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Prosegue con:
Ma tre o
quattro mesi fa era successo qualcosa di inaspettato. Un uomo che possedeva uno
o due acri di terreno in cima alla collina aveva fatto salire a fatica un paio
di autocarri su per il pendio, carichi di grosse travi squadrate di pino dell’Oregon;
i carpentieri avevano cominciato a lavorarci sopra, e il vicinato li aveva
fissati, chiedendosi che strano tipo di casa potesse essere. Improvvisamente la
notizia si era diffusa, in un’esplosione di eccitazione: una torre petrolifera!
La
trivellazione iniziò e continuò, monotona e tranquilla. I giornali locali
riportarono i risultati: il DH Culver Prospect No. 1 era a 1478 piedi, in una
dura formazione di arenaria e senza segni di petrolio. Era lo stesso a 2.000 ea
3.000; e poi per settimane l’impianto ha ‘pesca’ un trapano rotto e tutti hanno
perso interesse; non era altro che un ‘buco secco’ e le persone che avevano
rifiutato il doppio dei prezzi per i loro lotti iniziarono a maledirsi. ‘Wild-gatting’
non era altro che il gioco d’azzardo in ogni caso, molto diverso dagli
investimenti prudenti in lotti urbani. Poi i giornali riferirono che DH Culver
Prospect n. 1 stava perforando di nuovo; era a 3059 piedi, ma i proprietari non
avevano ancora perso la speranza di scoprire qualcosa.
Poi è successa una cosa strana. Arrivarono camion carichi di roba, accuratamente ricoperti di tela. Tutti coloro che avevano a che fare con l’impresa erano stati avvertiti o corrotti affinché tacessero; ma ragazzini sbirciavano sotto il telo mentre i camion risalivano faticosamente la collina con motori rombanti, e riferivano di grosse lastre di metallo ricurve, con buchi lungo i bordi per i bulloni. Potrebbe essere solo una cosa, carri armati. E allo stesso tempo arrivarono voci secondo cui DH Culver aveva acquistato un altro tratto di terreno sulla collina. Il significato di tutto questo era ovvio: il Prospect No. 1 era finito nelle sabbie bituminose!
Roma, 10 giugno 1924. Alle 16,30 il deputato socialista Giacomo Matteotti lasciò la sua abitazione di via Pisanelli 40. La moglie Velia lo seguì dal pianerottolo fino alle scale e poi, dalla finestra, finché poté accompagnarlo con lo sguardo. Egli aveva già preso parte in mattinata ai lavori della Camera e ora intendeva tornare a Montecitorio per fermarsi nella biblioteca della giunta del Bilancio, leggere e prendere appunti, in vista di un infuocato discorso contro il governo che avrebbe voluto pronunciare in Parlamento.
In abito chiaro, scarpe bianche di camoscio e cravatta in tinta, con una busta sotto il braccio intestata ‘Camera dei deputati’ che portava sempre con sé, Matteotti attraversò la brevissima via Mancini e iniziò a percorrere il lungotevere Arnaldo da Brescia, diretto verso la fermata del tram numero 15 in Piazza del Popolo. Il clima pomeridiano di tarda primavera invogliava a riversarsi in riva al fiume. I ragazzi, dopo un bagno rinfrescante, trascorrevano qualche ora distesi al sole sui gradoni in pietra.
Due bambini
che giocavano accanto al parapetto del lungotevere videro arrivare Matteotti.
Lo riconobbero, perché era solito passare di lì; talvolta in tenuta sportiva
saliva su una canoa e remava per ore su e giù. Quel giorno, però, un fatto
inconsueto attirò la loro attenzione.
Matteotti procedeva a passo svelto. Era assorto nelle sue riflessioni e non badava molto alle persone che in quel momento lo circondavano. All’improvviso due uomini interruppero il corso dei suoi pensieri. Lo bloccarono e lo afferrarono bruscamente, cercando di trascinarlo a forza verso la strada. Ad attenderli, accostata al marciapiede, un’elegante auto scura, una Lancia Lambda a sei posti, modello limousine chiusa.
Resosi
conto di quanto stava avvenendo, il deputato socialista, non molto robusto ma
con un fisico scattante, iniziò subito a dibattersi e a contorcersi in tutti i
modi, pur di riuscire a liberarsi dalla presa dei due sgherri e a sottrarsi
alle loro intenzioni. Gli assalitori non si aspettavano questa vigorosa
reazione, e infatti egli riuscì per un attimo a divincolarsi buttandone uno a
terra.
