Precedente capitolo:
Camminare...
Prosegue in:
'Passaggi' nell'età del progresso...(3)
La mia prima impressione della zona orientale della mia città era
naturalmente piuttosto generica. In seguito ho cominciato a mettere a fuoco i
dettagli, e qui e là nel caos della miseria (nella ricchezza apparente…) ho
trovato piccole isole in cui regnava una relativa felicità: a volte intere file
di case in qualche piccola stradina una forma rudimentale di vita familiare.
La sera si possono vedere gli uomini sulla porta, con la pipa in bocca
ed i bambini sulle ginocchia, le mogli che spettegolano, e ci sono risate e
divertimento. Sono persone visibilmente soddisfatte, perché rispetto allo
squallore che le circonda se la passano bene.
Ma è tutt’al più una felicità ottusa e animalesca, è la soddisfazione
di una pancia piena.
La nota dominante della loro vita è materialistica!
Sono insulsi e ottusi, privi di immaginazione!
L’abisso sembra trasudare un’atmosfera di torpore che li avvolge e li
rende insensibili.
La religione non li tocca.
L’ignoto non suscita in loro né terrore né speranza.
Tutto ciò che chiedono e che sognano di chiedere all’esistenza è la
pancia piena e la pipa di sera, con l’immancabile pinta di birra.
Non sarebbe grave se fosse tutto qui, ma non è tutto qui.
Il torpore soddisfatto in cui sono immersi è l’inerzia morale che
precede la dissoluzione. Non c’è progresso, e per loro non progredire significa
ricadere nell’abisso. Nella loro vita possono solo cominciare a cadere,
lasciando ai loro figli e nipoti il compito di portare a termine la caduta.
L’uomo ottiene dalla vita sempre meno di quello che chiede, e loro chiedono
talmente poco che il pochissimo che ottengono non basta a salvarli.
Anche nei casi migliori, la vita di città è innaturale per l’essere
umano; ma la vita delle nostre città è così profondamente innaturale che il
lavoratore o la lavoratrice non riescono a sopportarla. Il corpo e la mente
sono minati da influenze insidiose ed incessanti. Il vigore morale e fisico
viene spezzato, ed il buon lavoratore, appena giunto dalla campagna, diventa
alla prima generazione in città un lavoratore povero; la seconda generazione
urbana, priva di determinazione e iniziativa e fisicamente incapace di svolgere
il lavoro dei padri, è avviata verso il mattatoio e il fondo dell’abisso…(*)
(*)
….Molte ricerche condotte su animali hanno evidenziato che la risposta
‘neuroendocrina’ allo stress, nel lungo periodo, altera diversi processi
fisiologici implicati nella formazione DEI TUMORI, come il metabolismo
ossidativo, la riparazione del DNA, l’espressione oncogena da virus e cellule
somatiche, la produzione dei fattori di crescita e altri regolatori della
crescita delle cellule tumorali. L’azione delle catecolamine, dei
glucocorticoidi e degli altri ormoni dello stress modula l’attività di molte
componenti del microambiente tumorale.
Questa
attività ha effetti nella promozione della crescita delle cellule tumorali,
nella loro capacità invasiva e di migrazione, nella stimolazione della ansiogenesi.
Gli ormoni dello stress possono altresì attivare i virus ancogeni ed alterare
molti aspetti della difesa immunitaria.
…Nell’insieme
tutto questo crea un ambiente favorevole per la nascita di un tumore, crescita
e progressione. .. Alcuni studi hanno mostrato una relazione tra diverse
caratteristiche psicologiche ed un aumento di rischio per il cancro, ed una
relazione indiretta tra stress ed alcuni tumori legati a virus. I dati relativi
a studi su animali ed umani evidenziano che tale relazione passa attraverso
l’azione di disregolazione che lo stress ha sul sistema immunitario:
un’immunità ‘stressata’ è meno in grado di tenere a bada i virus tumorali…
…Una
complicazione negli studi sul rapporto tra stress e cancro è data dalla
difficoltà di separare gli effetti biologici diretti dello stress dagli effetti
indiretti sulla salute degli aspetti psicologici e comportamentali legati allo
stress. Ad esempio comportamenti come fumo ed abuso di alcol, o una condizione
di obesità, che sono tutti fattori di rischio riconosciuti per il cancro.
Tuttavia,
se questa è una complicazione per comprendere il contributo specifico dei
diversi aspetti alla malattia, ci fornisce tuttavia una chiave importante: il
rapporto tra stress e tumori andrebbe inquadrato nell’ambito dell’insieme dei
cambiamenti (biologici, psicologici, comportamentali e sociali) legati allo
stress. Questo ci aiuta a capire quanto le modificazioni acute e croniche
indotte….
