giuliano

mercoledì 12 aprile 2017

IL FIOR DETTO DAL DUR... DURANTE DETTO (2)












































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Molte salute, Madonna, v’porto
Dal vostro figluolo. E’ pregavi, per Dio,
Che  ’l socoriate, od egli è in punto rio,
Che Gielosia gli fa troppo gran torto.

Che nonn’ à guar ched e fu quasi morto
In una battaglia, nella qual fu’ io.
Ancor si par ben nel visagio mio
Che molto mi vi fu strett’ ed a torto. —

Allor Venusso fu molto crucciata,
E disse ben chella forteza fìa
Molto tosto per lei tutta  ’nbraciata:

Ed a malgrado ancor di Gielosia,
Ella sera per terra rovesciata.
Nolle varrà già guardia che vi sia. —

Venusso sì montò sus’ un ronzino
Corsiere ch’era buon da cacciagione,
E con sua giente n’ andò a Cicierone.
Sì comanda che sia’ prest’ al matino

Il carro suo, eh’ era d’oro lino.
I[n]mantenente fu messo i’ limone,
E presto tutto, sì ben per ragione,
Che, quando vuol, puote entrar in camino.

Ma non volle cavai per lmoniere.
Né per tirare il caro, anzi fé trarre
Cinque colonbi d’un su’ colonbiere.

A corde di fil d’oro gli fé legare.
Non bisogniava avervi carettiere,
Chèlla dea gli sapea ben guidare.

Di gran vantagio fu ’l carro prestato.
Venusso ben matin v’ è su salita,
E sì sacciate eh’ ell era guernita
E d’ arco, e di brandon ben inpennato,

E seco porta fuoco tenperato.
Così da Ciceron sì s’ è partita,
E dritta all’ oste del figluol n’ è ita
Con suo’ colonbi che ’1 car àn tirato.

Lo dio d’amor sì avea rotte le triove,
Prima che Veno vi fosse arivata.
Che troppo gli parea 1’ atender grieve.

Venus dritta a lui sì se n’ è andata.
Sì disse : Figluol, non dottar, che ’n brieve
Questa forteza no’ avremo aterata. —

Figluol mi’, tu l’arai un saramento,
E io d’altra parte si ’I faroe.
Che Castitate i’ ma’ non lascieroe
In femina che agia intendimento,

Nèttu in uon chetti si’ a piacimento.
Ed i’ te dico ben eh’ i’ lavorroe
Col mi’ brandone; sì gli scalderoe,
Che ciaschedun verrà a comandamento.

Per far le saramenta sì aportaro,
En luogo di relique, si aportaro
Brandoni, e archi, e saette; si giurarono.

Di suso, e diser e’ altrettanto vale.
Color de 1’ oste ancor vi s’ acordaro.
Che ciaschedun sapea le dicretali.

Venus, che d’ assalire era presta.
Sì comanda a ciascun ched e’ s’ arenda,
O che la mercie ciascheduno atenda,
Ch’ ella la guarda lor tratutta presta.

E sì lor à giurato per sua testa,
Ched e’ non sia nessun che si difenda,
Ch’ ella de la persona nogli afenda;
E così ciaschedun sì amonesta.

Vergogna sì respuose: I’ non vi dotto.
Se nel Castel non fosse se non io,
Non crederei che fosse per voi rotto.

Quando vi piacie intrare a lavorio,
Già per minacele no m’ intrate sotto,
Né vo né que’ che d’ amor si fa dio. –

Quando Venus intese che Vergogna
Parlò sì arditamente contrallei,
Sì gì’ à giurato per tutti gli dei,
Ch’ ella le farà ancor gran vergogna;

E poi villanamente la ranpogna,
Diciendo : Garza, poco pregierei
Il mi’ brandone, sed i’ te non potrei
Farti ricoverare in una fogna.

Già tanto non se’ figlia di Ragione,
Che senpre co’ figluoi m’ à gueregiato,
Ch’ i’ non ti metta fuoco nel groppone. —

Ed a Paura ancor da 1’ altro lato :
Ben poco varrà vostra difensione,
Quand’ i’ v’ avrò il fornel ben riscaldato. –

Molto le va Venus minacciando,
Diciendo, se no rendono il castello,
Ched ella metterà fuoco al fornello
Sì che per forza le n’ andrà cacciando.

E disse : A .M. diavoli v’ acomando,
Chi amor fugie, e’ fosse mi’ fratello.
Per Dio, i’ le farò tener bordello.
Color che l’Amor vanno sì schifando.

Chèd e’ non è più gioia che ben amaro,
Rendetemi il castel, o veramente
Il farò i[n]mantenente giù versare ;

E poi avremo il fior ciertanamente,
E si ’1 faremo in tal modo sfogliare
Che poi non fia vetato a nulla gente. —

Venus la sua roba à socorciata,
Crucciosa per senbianti molto, e fiera,
Verso ’1 Castel tenne sua caminiera,
E ivi sì s’ è un poco riposata.
E riposando sì ebe avisata,
Come cole’ eh’ era sottil’ archiera,
Tra due pilastri una balestriera.
La qual natura v’ avea conpasata.