In quell’istante la salvezza sembrava ancora alla portata. Sennonché, mentre Matteotti cercava di sfuggire definitivamente alla morsa degli aggressori, si diresse di gran carriera verso di lui un terzo uomo, vestito di grigio, elegante, alto e robusto, che lo colpì violentemente al volto e lo gettò sull’asfalto. Il giovane deputato, tramortito, poteva ora essere sollevato di peso e trasportato sull’automobile.
Egli però non
si arrese.
Ripresosi
in pochi secondi, tornò a opporre ogni resistenza di cui era capace,
dibattendosi e gridando aiuto, mentre gli uomini della banda gli assestavano
tremendi colpi al torace e al basso ventre.
Matteotti, con gli abiti strappati, il viso tumefatto, e tuttavia combattivo, fu caricato sul veicolo. Nella concitazione la Lancia partì di scatto e percorse a zig-zag le prime centinaia di metri, con uno degli sgherri ancora fuori sul predellino, aggrappato alla maniglia della portiera. Il deputato socialista continuava intanto ad agitarsi e a urlare. Fece in tempo a spedire un ultimo appello: gettò per strada la sua tessera ferroviaria, poi raccolta da due contadini che transitavano sul lungotevere con un carretto.
A bordo
proseguì nella sua lotta disperata e, dimenandosi, riuscì a frantumare con un
calcio il vetro che divideva l’abitacolo posteriore da quello del conducente.
Mentre la Lancia superava il ponte Milvio e imboccava la via Flaminia,
Matteotti e i suoi rapitori, sudati e stremati già dalla lunga attesa in
macchina prima dell’agguato con le tendine abbassate e i finestrini chiusi, non
mettevano fine a una battaglia furibonda.
Per coprire le grida l’autista fu costretto a procedere con il clacson bloccato fino all’uscita dalla città. Di fronte all’irriducibile resistenza del deputato socialista gli aguzzini non esitarono a prendere una decisione estrema: meglio finirlo all’interno della vettura anziché attendere di raggiungere l’aperta campagna.
Fu
questione di un attimo: un pugnale attraversò il torace di Matteotti. La ferita
penetrante gli causò la perforazione di un polmone, con conseguenti rigurgiti
dalla bocca. Il sangue imbrattò gli indumenti, la tappezzeria e il sedile del
veicolo.
Matteotti era morto.
A questo punto i sicari poterono procedere, con il cadavere a bordo, alla ricerca di un luogo adatto per occultarlo. Uscirono dalla città in direzione nord-est, verso Civita Castellana. Dopo alcune ore, quando ormai era buio, a 23 chilometri da Roma, nella macchia della Quartarella vicino al villaggio di Riano Flaminio, trovarono un terreno molle e scavarono in fretta e furia una fossa, facendosi luce con alcuni cerini: non avevano attrezzi adeguati per solcare il terreno, perciò adoperarono una lima che avevano trovato nell’auto.
Essendo stanchi e volendo seppellire la vittima il più in fretta possibile, non rimasero lì per più di mezz’ora. L’esito dei loro sforzi fu una buca di forma ovoidale, non molto grande e poco profonda. Vi gettarono il corpo straziato di Matteotti dopo averlo denudato per rendere più difficile l’identificazione. Dovettero però rannicchiarlo con manovre assai violente in modo da riuscire a farlo entrare nella fossa. Al termine di queste macabre operazioni, poterono finalmente risalire sulla Lancia, alla volta della città.
I
passeggeri dell’auto erano ora solo quattro: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo; alla
guida Augusto Malacria.
Tutti ricollegabili all’esperienza dell’ ‘arditismo’ milanese, nato da ex componenti dei reparti d’assalto dell’esercito italiano che nel ’19 avevano partecipato alla fondazione dell’Associazione nazionale degli arditi d’Italia e avevano poi aderito in gran numero al fascismo, adorandone il leader carismatico, Benito Mussolini. Più in generale, i cinque uomini della banda erano, per molti versi, degni rappresentanti del sottobosco fascista, ‘pesci piccoli’ disposti a qualunque cosa per sbarcare il lunario, gregari ottusi e devoti, operanti per cieco fanatismo e per piccoli arricchimenti personali, servili quanto basta a tutelare il proprio tornaconto e ottenere la gratitudine dei potenti.
