Precedente capitolo:
Cosa è la ragione?
Prosegue in:
Cosa è la ragione? (3)
....Ambientale del consumo. Di fatto, parte di essa è del tutto antitetica
alla sostenibilità. Ma il suo spirito è preziosissimo per un’accurata
comprensione delle motivazioni dei consumatori.
Innanzitutto, è subito chiaro che il consumo va ben oltre la mera
soddisfazione di bisogni fisici o fisiologici del nutrirsi, di un tetto e
così via. I beni materiali sono profondamente legati alle vite sociali e
psicologiche di un individuo. Gli individui creano e mantengono identità
utilizzando cose materiali.
L’‘identità’, sostengono i ricercatori di marketing è la Roma a cui
tutte le teorie del consumo portano. Gli individui raccontano la storia
della loro vita attraverso la ‘roba’. Cementano relazioni con altri individui
con beni di consumo. Utilizzano pratiche di consumo per suggellare la loro
fedeltà a certi gruppi sociali e per distinguersi dagli
altri. Inizialmente, potrebbe sembrare strano scoprire che cose
semplici possano avere un tale potere sulle vite sociali ed emotive, eppure
tale capacità degli esseri umani di impregnare di significati simbolici cose
nude e crude è stata identificata dagli antropologi in ogni società documentata
che si conosca.
La gente va matta per le ‘cose’, e non solo a livello materiale.
Il ruolo di semplici oggetti è avvalorato da migliaia di esempi molto
familiari: un vestito da sposa, il primo orsacchiotto di un bambino, un cottage
ricoperto di rose vicino al mare. Il ‘potere evocativo’ delle cose materiali
innesca una gamma di complesse e radicatissime ‘narrazioni sociali’ circa lo
status, identità, coesione sociale e la ricerca di un senso personale e
culturale. In momenti difficili, i possedimenti materiali portano speranza e
offrono prospettive di un mondo migliore in futuro. In una società secolare, il
consumismo diventa una sorta di sostituto alla consolazione
religiosa. Da recenti esperimenti psicologici è emerso che quando si
diventa più coscienti della propria mortalità, si fa di tutto per
migliorare la propria autostima e proteggere la propria visione culturale del
mondo.
In una società dei consumi, tale contesa ha conseguenze
materialistiche. E’ come se gli individui tentassero di placare la propria
ansia esistenziale attraverso gli acquisti. Secondo il punto di vista
convenzionale, la ricetta del progresso è semplice: più si consuma, più si
diventa felici.
Un esame approfondito di ciò che motiva i consumatori rivela una vasta
gamma di fattori, famiglia, amicizia, salute, approvazione dei pari, comunità,
scopo, noti per avere una forte correlazione con la felicità di cui si dichiara
di godere. In altre parole, gli individui credono veramente che, attraverso i
consumi, si ottengono amici, comunità, senso del proprio scopo e così via.
Ma ci troviamo di fronte a un paradosso per certi aspetti tragico.
Le persone conoscono bene le cose che le rendono felici, ma hanno una
scarsa comprensione di come fare a ottenerle. La tesi secondo cui sempre più
consumi portano a un livello più elevato di benessere si rivela
errata. Avvalendosi di dati raccolti si è verificata l’ipotesi che il livello
di soddisfazione di vita sia legato all’aumento del reddito. Di positivo c’è
che l’equazione quasi funziona: si assiste infatti a un trend crescente di
soddisfazione per la propria vita ai livelli più bassi del reddito. Di
negativo c’è che il rapporto continuerà a diminuire all’aumentare del
reddito. In gran parte dei paesi industrializzati, nella migliore delle
ipotesi, vi è solo una blanda correlazione tra del reddito e felicità
dichiarata e in paesi con redditi medi oltre i 15.000 dollari, la correlazione
tra aumento del reddito e un livello di soddisfazione di vita più elevato è
praticamente nulla.
Nel corso del tempo, si può raccontare lo stesso paradosso all’interno
di singole nazioni. Negli Stati Uniti, dal 1950 il reddito reale pro capite è
triplicato, ma la percentuale di individui che dichiara di essere molto
soddisfatta non è affatto cresciuta, anzi, dagli anni 70 ha registrato un
calo. In Giappone per molti decenni la soddisfazione di vita non ha
registrato grossi cambiamenti. Nel Regno Unito, la percentuale di individui che
si dichiara molto soddisfatta è passata dal 52 del 1957 al 36% di
oggi. Nei paesi occidentali alcuni aspetti fondamentali del benessere
individuale, invece di migliorare sembrano aver subito un
declino. Nell’America del Nord, i tassi di depressione raddoppiano ogni
decennio. Il 15% degli americani di 35 anni ha già sofferto di una forte
depressione. Quarant’anni fa’, si parlava solo del 2%. Negli Stati Uniti, a un
certo momento della vita, un terzo della popolazione soffre di malattie mentali
gravi, e circa la metà di queste persone sarà colpita da una grave depressione
inabilitante. Nel corso di un qualsiasi anno, circa il 6% della popolazione
soffrirà di depressione clinica e attualmente in America del Nord, il
suicidio è la terza causa di morte più comune tra i giovani adulti. Risalire
alle cause di questa infelicità non è particolarmente facile, ma vi sono due
serie di dati piuttosto convincenti che vedono come il consumismo stesso
ne sia in parte responsabile. La prima serie rivela una correlazione negativa
tra i comportamenti materialistici e il benessere soggettivo.