In su’ pilastri una imagine avea asisa ;
D’argiento fin senbiava, sì luciea;
Trop’ era ben taglata a gran divisa.

Di sotto un santuaro sì avea :
D’undrapo era coperto sì, in ta’ guisa.
Che ’1 santuaro punto non parca.

Troppo avea quel’ imagine ’1 [vi]sagg’io
Tagliato di tranobile fazone.
Molto pensai d’ andarvi a prociessione,
E di fornirvi mie pelligrinagio.

E sì no mi parìa paruto oltragio
Di starvi un dì davanti ginochione,
E poi di notte esservi su boccone,
E di donarne ancor ben gran lo gagio.

Chèd i’ era ciertan sed i’ toccasse
Le r[e]lique, che disotto eran riposte.
Che ogne mal eh’ i’ avesse mi sanasse ;

E fosse mal di capo, over di coste,
Od altra malatia, che mi gravasse,
A tutte m’ avrìa fatto donar soste.

Venus allora già più non atende,
Però ched ella sì vuol ben mostrare
A ciaschedun, ciò ched ella sa fare
I[n]mantenente l’arco su’ sì tende,

E poi prende il brandone e sì 1’ aciende.
Sì nolle parve pena lo scocare,
E per la balestriera il fé volare,
Sì che ’1 Castel ma’ più non si difende

I[n]mantenente il fuoco sì s’ aprese,
Per lo castello ciascun si fugio,
Si che nessun vi fecie più difese

Lo Schifo disse : Qui no sto più io.
Vergogna si fugì in istran paese,
Paura a gran fatica si partio.

Quando ’1 castello fu così inbrasciato,
E chelle guardie fur fu gite via,
Alor sì v’ entro entrò Cortesia
Per la figluola trar di quello stato.

E Franchez’ e Pietà da l’altro lato
Sì andaron collei in conpagnia.
Cortesia sille disse: Figlia mia,
Molt’ ò avuto di te il cuor crucciato,

Che stata se’ gran tenpo inpregionata.
La Gielosia agi’ or mala ventura,
Quando tenuta t’ à tanto serrata.

Lo Schifo, e Vergogna con Paura
Se son fugiti, e la gol’ à tagliata
Ser Malabocca, per sua disaventura.

Figluola mia, per Dio, e per merzede,
Agie pietà di quel leal amante,
Che per te à soferte pene tante
Che dir noi ti porìa in buona fede.

I[n] nessun altro idio chette non crede,
E tuttora acciò è stato fermo e stante.
Figluola mia, or gli fa tal senbiante
Che sia ciertano di ciò e’ or non crede.

Bellacoglienza disse : I ’ gli abandono
E me, e ’1 fiore, e ciò eh’ i’ ò ’n podere,
E ched e’ prenda tutto quanto in dono.

Per altre volte avea alcun volere,
Ma nonn’ era sì agiata com’ or sono.
Or ne può fare tutto ’1 su’ piaciere.

Quand’ i’ udi’ quel buon risposto fino
Chella gientil rispuose,……
Ed a la balestriera m’adrizai,
Chè quel si era il mi’ dritto camino.

E sì v’ andai come buon pellegrino,
Ch’ un bordon noderuto v’ aportai,
E la scarsella non dimenticai,
La qual v’ apiccò buon mastro divino.

Tutto mi’ arnese tal chent’ i’ portava,
S’ ò di condurr al porto in mia ventura,
Di toccarne le relique i’ pur pensava.

Nel mi’ bordon non avea feratura,
Che giamai contra pietre noli’ urtava :
La scharsella sì era san costura.

 Tant’ andai, giorno e notte caminando,
Col mi’ bordon che non era ferrato,
Che ’ntra duo be’ pilastri fu’ arivato.
Molto s’ andò il mi’ cuor riconfortando.

Dritt’ a le r[e]lique venni apressimando,
E mantenente mi fu’ inginochiato,
Per adorar quel corpo beato ;
Po’ venni la coverta solevando.

E poi provai sed i’ potea il bordone
In quella balestriera, eh’ i’ v’ ò detto,
Metterlo dentro tutto di randone ;

Ma i’ non potti, eh’ eli’ era sì stretto
L’ entrata, che ’1 fatto andò in falligione
La prima volta i’ vi fu’ ben distretto.

Pe’ più volte falli’ allui ficcare,
Perciò che ’n nulla guisa vi capea ;
Ella scarsella e’ al bordon pendea,
Tuttor disotto lo faciea urtare,

Credendo il bordon me’ far entrare,
Ma già nessuna cosa mi valea ;
Ma a la fine i’ pur tanto scotea,
Ched i’ pur lo faciea oltre passare.

Sì eli’ io allora il fior tutto sfoglai,
E la semenza eh’ i’ avea portata.
Quand’ ehi arato, silla seminai ;

La semenza del fior v’ era cascata,
Amendue insieme sille mescolai.
Che molta di buon’ erba n’ è po’ nata.


(Dur Durante…)













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