Erano
dunque pronti a eseguire anche ‘lavori sporchi’ pur di soddisfare il capo, a
maggior ragione da quando, nel ’22,
questi era giunto alla guida del governo italiano. Mussolini, peraltro, li
conosceva bene tutti: era loro legato da una complicità che risaliva al 1918, quando aveva cercato amici e
appoggi in giro per Milano.
Dumini, l’organizzatore dell’attentato, aveva preso parte a molte azioni in Toscana, facendo della violenza il suo biglietto da visita. Circolava voce che amasse provocare il sobbalzo dell’interlocutore presentandosi come ‘Dumini, undici omicidi’, in realtà, al di là di quanto millantava, era più che altro uno spaccone sempre in prima fila quando si trattava di intervenire in pestaggi o bastonature. Tentando in ogni modo di infilarsi in solide reti di conoscenze e di mutua assistenza, era anche entrato a fare parte della massoneria. Coltivava inoltre da tempo il desiderio di diventare giornalista; un primo passo in questa direzione gli era sembrata l’assunzione come dipendente presso un importante quotidiano, il ‘Corriere italiano’.
Ciò che più
contava per lui, comunque, erano le amicizie di alcuni uomini potenti: quella
di Cesare Rossi, capo dell’Ufficio stampa di Mussolini, e quella di Giovanni
Marinelli, segretario amministrativo del Partito fascista. Dumini era pertanto
frequentatore dei palazzi governativi, dove incrociava anche il presidente del
Consiglio e i suoi più stretti collaboratori. Gli venivano affidate operazioni
poco pulite per alimentare le casse del partito, quelle del quotidiano della
famiglia Mussolini, ‘Il Popolo d’Italia’, così come pure i conti correnti
personali dei dirigenti fascisti.
Godeva di un’assoluta impunità, contraccambiandola con un’ostentata e totale abnegazione al capo del fascismo. Nel ’23, ad esempio, si era recato in Jugoslavia per negoziare segretamente con il governo di Belgrado la vendita di una partita di armi che aveva ottenuto dal ministero della Guerra italiano grazie alla copertura finanziaria garantitagli da un istituto di credito. Un personaggio come Dumini non avrebbe mai potuto accedere a quel materiale bellico, né alle risorse finanziarie necessarie per l’operazione, se non vi fossero state personalità più importanti a garantire per lui.
Al suo
ritorno in Italia era stato arrestato dalla polizia ma aveva ottenuto
immediatamente il rilascio grazie a interventi di altissimo livello. L’entourage
del primo ministro si era impegnato altresì nel tentativo di soffocare lo
scandalo: Mussolini, fratello del presidente del Consiglio e direttore del ‘Popolo
d’Italia’, aveva pubblicato un articolo benevolo, che presentava la vicenda del
contrabbando di armi come un ‘equivoco’ e descriveva Dumini quale ‘valoroso ex
combattente di vecchio e provato patriottismo’.
Consumato il delitto, gli uomini della banda fecero ritorno a Roma in tarda serata, mentre la spensierata vita notturna della capitale affollava le strade e i caffè del centro. Erano stremati, l’auto era mal ridotta, impolverata a causa delle strade percorse, cosparsa di frammenti di vetro, sporca di sangue. Dumini la parcheggiò dapprima spavaldamente nel cortile del Viminale, sede del ministero dell’Interno. Poi tornò a riprenderla. Sotto la Galleria Colonna, luogo come ogni notte di chiacchiere e confidenze per molti romani, Albino Volpi incontrò Arturo Benedetto Fasciolo, stenografo e segretario particolare di Mussolini, e gli raccontò quanto era avvenuto.
Secondo una
delle versioni dei fatti, i membri della banda andarono pure a casa di
Fasciolo: la prima cosa da fare era lavarsi le mani, togliersi di dosso i segni
del crimine e consegnare la busta con i documenti di Matteotti. Grazie
all’aiuto di Filippelli e di altri complici, Dumini si liberò poi dell’auto
nascondendola in un garage. E a quel punto – erano passate le tre del mattino –
si fece portare da un taxi al suo appartamento di via Cavour 44. Il lavoro era
compiuto e finalmente poteva andare a riposare.
