei lumi precipitati, Ragione e Parola, e con essa, ‘libero intelletto’ al ‘libero mercato’ offerto e mi si apostrofa, di conseguenza, non più dal vescovo Nazianzeno reinterpretato nonché diligentemente ridistribuito & sempre dal libero ed onesto mercato asservito dalle facoltose api - di cui il Mandiville -, di non essere ospite gradito così come ogni Reo nell’oltraggio o dubbio Atto del Libero Pensiero riacquisito…

 

…Le facoltose ‘api’ intendono reciproco assenso e tacito sottinteso velato accordo confinandomi all’esilio quando uccidono il libero arbitrio precipitando in ciò di cui si compone la Memoria (narcotizzata o alcolizzata) offuscata e calunniata in onor di miglior miele o concime… dall’alveare o formicaio prodotto… ed al Bar servito…; giacché proprio lì come all’osteria sembra il formarsi il miglior partito asservito…, e con lui il nebbioso offuscato Tempo derivato… quanto unanimemente senza ‘licenza’ di ragione votato…

 (il curatore del blog)

 



 L’uomo medio è mentalmente pigro e tende ad obbedire alla legge del minimo sforzo. Il mondo mentale dell’uomo comune consiste in credenze (di gruppo) accettate senza interrogarle e alle quali è fermamente legato, egli è istintivamente ostile a qualunque cosa sconvolgerebbe l’ordine stabilito (dalla corsa alla partita dal nuovo globale Colosseo offerta – e - a comode rate mensile proposta) di questo mondo a lui familiare. Una nuova Idea non conforme con alcune sue credenze comporta la necessità di riordinare la sua mente, e questo procedimento gli risulta faticoso [si provvede così - aggiunge il curatore - rimuovere le nuove Idee con inutili dannose ulcerose ‘calunnie’ o disgiunti accenni a motivi di ‘disturbi’ donde i ‘disturbati’ del telecomando liquidano il nobile intento ed ingegno… Così i migliori in ‘altro loco’ come sempre debbono cercare asilo e riparo: per ‘alto loco’ intendesi impervie montagne in compagnia di Lupi ed uccelli rapaci non men di cani randagi ugualmente braccati….], perché richiede un notevole dispendio di energia intellettuale. Per lui e per quelli che la pensano come lui, idee nuove e opinioni che mettono in dubbio credenze e intuizioni stabilite sono male accettate, risultando sgradevoli. La ripugnanza per queste idee, a causa di pigrizia mentale, è aumentata da un vero sentimento di terrore [da qui la leggenda del pazzo come l’Eretico] con tutte le calunnie che ne derivano… Giacché molto spesso udire il ‘comune unanime pensiero’ è cosa da far inorridire ogni più elevato Cielo e con questo la Cima per la vera vetta aspirata di cui e donde la vera Vita negata… il perché lo analizzeremo dappresso… 



 

 Siamo tutti stranieri in questo mare navigato ed alla riva come all’inizio dei tempi approdato nella difficile salita verso la luce della vera Vita, giacché come la Storia di cui il cretino liberamente favella nella propria lussuosa stamberga, pur non conoscendone i meccanismi che governano il miele del proprio sragionamento, intende il tacito controllo della libertà d’ogni dilettevole a lor unanime giudizio –  retto pensiero – da qui cosa inteso per retto pensiero e giudizio?

 

Cosa - in verità e per il vero - regola e marca la differenza nella retta parola e libero Eretico Pensiero? –

 

Mi debbo scusare quindi con questi nobili Signori se ogni tanto scrivo in Rima e la ricerca della Verità più evoluta comporta una difficile scelta inquisita ed isolata; ringrazio loro di poter entrare a pieno titolo nell’alveare della Storia, ricordando che forse non troppe ‘perle’ bisogna offrire all’allevamento così come all’alveare eternamente sospeso nei propri illuminati giudizi divenuti grugniti soprattutto quando ogni ‘libero’ bandito [ed il ‘bandito’ godere l’onore di miglior mensa offerta] da chi governa e cura cotal nuova istruzione giacché le statistiche in merito per il fiero apicoltore indicano una massiccia partecipazione al totale insindacabile principio da cui ogni forma di cultura accresciuta e derivata elevando l’estetica della dovuta e pilotata ‘visione’ alla parabola di diversa dottrina, e perseguendo, così come e sempre la Storia, ogni ragionevole Profeta e la strana Visione circa codesta Vita da tutti indistintamente reclamizzata anche con la fiera e durevole calunnia, giacché le api emettono sempre il loro indistinguibile sibilo di cui ogni copioso allevatore va pur fiero… nel nuovo mito così innestato… et anco digitalizzato…. 