(D.
Lazzari, La ‘Bilancia dello Stress’)
…Già l’aria che respira, alla quale non può mai sfuggire, basta ad indebolire
nel corpo e nello spirito l’abitante dell’abisso, cosicché non è più in grado
di competere con la vita giovane e vigorosa che dalle campagne accorre alle
nostre città per distruggere ed essere distrutta.
Lasciando da parte i germi infetti che saturano l’aria… limitiamoci a
considerare la questione dei nostri fiumi. Un nostro ricercatore ha studiato i
depositi lasciati dal fumo sulla vegetazione; secondo lui, non meno di sei
tonnellate di materia solida, costituite da fuliggine e idrocarburi catramosi,
si depositano ogni settimana su ciascun quarto di miglio quadrato delle nostre
‘nobili anarchiche città industrializzate’ (confindustria permettendo…). Questo
equivale a ventiquattro tonnellate per miglio quadrato a settimana, ovvero
1.248 tonnellate all’anno. Dal cornicione sotto la cupola della nostra
cattedrale è stato recentemente asportato un deposito solido di solfato di
calce cristallizato. Il deposito è causato dall’azione dell’acido solforico
presente nell’atmosfera sul carbonato di calce della pietra. E questo acido
solforico dell’atmosfera viene respirato senza sosta dai lavoratori per tutti i
giorni e tutte le notti della loro vita.
E’ inevitabile che i bambini diventino adulti malati, senza vitalità né
vigore, una progenie irresoluta, rachitica, svogliata, che si accascia e
soccombe nella brutale lotta per la sopravvivenza contro le orde di fumi
inalati ed assimilati come odierno cibo spaccato per benessere... materiale…
...In una società competitiva come la nostra dove gli uomini si battono per
avere cibo e un tetto, che cosa c’è di più naturale che considerare la
generosità d’animo come cosa riprovevole, quando da essa deriva un danno agli
interessi di chi caritatevole non è?
I vecchi e saggi proverbi affermavano, al contrario, che appropriarsi delle
risorse di un uomo significa appropriarsi della sua esistenza. Attentare al
cibo e alla casa di cui dispone è attentare alla sua vita. Questo principio è
soprattutto valido in una società organizzata sulla difesa all’ultimo sangue,
dove anche un atto di generosità è fortemente indiziato di essere una reale
minaccia. E’ per questa ragione che il lavoratore è così selvaggiamente ostile a
chi si offre di lavorare al suo posto per un salario inferiore o per un
maggiore numero di ore. Per conservare il lavoro (ossia per poter vivere), egli
deve bilanciare questa offerta con una della stessa entità, il che
significa rinunciare a una parte di cibo e ad un tetto dignitoso.
Vendere la propria giornata lavorativa a due dollari piuttosto che a
due e mezzo, significa, per sé e la propria famiglia, rinunciare ad un buon
tetto, ad abiti caldi, a mangiare cibi nutrienti. Sarà costretto a comprare
meno carne, e quella che potrà concedersi sarà più scadente e meno
nutriente, i suoi figli calzeranno più raramente scarpe nuove e robuste,
la malattia e la morte minacceranno con maggiore probabilità la sua casa e
il suo quartiere. Così il lavoratore generoso che concede la sua giornata
lavorativa in cambio di un salario più basso di quello dovuto, che svilisce la
qualità della propria vita, minaccia l’esistenza del suo fratello operaio
che lavora meno generosamente. Se non distrugge la sua vita, nella più rosea
delle ipotesi la rende precaria e la sminuisce.
Ovviamente, il lavoratore meno generoso lo considera un nemico e quindi
cercherà, in una società che non lascia scampo, di liberarsi di colui che lo
sta seppellendo. Quando uno scioperante uccide con un mattone chi gli ha
scippato il lavoro, non ha la consapevolezza di compiere un’azione sbagliata e trova
in quel gesto estremo una giustificazione morale. Una scusante, come il boero
che difende la sua patria contro l’invasore inglese. Dietro ogni mattone
lanciato da uno scioperante, c’è il desiderio egoista di vivere, e quello
altruista di far vivere la propria famiglia. Il gruppo familiare si è costruito
prima dello Stato e della società, società che si trova ancora nello stadio
primitivo della lotta senza quartiere e il desiderio di ‘vivere’ dello stato
non è così importante per lo scioperante come lo è quello personale di far
vivere con decenza se stesso e la propria famiglia. Oltre alla necessità
di usare mattoni, bastoni e proiettili, il lavoratore egoista ha anche
quella di esprimere i suoi sentimenti a parole.
