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& il Capitolo quasi completo...
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...Ma per
quanto tristi fossero le condizioni di vita e di lavoro, Nain Singh trovò che i
minatori tibetani erano una comunità allegra, dove si scavava cantando accompagnati
dalle famiglie che si univano ai cori da lontano. Su questo plateau senza
alberi, l’unico combustibile per cucinare e riscaldarsi erano gli escrementi
secchi di yak, pony e pecore. Di notte, essi dormivano nella strana posizione
tibetana: rannicchiati sulle ginocchia e i gomiti, con la testa ripiegata all’indentro,
e ogni capo d’abbigliamento che possedevano ammassato sopra di loro. In questa
terra di freddo perpetuo, tale curiosa abitudine aveva presumibilmente la
funzione di tenere le parti più vulnerabili del corpo lontano dal terreno
congelato.
Nain Singh poté fermarsi solo quattro giorni in quel bizzarro Klondike dell’Asia centrale, poiché il capo della miniera, malgrado le suppliche della moglie con un debole per i coralli, rifiutò di farlo stare più a lungo. Ma in quel breve periodo, il pandit riuscì a raccogliere per Montgomerie un’incredibile quantità di informazioni. Apprese che il prezzo pagato agli scavatori per l’oro era basso - meno di cento rupie indiane l’etto. Era pagato in argento, e il suo principale mercato fuori del Tibet era la Cina. In cambio i cinesi vendevano grandi quantità di tè, del quale in Tibet c’era molta richiesta. Nain Singh scoprì che i tibetani preferivano di gran lunga il tè cinese in mattonelle alla varietà indiana, anche se quest’ultima era considerevolmente più economica, giungendo da meno lontano. I minatori dicevano di trovare il tè indiano troppo riscaldante, non è chiaro in che senso, e lo consideravano adatto solo a chi era molto povero. Era una notizia ben poco incoraggiante per i coltivatori di tè inglesi a Darjeeling, che da tempo nutrivano la speranza di sostituirsi alla Cina quale principale fonte di tè per un popolo che ne beveva anche cinquanta o sessanta tazze al giorno - seppur mischiato con burro di yak.
In realtà c’era un altro ostacolo da superare prima di poter mettere le mani su questo commercio. I potenti monasteri tibetani esercitavano un monopolio virtuale su tutto il tè importato dalla Cina, e né loro né i cinesi avrebbero rinunciato al controllo congiunto di questo mercato altamente lucrativo senza combattere una dura battaglia. Il 31 agosto 1867 Nain Singh partì da quell’accampamento desolato per dirigersi verso ovest e ricongiungersi ai suoi colleghi, come sempre contando attentamente i propri passi. In tutto questo tempo, Mani Singh era stato tenuto ostaggio in attesa del ritorno degli altri due, mentre il nuovo pandit, Kalian, aveva proseguito i rilievi risalendo il corso dell’Indo. Pur sapendo di essere molto vicino alla sua sorgente, era stato costretto a interrompere i rilievi per via dei banditi. Il problema era sorto quando due briganti armati avevano attaccato il suo servitore. Udendone le grida, Kalian si era precipitato a soccorrerlo. Avendo un fisico imponente, aveva afferrato per il codino uno degli aggressori, per poi farlo roteare all’intorno. I due briganti avevano subito iniziato a fingere che si trattasse di uno scherzo, prima di darsela a gambe. Kalian, pur così vicino al suo obiettivo, temette che in quella regione infesta dai banditi i due potessero ricomparire con dei rinforzi, e decise di tornare al luogo dove avrebbe dovuto incontrare gli altri.
La missione segreta era ormai quasi giunta al termine e dopo che Mani Singh si ricongiunse ai suoi colleghi i tre pandit e i loro servitori si diressero verso casa Tuttavia ognuno seguì una via diversa, poiché Montgomerie aveva chiesto loro di coprire la maggior quantità possibile di terreno quando ancora erano entro le frontiere proibite del Tibet. Nain Singh ritornò passando per la città di Gartok, che nel viaggio di andata avevano deliberatamente evitato. Qui fece una scoperta allarmante, che lo indusse a lasciare la città in gran fretta: qualcuno stava spargendo la voce che era una spia britannica. Alla fine, comunque, tutti e tre si riunirono, e percorsero insieme l’ultimo tratto attraverso l’Himalaya fino all’India e alla salvezza.