Quella
notte Velia Matteotti la passò alla finestra in attesa del marito.
Giacomo Matteotti stava lavorando ad un Libro di 91 pagine, su due fitte colonne, pubblicato e distribuito quasi clandestinamente ai primi del 1924. Quando fu assassinato, stava lavorando a una ristampa corretta e aggiornata dell’opera, che non vide mai la luce.
Questi sono
taluni suoi appunti:
LA
LIBERTA’ DI STAMPA (e
di libero arbitrio)
1922, 6 Dicembre
Così non si
può andare avanti. Gli ambienti fascisti più vicini al Governo sono decisi di
porre una disciplina anche ai giornali (sia pubblici che privati… e ON LINE),
davanti allo spettacolo offerto quotidianamente da certa stampa, nessuno si
meraviglia se il Governo fascista imporrà la censura e adotterà misure ancora
più severe.
POPOLO
D’ITALIA, giornale di Mussolini
7 Dicembre
Avvertimento
da meditare: Se accade che i fogli socialisti, ed in particolar modo la
cosiddetta unitaria “Giustizia”, si sono abbandonati alle più gesuitiche
campagne contro il Governo…
È tempo di
chiedere a questi signori che la smettano.
La
rivoluzione fascista è stata generosa…
Ma guai se i
capi del socialismo e del comunismo ne abuseranno. La rivoluzione fascista non
ha proceduto ad esecuzioni sommarie – e lo poteva fare benissimo. – Ma,
attenzione ai mali passi, vecchie canaglie del socialismo italiano.
POPOLO
D’ITALIA, giornale di Mussolini
13 Dicembre
Il
Direttorio del Fascio milanese di combattimento… diffida la Direzione del
giornale “La Giustizia” dal più oltre propalare notizie destituite di ogni
fondamento di verità, tendenziose o comunque tali da eccitare l’odio di classe,
ammonendola che ove dovesse perseverare in tale scorretto sistema giornalistico
il Fascio milanese di combattimento determinerà pei provvedimenti che riterrà
del caso per ridurla all’osservanza delle norme di correttezza e di onestà
giornalistica.
POPOLO D’ITALIA, giornale di Mussolini
1923, 5 Gennaio
La Questura
invia ai giornali una circolare per intimare, d’ordine del Governo, di non
pubblicare nessuna notizia sulla ribellione della Guardia Regia a Napoli, a
Torino, a Roma e altrove, che non sia quella distribuita dal Governo stesso –
pena le sanzioni che il Governo applicherà… in virtù dei pieni poteri (!?).
6 Marzo
Il
“Corriere è inquieto”: “Per le zucche che si rialzano ci sono cinquecentomila
manganelli sempre pronti. E c’è della gente dal fegato sano. E c’è una milizia
fascista. E ci saranno, occorrendo, della buona mitraglia e delle bombe a mano.
Dorma dunque i suoi sonni tranquilli il “Corriere”… E lasci fare allo stato
fascista!”.
6 Aprile
Non si può
continuare ad abusare impunemente dell’enorme e forse già eccessiva longanimità
dei capi del fascismo. Guai se questi capi saranno costretti, davanti al
vituperio immondo, a rilanciare lo storico e terribile grido di “A noi!”… Ci
pensi chi deve. È ormai tempo!
POPOLO
D’ITALIA
8 Aprile
Sempre “La
Giustizia”! Questo giornale, che sta diventando un libello, abusa della
pazienza del fascismo. Sembra che già si approssimi il giorno in cui desterà
una tale reazione tra i fascisti, che non saranno gli svenimenti, i piagnistei,
gli appelli disperati della paura a salvarla da una fine immatura.
POPOLO
D’ITALIA, giornale di Mussolini
8 Aprile
Ora sarà
bene avvertire cotesti giornali e chi li dirige che se essi hanno il diritto di
usare della libertà mantenuta dal dittatore Mussolini e dal suo tiranno
governo, hanno anche il dovere imprescindibile di non abusare. Altrimenti non è
proprio da escludersi che l’esempio di Lenin possa essere seguito in Italia nei
riguardi di certe canaglie.
POPOLO
D’ITALIA, giornale di Mussolini
9 Maggio
Quando la fatica
è improba e si cammina sotto un carico enorme di responsabilità, non si
sopporta il lazzo dei lazzaroni, il dileggio dei vagabondi, e colpiremo anche
se la libertà di stampa, la semivergine, leva alte le grida.