(il curatore non ancor curato risponde a tutti i fedeli)




 L’istinto di conservazione si fossilizza in una dottrina conservatrice per la quale le fondamenta della società sono minacciate da qualsiasi alterazione nella sua struttura… 

 

L’eredità illuminista non è fatta soltanto di idee, ma anche di compromessi impuri, perché la filosofia, come tutte le manifestazioni culturali della nostra civiltà, risente di certi interessi, interessi che all’epoca tendevano a fare il gioco della classe media e del suo potere in via di consolidamento, contribuendo a fondare e proteggere le sue aspirazioni e il suo benessere economico.

 

L’esempio di Voltaire (come quello di Reclus) mostra come sia facile far convivere queste opposte esigenze.

 

…La paradossale doppia eredità del XVII secolo – ovvero la contraddizione tra l’agire interessato della classe media e la sua immagine di sé, da sempre fonte di un certo grado di ipocrisia – è giunta fino a noi in una successione ininterrotta. Anche noi parliamo volentieri di diritti umani universali, ma la crescita economica dei nostri paesi dipende in misura ancora maggiore che un tempo dallo sfruttamento di persone e risorse naturali.




Se la contraddizione è rimasta invariata, però, il contesto è oggi completamente diverso. Nel XVII secolo il cambiamento climatico non era ancora percepito come un evento globale, e anche in caso contrario le società europee non avrebbero saputo rispondere in modo più efficace, perché il metodo scientifico non era ancora riconosciuto in tutta Europa, i rapporti di potere erano troppo radicati nella dimensione locale e le influenze politiche tradizionali troppo rigide per lasciare un margine di manovra. Oggi sappiamo che il cambiamento climatico che ci attende è una conseguenza dello sviluppo industriale della nostra specie. Siamo ancora incapaci di prevedere tutte le sue ricadute, ma sappiamo che decisioni rapide e determinate ci consentiranno di renderle meno catastrofiche.

 

Siamo la prima generazione nella storia del genere umano ad avere un’idea piuttosto precisa dell’eredità che toccherà in sorte ai nostri posteri. Certo, gli scenari futuribili messi a punto dagli scienziati sono soltanto dei modelli fondati su semplificazioni e approssimazioni matematiche, ma se non altro, a differenza degli uomini del XVII secolo, oggi siamo consapevoli del modo in cui il nostro comportamento influisce su certi importanti meccanismi. Un vertice sul clima come quello che si è chiuso a Parigi nel 2016, con le sue tiepide risoluzioni destinate a entrare in vigore solo a distanza di cinque anni, e quasi certamente per venire violate, manipolate e crivellate da eccezioni di ogni sorta, non è una risposta convincente alla crisi che stiamo attraversando, ma piuttosto un segno della scarsa forza di volontà con la quale ci apprestiamo ad affrontare trasformazioni radicali, e questo nonostante il margine di gioco per cercare quantomeno di governarle si stia progressivamente riducendo.




 Le nostre risposte, di fatto, non sono molto più efficienti di quelle dei nostri antenati, che pure non capivano la situazione: sono caotiche, improvvisate, imbastite di malavoglia a ridosso di catastrofi sempre più frequenti, immancabilmente viziate dall’obiettivo a breve termine della crescita economica e della conservazione dell’attuale grado di benessere. Perdiamo di vista la necessità di adattarci al nostro ambiente naturale, come tutti gli organismi viventi, specialmente quando alcune tipologie di risorse alimentari iniziano a scarseggiare, e il fatto che il processo di adattamento porta necessariamente con sé trasformazioni supplementari destinate a influire su tutti gli aspetti della nostra esistenza e del nostro pensiero.

 

Ci attendono rivolgimenti importanti, per cui faremmo meglio a sfruttare fin da ora il privilegio evolutivo che ci è stato concesso, cioè la capacità di progettare. Oggi come allora la crisi colpisce innanzitutto i presupposti economici della nostra esistenza materiale. In epoca tardofeudale si trattava della produttività della cerealicoltura, oggi dello sfruttamento delle risorse naturali, condotto al limite estremo, e forse già molto oltre. I costi ecologici e i rischi connaturati alla produzione e alla promozione delle fonti di energia fossili e delle relative materie prime aumentano vertiginosamente, mentre le prime vittime del riscaldamento globale della crosta terrestre sono già costrette ad abbandonare le loro terre d’origine.




