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Molte
salute, Madonna, v’porto
Dal
vostro figluolo. E’ pregavi, per Dio,
Che ’l socoriate, od egli è in punto rio,
Che
Gielosia gli fa troppo gran torto.
Che
nonn’ à guar ched e fu quasi morto
In
una battaglia, nella qual fu’ io.
Ancor
si par ben nel visagio mio
Che
molto mi vi fu strett’ ed a torto. —
Allor
Venusso fu molto crucciata,
E
disse ben chella forteza fìa
Molto
tosto per lei tutta ’nbraciata:
Ed
a malgrado ancor di Gielosia,
Ella
sera per terra rovesciata.
Nolle
varrà già guardia che vi sia. —
Venusso
sì montò sus’ un ronzino
Corsiere
ch’era buon da cacciagione,
E
con sua giente n’ andò a Cicierone.
Sì
comanda che sia’ prest’ al matino
Il
carro suo, eh’ era d’oro lino.
I[n]mantenente
fu messo i’ limone,
E
presto tutto, sì ben per ragione,
Che,
quando vuol, puote entrar in camino.
Ma
non volle cavai per lmoniere.
Né
per tirare il caro, anzi fé trarre
Cinque
colonbi d’un su’ colonbiere.
A
corde di fil d’oro gli fé legare.
Non
bisogniava avervi carettiere,
Chèlla
dea gli sapea ben guidare.
Di
gran vantagio fu ’l carro prestato.
Venusso
ben matin v’ è su salita,
E
sì sacciate eh’ ell era guernita
E
d’ arco, e di brandon ben inpennato,
E
seco porta fuoco tenperato.
Così
da Ciceron sì s’ è partita,
E
dritta all’ oste del figluol n’ è ita
Con
suo’ colonbi che ’1 car àn tirato.
Lo
dio d’amor sì avea rotte le triove,
Prima
che Veno vi fosse arivata.
Che
troppo gli parea 1’ atender grieve.
Venus
dritta a lui sì se n’ è andata.
Sì
disse : Figluol, non dottar, che ’n brieve
Questa
forteza no’ avremo aterata. —
Figluol
mi’, tu l’arai un saramento,
E
io d’altra parte si ’I faroe.
Che
Castitate i’ ma’ non lascieroe
In
femina che agia intendimento,
Nèttu
in uon chetti si’ a piacimento.
Ed
i’ te dico ben eh’ i’ lavorroe
Col
mi’ brandone; sì gli scalderoe,
Che
ciaschedun verrà a comandamento.
Per
far le saramenta sì aportaro,
En
luogo di relique, si aportaro
Brandoni,
e archi, e saette; si giurarono.
Di
suso, e diser e’ altrettanto vale.
Color
de 1’ oste ancor vi s’ acordaro.
Che
ciaschedun sapea le dicretali.
Venus,
che d’ assalire era presta.
Sì
comanda a ciascun ched e’ s’ arenda,
O
che la mercie ciascheduno atenda,
Ch’
ella la guarda lor tratutta presta.
E
sì lor à giurato per sua testa,
Ched
e’ non sia nessun che si difenda,
Ch’
ella de la persona nogli afenda;
E
così ciaschedun sì amonesta.
Vergogna
sì respuose: I’ non vi dotto.
Se
nel Castel non fosse se non io,
Non
crederei che fosse per voi rotto.
Quando
vi piacie intrare a lavorio,
Già
per minacele no m’ intrate sotto,
Né
vo né que’ che d’ amor si fa dio. –
Quando
Venus intese che Vergogna
Parlò
sì arditamente contrallei,
Sì
gì’ à giurato per tutti gli dei,
Ch’
ella le farà ancor gran vergogna;
E
poi villanamente la ranpogna,
Diciendo
: Garza, poco pregierei
Il
mi’ brandone, sed i’ te non potrei
Farti
ricoverare in una fogna.
Già
tanto non se’ figlia di Ragione,
Che
senpre co’ figluoi m’ à gueregiato,
Ch’
i’ non ti metta fuoco nel groppone. —
Ed
a Paura ancor da 1’ altro lato :
Ben
poco varrà vostra difensione,
Quand’
i’ v’ avrò il fornel ben riscaldato. –
Molto
le va Venus minacciando,
Diciendo,
se no rendono il castello,
Ched
ella metterà fuoco al fornello
Sì
che per forza le n’ andrà cacciando.