POPOLO
D’ITALIA, giornale di Mussolini
24 Giugno
La miglior
risposta sarebbe il sacrosanto manganello che ha tante volte punito dei
capilega, colpevoli più che altro di… ubriachezza e di ignoranza e che non
provocavano, in ogni caso, un danno nazionale. Questi scribi invece danneggiano
la nazione in faccia all’estero e non v’è purtroppo mezzo di farli tacere a
meno si attui una buona volta quella necessaria limitazione della libertà di
stampa.
Quanto al
manganello fascista non è proprio detto che non debba e non possa essere
richiamato in servizio da un momento all’altro.
(A
proposito di un articolo stampato sul «Secolo» dal prof. G. Ferrero.)
POPOLO
D’ITALIA, giornale di Mussolini
8 Luglio
Senatore
Albertini, (cioè, “Corriere della Sera”), a noi! Senatore Albertini, vi
sopportiamo già da molto tempo, da troppo tempo, e vi diciamo apertamente che
basta!… Senatore Albertini, ci sono tanti fascisti, tanti! tanti! tanti!… Noti,
notissimi ed ignoti in molte città d’Italia che solo domandano, per iscritto –
assumendo in pieno l’onore e la dignità del gesto – di essere presenti a radere
al suolo la vostra indegna “baracca”. Se questo non è avvenuto ancora voi
potete bene immaginare chi potete ringraziare, senatore Albertini! Ma
piantatela, ve ne prego. E ve ne prego non già per amore di voi e per amore del
vostro giornale.
POPOLO
D’ITALIA, giornale di Mussolini
8 Luglio
L’obliquo
senatore liberale, responsabile morale degli assassinii dei fascisti compiuti
in questi giorni dalla canaglia rossa di cui ormai è palese e cinico alleato,
tenta di scamotare e di ciurlare nel manico. Non glielo permetteremo. È tempo
di ricacciargli in gola il grido di “Viva la libertà” perché questo mestatore
ha tutta la libertà di sputare sul Governo, ha perfino la libertà di trovare
ridicolo il gesto del Governo che si inginocchiava il 4 novembre… Il senatore
Albertini accetta dunque in pieno la sua complicità coi comunisti?… Quando
risulta, come risulta documentato e documentabile, che i leninisti di Mosca
riportano gli articoli del “Corriere” e contano sulla campagna antifascista del
senatore liberale Albertini, il marchio rosso che lo bolla a sangue è
definitivo ed incancellabile. Lo ricordino i fascisti!
POPOLO D’ITALIA, giornale di Mussolini
11 Luglio
L’on.
Mussolini dichiara che fin dal novembre scorso aveva preparato provvedimenti
contro gli abusi della stampa ma che ne ha sempre dilazionata la presentazione
sperando nel ravvedimento. Scomparso il pericolo dell’azione diretta illegale
del fascismo, gli oppositori hanno rialzata la testa e intensificano l’opera
sobillatrice… Il Governo fascista ha l’obbligo di intervenire, o per prevenire
o per rapidamente colpire… Il Consiglio all’unanimità deferisce a tre ministri
l’incarico di presentare uno schema di provvedimento.
12 Luglio
Il
Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto per la stampa, secondo il quale:
‘Il prefetto della provincia ha facoltà
di diffidare e successivamente di sospendere il giornale che con notizie false
o tendenziose rechi intralcio all’azione diplomatica del governo, o danneggi il
credito nazionale all’interno o all’estero, e desti un ingiustificato allarme
nella popolazione, ovvero in qualsiasi modo turbi l’ordine pubblico… se ecciti
all’odio o alla disobbedienza delle leggi o turbi la disciplina degli addetti
ad un pubblico servizio’.
CONSIGLIO DEI MINISTRI, comunicato ufficiale
16 Luglio
“Ci risulta che S. M. il Re ha firmato
il decreto per un nuovo regolamento sulla stampa. Il decreto è adunque nelle
mani del presidente del Consiglio, il quale si riserva di dargli corso al
momento opportuno”.
30 Aprile – Aquila
I fascisti
invadono la tipografia e sequestrano 500 copie del Giornale socialista ‘L’Avvenire’,
il cui redattore è percosso gravemente; è bastonato anche il socialista Oscar
Del Re.
(G. Matteotti)
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