 Il rischio di depauperare il pianeta al punto da non poter più sopravvivere (e da trascinare con noi nell’estinzione anche le altre specie viventi) si è fatto oggi concreto. La soluzione che in età moderna ci ha permesso di sopravvivere alla precedente crisi climatica, la crescita economica fondata sullo sfruttamento, si è trasformata in una minaccia per la nostra esistenza. Non è questa la sede per esaminare le alternative all’economia della crescita, cosa che peraltro è già stata fatta da autori ben più competenti, come Amartya Sen o Robert Reich. È tuttavia evidente che un modello economico orientato in modo esclusivo alla crescita, e come tale ancora legato a un’idea del commercio inteso come dispiegamento di una forma di potere, cioè una guerra proseguita con altri mezzi, risulta sempre più improbabile, e per ragioni puramente pragmatiche, non per considerazioni morali, oltre a rischiare di provocare danni sempre più gravemente irreversibili.

 

Sul piano delle relazioni internazionali l’imperativo della crescita porterà a conflitti per il controllo dei mercati (come già accaduto nel XVII secolo e a ridosso della Grande guerra). Una volta soddisfatti i bisogni di base e saziati i bisogni artificiali all’interno di un dato spazio vitale, i mercati ricercano per necessità nuovi territori da sfruttare per poter crescere ancora, scontrandosi in modo inevitabile con altri mercati mossi dalla stessa ambizione. La crisi si allargherà e aggraverà fino a che il prezzo da pagare in termini di esperienza collettiva non risulterà troppo oneroso, costringendoci a rivedere le nostre tattiche. È probabile che molti esseri umani soffriranno nel corso di questi sviluppi, ma anche noi, come i nostri antenati all’epoca della piccola era glaciale, finiremo per dover reinventare le nostre pratiche e le nostre metafore economiche, politiche e culturali.




I primi testimoni del cambiamento climatico ragionavano quasi senza eccezione da un punto di vista religioso. Quel maltempo catastrofico era un castigo divino, la natura era percepita come un universo morale incentrato sui principi cristiani. Rispondere alle grandinate primaverili o alle fasi di siccità con digiuni, preghiere, processioni o roghi di streghe sembrava all’epoca la strategia giusta. 

              

Si potrebbe affermare che la dottrina del libero mercato sia una riproposizione degli ideali illuministi in chiave alleggerita. La sua differenza rispetto ad altre tradizioni liberali, quella che fonda la sua specificità, è legata a un problema annoso: il modo in cui una società è tenuta a concepire e proteggere la libertà.

 

Le opportunità di far valere e vivere la propria libertà sono equamente distribuite?

 

Il mercato è un level playing field, un campo da gioco perfettamente piano nel quale chiunque può avere successo grazie all’intelligenza e al duro lavoro?

 

In questo caso sembrerebbe giusto premiare l’intraprendenza e penalizzare l’inerzia. Oppure il gioco è truccato, cioè alcuni dei contendenti hanno chance incalcolabilmente migliori di altri grazie alla loro origine sociale, al loro grado di istruzione e alle maggiori risorse di cui dispongono?




 In questo caso il diritto universale alla libertà va difeso correggendo la sperequazione delle opportunità.

 

Il sogno del libero mercato concepisce tutti i soggetti coinvolti in processi economici come ugualmente liberi e ugualmente capaci di perseguire i propri interessi materiali, e quindi di prendere decisioni ponderate. Un altro dei presupposti è l’idea che quelle decisioni siano sempre decisioni razionali, finalizzate al proprio personale tornaconto. Come in de Mandeville, sono le api più ingegnose e astute a imporsi, vivendo nel lusso e dando da mangiare a migliaia di compagne con i loro eccessi e le loro abitudini decadenti.

 

L’idea che la libertà dell’essere umano si potesse definire in termini puramente economici è nata in parallelo a quella di una libertà incondizionata di ordine etico. Al crollo delle grandi ideologie messianiche del XX secolo quella concezione economicista della libertà è sembrata la candidata migliore per colmare il vuoto lasciato dall’implosione di più di un grande modello di trascendenza. Il ‘Mercato’ era il sostituto ideale di Dio, dello Spirito e del Progresso. Da un lato, statistiche e dividendi alla mano, è riuscito ad ammantarsi di un’aura di fattualità e neutralità scientifica al di qua di ogni ideologia; dall’altro le sue dinamiche sono sufficientemente opache da rendere possibile una messa in scena spettacolare. I suoi misteriosi capricci vanno decifrati, tanto che un’intera casta di profeti e auguri, più potente di qualunque clero, vive lautamente della loro interpretazione.