Come il pacifico contadino chiama ‘pirata’ chi preda i mari e il grasso
borghese chiama ‘ladro’ chi forza la sua cassaforte, allo stesso modo il
lavoratore egoista applica l’epiteto disonorevole di ‘crumiro’ al lavoratore
che gli scippa cibo, casa e lavoro mostrandosi più generoso nella sua
offerta lavorativa. Anche la connotazione affettiva del termine ‘crumiro’ è
disonorevole quanto il termine ‘traditore’ o ‘Giuda’, e la definizione
affettiva di una parola dovrebbe essere profonda e variegata così come lo
è il cuore umano. Risulta più semplice dare una definizione tecnica,
espressa in termini commerciali, come quella che segue: ‘un crumiro è uno
che dà più valore allo stesso prezzo rispetto ad un altro’. Il lavoratore
(l’intellettuale, l’artista e via dicendo) che dà più tempo, energia,
capacità rispetto ad un altro per una paga inferiore, è un crumiro. La
generosità che mette in campo il crumiro nuoce ai suoi compagni, poiché li
obbliga a un uguale generosità che non sentono e non ritengono conveniente
e utile dare, in quanto riduce la qualità della vita.
Ma si può dire comunque qualcosa a favore del crumiro.
Così come il suo modo di fare obbliga i suoi rivali ad essere generosi,
allo stesso tempo e modo questi, per destino di nascita o educazione, gli
rendono quell’atto di generosità obbligatorio. Non agisce da
crumiro perché vuole esserlo. Nessuna stravaganza personale, nessuno
slancio di generosità lo spingono a concedere più lavoro a un prezzo
inferiore rispetto agli altri lavoratori. E’ soltanto perché non potrebbe
mai ottenere un lavoro alle stesse condizioni degli altri lavoratori che si
abbassa a essere crumiro. Ci sono meno lavori che uomini disponibili a farli.
Questo è evidente, altrimenti la figura del crumiro non sarebbe
così diffusa nel mercato del lavoro. Ma poiché molti lavoratori sono più
forti, più abili e più energici, per il crumiro è impossibile occupare i loro
posti per la stessa paga. Per prendere il loro posto deve dare di più, lavorare
più ore o ricevere una paga più esigua. Lo fa, non può evitarlo, poiché la
volontà di ‘sopravvivere’ lo spinge a farlo, così come la stessa volontà spinge
gli altri a combatterlo. Per vivere è necessario guadagnarsi il cibo e
alloggio, e ciò è possibile soltanto dopo aver ricevuto il permesso di lavorare
a un pezzo di terra, o a un macchinario; per ottenerlo il lavoratore deve
concludere un accordo che per lui sia favorevole.
Visto in quest’ottica, il crumiro che fornisce per un certo
prezzo più lavoro rispetto ai suoi compagni, non è poi così
generoso come si pensava. Non è più generoso, con la propria forza,
di un servo o di un forzato entrambi esempi quasi perfetti di
crumiro – in quanto lavora per il minimo prezzo possibile. Ma, entro certi
limiti, egli può perdere tempo sul lavoro, marcare visita. La macchina
invece non perde tempo, non finge di ammalarsi e per questo
rappresenta il crumiro perfetto e ideale. Non è piacevole essere un crumiro.
Non è soltanto una cosa di cattivo gusto dal punto di vista sociale e indegna
di un vero compagno ma, a ben vedere, è anche controproducente per quanto
concerne le necessità primarie: cibo e casa. Nessuno ha voglia di essere un
crumiro, di lavorare di più e guadagnare meno. L’ambizione di ogni
individuo si situa all’opposto: dare meno per ricevere di più; e come
risultato si ha che, vivendo in un mondo basato sulla lotta senza
quartiere, la battaglia all’ultimo sangue è combattuta soltanto dai più
ambiziosi.
Ma per quanto concerne l’aspetto più saliente, la lotta per la
divisione del prodotto del lavoro congiunto, vediamo che essa non è
più soltanto una battaglia tra individui, ma tra gruppi di individui. Il
capitale e il lavoro si occupano delle materie prime, ne traggono un utile e lo
aggiungono al suo valore di base, dando avvio alla disputa sulla divisione del
valore aggiunto. Nessuna delle due parti si preoccupa di dare il massimo per
ottenere il minimo. Ognuno vuole dare meno di quanto concede l’altro e di
trarne un vantaggio maggiore (da qui tutto ciò che ne deriva malattie
enunciate… comprese nei ricavi nella bilancia dello…).
(J. London, Il popolo degli abissi; D. Lazzari, La ‘Bilancia dello
Stress’; J. London, il sogno di Debbs)
Nessun commento:
Posta un commento