Il filosofo Alain de Botton ha mostrato come una società iniqua porti
ad alti livelli di ‘ansia da status’ tra i cittadini. Lo psicologo Tim
Kasser e colleghi hanno mostrato come chi mostra comportamenti più
materialistici, definendo e misurando il proprio valore attraverso il denaro e
i possedimenti materiali, dichiara livelli inferiori di felicità. Rincorre
l’autostima attraverso la ricchezza materiale sembra un tipo di ‘gioco a somma
zero’ in cui il bisogno costante di migliorarsi e di approvazione serve solo a
far sì che ci si fossilizzi in una nevrotica spirale di consumi. Un
secondo nucleo di prove altrettanto convincenti collega la crescente infelicità
all’indebolimento di certe istituzioni fondamentali. Il benessere soggettivo
dipende in maniera determinante da stabilità familiare, amicizia e forza
della comunità. Ma, nella società dei consumi questi aspetti sono stati messi
in secondo piano.
Nel Regno Unito, ad esempio, dal 1950 la disgregazione familiare è
aumentata di circa il 400%. Negli ultimi 20 anni dell’ultima parte del
secolo scorso, la percentuale di americani che definiva i propri matrimoni come
‘molto felici’ è calata drasticamente e negli ultimi 50 anni, la fiducia e il
senso di comunità tra la gente sono calati enormemente. Alla metà del ventesimo
secolo, oltre il 50% di tutti gli americani credeva che le persone fossero
‘morali e oneste’. Nel 2000, la proporzione era calata a circa poco più di un
quarto e, nello stesso periodo, anche la partecipazione alle attività
comunitarie e sociali diminuì nettamente. In altre parole, sembra esserci una
correlazione tra la crescita dei consumi e l’erosione delle cose che rendono
felici le persone, in particolare le relazioni sociali.
E’ evidente che tale correlazione non significa necessariamente che ci
sia un rapporto casuale tra i due termini. Di fatto, come si scriverà più
avanti, ci sono però ragioni più che solide per considerare seriamente l’idea
che le strutture e istituzioni necessarie a mantenere la crescita erodano le
relazioni sociali o, come sostiene l’economista Richard Layard, che la crescita
dei consumi abbia portato un certo aumento della felicità, anche in paesi
ricchi, ma tale felicità aggiunta è stata annullata da una maggiore tristezza
derivante da relazioni sociali meno armoniose. Un tragico risultato di questa
inafferrabile corsa alla felicità è che, sia ora sia per il futuro, le società
industriali stanno escludendo le possibilità che altre persone possano condurre
una vita soddisfacente, e non sono nemmeno in grado di offrir loro ricompense
nell’immediato.
Il paradosso del benessere rende la domanda inevitabile: perché si
continua a consumare?
Perché non si guadagna meno, si spende meno in modo tale da avere più
tempo per la famiglia e gli amici? In questo modo, non si potrebbe vivere
meglio, e più equamente, riducendo l'impatto dell'umanità sull'ambiente?
Questa idea ha dato la motivazione a numerose iniziative che mirano a
uno stile di vita più semplice. ‘La semplicità volontaria’ è per certi
aspetti una vera filosofia di vita. Si ispira in gran parte agli insegnamenti
del Mahatma Gandhi, che incoraggiava le persone a ‘vivere semplicemente,
cosicché gli altri possano semplicemente vivere’. Nel 1936, uno dei discepoli
di Ghandi descrisse la semplicità volontaria come ‘l’evitare l’accozzaglia
esteriore’ e la ‘intenzionale organizzazione della vita per uno scopo’. (- WorldWatch Institute -)
Per cui la ‘ragione’ in questo tempo in-voluto impone un’unione di
intenti quando vediamo i principi regolatori della vita perdere le sue funzioni
vitali (quale corpo malato) affinché essa possa manifestare in ogni luogo e
tempo dove si è evoluta casualmente e non, le condizioni ottimali che l’hanno
resa tale affinché possiamo.....
Nessun commento:
Posta un commento