 

Tendiamo a parlare dei mercati come di remote divinità, inquiete, apatiche o iperattive a seconda dei casi. Sacrifichiamo esseri umani sull’altare della crescita economica. Nel XVII secolo correva voce che il potere statale fosse stato accaparrato da una congiura di preti e magistrati. Oggi, invece, sono gli economisti a saziare la nostra fame di trascendenza.




 Sia fatta la volontà del mercato!

 

Già nel 1944 Karl Polanyi metteva in guardia dalla tentazione di considerare la società come una mera appendice dell’economia. All’epoca poteva sembrare un’idea eccentrica, ma oggi quello scompenso è diventato la nostra realtà. È sorprendente quanta criptoteologia si nasconda nel modello in apparenza scientifico del libero mercato. Forse è ingiusto coinvolgere Giovanni Calvino in un dibattito scatenatosi a secoli dalla sua morte, e del quale il riformatore religioso non poteva immaginare nulla, ma l’esaltazione della ricchezza e della riuscita economica, il più volgare e il più trasparente tra i sottoprodotti sociali del nostro ipereconomicismo, ha moltissimo in comune con la dottrina calvinista della predestinazione, come abbiamo già osservato.

 

Dio stabilisce a propria discrezione chi merita la grazia e chi no, e la ricchezza è un segno di elezione.

 

La ricchezza è una virtù e la povertà un vizio.

 

Peggio ancora: la povertà è assenza di grazia divina, e come tale è una sciagura senza alcun rimedio. Dio ha volto le spalle alle classi più deboli…




 Argomenti che avrebbero quasi certamente sconvolto Gesù di Nazareth, ma rivelatisi quanto mai influenti nella storia, tanto da determinare ancora oggi l’epoca in cui viviamo. I risvolti religiosi della dottrina del libero mercato emergono anche da altri aspetti, a partire dall’idea che un mercato veramente libero sarebbe in grado di creare libertà e difenderla in virtù di una dinamica puramente intrinseca. Già Marx, negli ultimi anni, aveva capito che senza una forma di regolamentazione i mercati tendono al monopolio. A lungo andare la favoleggiata concorrenza tra infiniti soggetti che si incitano l’un  l’altro a innovare e abbassare i prezzi lascia il posto a una sola scelta, quella tra Microsoft e Apple.

 

Già nel XVIII secolo Adam Smith ammetteva implicitamente la propria incapacità di dimostrare quel dogma quando adduceva l’idea che per ragioni non meglio precisate una ‘mano invisibile’ avrebbe corretto le asimmetrie del mercato. Un corrispettivo economico del deus ex machina che nel teatro barocco spuntava dal nulla per sciogliere arbitrariamente una situazione senza via di scampo.

 

Il mito del libero mercato non risente soltanto della dottrina calvinista della predestinazione e del dogma della provvidenza: anche il presupposto della razionalità di tutti gli attori è tanto indimostrabile quanto intriso di religione.

 

Nel XVII secolo il problema ha visto contrapporsi cartesiani e spinoziani: siamo esseri per definizione razionali oppure veniamo mossi e dominati dalle nostre passioni?




 Il principio dell’autoregolamentazione dei mercati è fondato sul presupposto che gli esseri umani, in ultima analisi, agiscano nel nome di interessi economici razionali. Come se le nostre motivazioni non fossero legate a bisogni sessuali, paure e istinti gregari, ma ciascuno dei nostri comportamenti funzionasse come la scelta di una carriera o un esame comparativo dei prezzi. In base a principi del genere, per esempio, avere figli sarebbe la decisione più stupida. In termini di mercato i figli rendono i genitori più poveri, più vulnerabili e meno liberi di scegliere in modo indipendente e flessibile. Intesi come una condotta economica, i figli sono una catastrofe.

 

Ma allora perché a ogni nuova generazione scegliamo di riprodurci?

 

Perché non siamo creature innanzitutto razionali!

 

Perché molto spesso le grandi decisioni della vita hanno poco o nulla a che vedere con vantaggi monetizzabili.