I risultati ottenuti dai tre, quando furono valutati a Dehra Dun, si rivelarono di considerevole importanza. Al di là della messe di informazioni che Nain Singh aveva riportato sui bacini auriferi di Thok Jalung e l’industria dell’oro tibetana in generale, avevano realizzato i rilievi del tracciato per un totale di milletrecento chilometri. Ciò consenti a Montgomerie e ai suoi cartografi di colmare molti vuoti in un’area di oltre quarantacinquemila chilometri quadrati, nonché di unire la mappa di questa regione poco nota del Tibet a quella del Kashmir. Avevano preso centonovanta misurazioni della latitudine m settantacinque diversi punti e calcolato un'ottantina di altitudini. Avendola trovata avvolta dalle nuvole non erano stati in grado di misurare l’altitudine del Kailas, montagna sacra per tutti i buddhisti.
Ma Montgomerie e il colonnello Walker erano molto soddisfatti dei tre pandit, anche se Mani Singh ancora una volta non era riuscito a conseguire i brillanti risultati del suo più giovane cugino. Tale era stato il successo di queste esplorazioni clandestine, che con l’aiuto e il consiglio di Nain Singh Montgomerie reclutò e addestrò altri pandit, tutti uomini delle tribù delle colline capaci di leggere e scrivere, con un’intelligenza fuori del comune, e spesso parenti tra loro. Ma poi Walker e Montgomerie fecero una cosa sbalorditiva. Sebbene, come abbiamo visto, la segretezza più assoluta fosse ovviamente essenziale al successo di queste infiltrazioni illecite e politicamente delicate, nel gennaio 1868 Walker inviò alla Royal Geographical Society, affinché lo pubblicassero nella loro rivista, un resoconto dettagliato della prima grande spedizione di Nain Singh.
Che dire?
Altri viaggi
segreti, fra cui la visita di Nam Singh ai bacini auriferi di Thok Jalung, sarebbero
stati ben presto pubblicizzati allo stesso modo. Per quanto sia impossibile
conoscere i ragionamenti di Montgomerie, si possono avanzare alcune argomentazioni
per giustificare questa politica apparentemente così avventata. La prima è che
i nomi e le identità dei pandit non furono mai rivelati, solo i loro nomi in
codice (e a volte ne avevano più di uno). In secondo luogo, centinaia se non
migliaia di pellegrini e mercanti andavano e venivano attraverso i passi dell’Himalaya
ogni mese, rendendo poco probabile l’individuazione di un singolo pandit.
Inoltre il Journal of the Royal
Geographical Society non veniva venduto al pubblico, ma distribuito esclusivamente
ai soci. È pur vero che questi ultimi erano sparsi in tutto il mondo. Soldati, esploratori e geografi russi
leggevano avidamente il Journal - almeno un viaggiatore zarista nel Tibet
sarebbe stato premiato con la medaglia d’oro della società -, così come i loro confrères britannici seguivano la
letteratura specialistica russa.
Malgrado la loro rivalità in Asia centrale, del resto, non era interesse degli zaristi allertare i tibetani o i cinesi su quello che stavano facendo gli inglesi. Anche San Pietroburgo, infatti, stava cercando di penetrare questa terra chiusa al mondo e scoprirne i segreti. Per i russi, il Journal era una fonte preziosissima di informazioni sul Tibet e sull’Asia in generale. Fintante che continuava a pubblicare i particolari di questi viaggi clandestini insieme alle mappe ricavate dagli sforzi dei pandit, San Pietroburgo era ben contenta. I cinesi, al contrario, avrebbero avuto ogni buona ragione per cercare di impedire agli agenti di Montgomerie di portare avanti un lavoro di spionaggio in un paese che essi consideravano parte del loro impero. Ma a quanto pare non ne seppero mai nulla. Pur avendo una legazione a Londra, si direbbe che non leggessero il Journal, o addirittura ne ignorassero l’esistenza. Tuttavia sarebbe bastato che un ficcanaso attirasse la loro attenzione su quelle attività…
(Montgomerie)
(& il Capitolo quasi completo...)
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