 

L’idea che l’essere umano sia un soggetto innanzitutto razionale si può vedere come una ripresa di alcuni temi del pensiero illuminista; se intesa come fondamento di una teoria empirica del consorzio umano, però, non può reggere alla prova dei fatti. Le possibili interpretazioni dei concetti liberali fondamentali, cioè la libertà e i diritti umani, coprono uno spettro molto ampio: dall’ ‘emancipazione del proletariato’ in Urss e in Cina al dominio del ‘libero mercato’. Non di rado sono stati investiti di accenti religiosi e sottintesi politici. Gli ideali illuministi hanno perso la loro innocenza. Si sono piegati a compromessi, e molti, forse troppi, sono stati deformati e invocati a sproposito, molte, troppe volte. 




Eppure l’intuizione alla loro base, l’idea che tutti gli esseri umani nascano uguali, è stata l’innovazione di maggiore portata nella storia del pensiero sociale. Prendendo le mosse dall’esperienza concretamente vissuta delle differenze che potevano convivere nelle grandi città commerciali, i pensatori illuministi hanno affermato i diritti degli individui contro quelli della collettività. È a quell’epoca e a quelle idee che dobbiamo, tra le altre cose, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: principi che vengono violati ogni giorno in tutto il mondo, ma che come istanza normativa esercitano su tutti noi un potere universalmente vincolante. È il sogno della democrazia e della giustizia sociale, del femminismo e dell’emancipazione postcoloniale, dei diritti civili e dell’uguaglianza per tutti. Il sogno più grande e bello che l’umanità abbia mai sognato. Un bel sogno, ma anche molto difficile, dal momento che la prospettiva di un’uguaglianza davvero universale esige un possente sforzo di fantasia: gli illuministi radicali sostenevano che l’essere umano è parte della natura, un animale come gli altri, anche se di gran lunga il più interessante (quantomeno dal nostro punto di vista).

 

Nessun Dio governa le nostre vite, che nessun ordine superiore e nessun destino storico abbracciano e ricomprendono. Gli altri animali, salvo eccezioni, conoscono la solidarietà solo all’interno di un branco o come sottoprodotto di una gerarchia sociale. La natura è fatta di cacciatori e prede. Nessun animale al di fuori del branco ha il diritto di non essere cacciato, di crescere in pace i propri piccoli, di vivere al sicuro e di non morire di fame.




 La proposta di Spinoza e Vanini era di estendere la solidarietà di branco all’intera specie umana, riconoscendo a tutti gli uomini il diritto alla libertà che all’epoca si tendeva a riservare soltanto ai membri del proprio gruppo sociale di appartenenza. Quell’idea era e rimane una sfida. Il sogno liberale ambisce a far vivere l’essere umano in un mondo che impone una concezione del tutto nuova di ciò che significa essere uomo, rende le società più dinamiche e trasparenti, crea mobilità e innovazione, ma al tempo stesso sradica le persone, insinuandosi nelle loro vite, che piaccia loro o meno.

 

Il dinamismo sociale porta con sé il cambiamento tecnologico, i flussi migratori, nuove concezioni morali e il tramonto delle verità eterne, sostituite da esperimenti, ipotesi e discussioni senza fine. La libertà del sogno liberale implica la necessità di costruirsi attivamente. È un sogno che ha conquistato intere società, trascinandole via con sé, facendole muovere in continuazione: domani nulla sarà più come ieri.

 

Il sogno liberale si rimette continuamente in discussione, generando senza sosta nuovi scenari, nuove promesse e nuove esigenze. Così facendo produce anche interpretazioni sempre nuove della propria storia, sottraendosi alla prova della verità.




 Le decisioni politiche e le pratiche sociali che fanno capo a quella tradizione nascono da compromessi, fraintendimenti, dibattiti e intese più o meno trasparenti. Sono imperfette per definizione. Lasciano sempre spazio per rettifiche e miglioramenti. Le formazioni di compromesso si trasformano nel tempo. Il problema della verità esula dalla sfera delle loro ambizioni pratiche.

 

Anche nel caso migliore il fatto di vivere in uno stato di flusso permanente, senza la speranza di poter saziare un giorno la nostra sete di verità, mette gli individui a dura prova, sia sul piano intellettuale che su quello personale. Le circostanze, però, tendono quasi sempre a favorire pochi fortunati, e interpretare il concetto illuministico della libertà in senso puramente economicista, nei termini di un’autoregolamentazione del mercato, significa fare del sogno liberale un idolo assetato di sacrifici umani. 

(A. Farrachi; Giuliano; J. Bury; P. Blom)









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