E
disse : A .M. diavoli v’ acomando,
Chi
amor fugie, e’ fosse mi’ fratello.
Per
Dio, i’ le farò tener bordello.
Color
che l’Amor vanno sì schifando.
Chèd
e’ non è più gioia che ben amaro,
Rendetemi
il castel, o veramente
Il
farò i[n]mantenente giù versare ;
E
poi avremo il fior ciertanamente,
E
si ’1 faremo in tal modo sfogliare
Che
poi non fia vetato a nulla gente. —
Venus
la sua roba à socorciata,
Crucciosa
per senbianti molto, e fiera,
Verso
’1 Castel tenne sua caminiera,
E
ivi sì s’ è un poco riposata.
E
riposando sì ebe avisata,
Come
cole’ eh’ era sottil’ archiera,
Tra
due pilastri una balestriera.
La
qual natura v’ avea conpasata.
In
su’ pilastri una imagine avea asisa ;
D’argiento
fin senbiava, sì luciea;
Trop’
era ben taglata a gran divisa.
Di
sotto un santuaro sì avea :
D’undrapo
era coperto sì, in ta’ guisa.
Che
’1 santuaro punto non parca.
Troppo
avea quel’ imagine ’1 [vi]sagg’io
Tagliato
di tranobile fazone.
Molto
pensai d’ andarvi a prociessione,
E
di fornirvi mie pelligrinagio.
E
sì no mi parìa paruto oltragio
Di
starvi un dì davanti ginochione,
E
poi di notte esservi su boccone,
E
di donarne ancor ben gran lo gagio.
Chèd
i’ era ciertan sed i’ toccasse
Le
r[e]lique, che disotto eran riposte.
Che
ogne mal eh’ i’ avesse mi sanasse ;
E
fosse mal di capo, over di coste,
Od
altra malatia, che mi gravasse,
A
tutte m’ avrìa fatto donar soste.
Venus
allora già più non atende,
Però
ched ella sì vuol ben mostrare
A
ciaschedun, ciò ched ella sa fare
I[n]mantenente
l’arco su’ sì tende,
E
poi prende il brandone e sì 1’ aciende.
Sì
nolle parve pena lo scocare,
E
per la balestriera il fé volare,
Sì
che ’1 Castel ma’ più non si difende
I[n]mantenente
il fuoco sì s’ aprese,
Per
lo castello ciascun si fugio,
Si
che nessun vi fecie più difese
Lo
Schifo disse : Qui no sto più io.
Vergogna
si fugì in istran paese,
Paura
a gran fatica si partio.
Quando
’1 castello fu così inbrasciato,
E
chelle guardie fur fu gite via,
Alor
sì v’ entro entrò Cortesia
Per
la figluola trar di quello stato.
E
Franchez’ e Pietà da l’altro lato
Sì
andaron collei in conpagnia.
Cortesia
sille disse: Figlia mia,
Molt’
ò avuto di te il cuor crucciato,
Che
stata se’ gran tenpo inpregionata.
La
Gielosia agi’ or mala ventura,
Quando
tenuta t’ à tanto serrata.
Lo
Schifo, e Vergogna con Paura
Se
son fugiti, e la gol’ à tagliata
Ser
Malabocca, per sua disaventura.
Figluola
mia, per Dio, e per merzede,
Agie
pietà di quel leal amante,
Che
per te à soferte pene tante
Che
dir noi ti porìa in buona fede.
I[n]
nessun altro idio chette non crede,
E
tuttora acciò è stato fermo e stante.
Figluola
mia, or gli fa tal senbiante
Che
sia ciertano di ciò e’ or non crede.
Bellacoglienza
disse : I ’ gli abandono
E
me, e ’1 fiore, e ciò eh’ i’ ò ’n podere,
E
ched e’ prenda tutto quanto in dono.
Per
altre volte avea alcun volere,
Ma
nonn’ era sì agiata com’ or sono.
Or
ne può fare tutto ’1 su’ piaciere.
Quand’
i’ udi’ quel buon risposto fino
Chella
gientil rispuose,……
Ed
a la balestriera m’adrizai,
Chè
quel si era il mi’ dritto camino.
E
sì v’ andai come buon pellegrino,
Ch’
un bordon noderuto v’ aportai,
E
la scarsella non dimenticai,
La
qual v’ apiccò buon mastro divino.
Tutto
mi’ arnese tal chent’ i’ portava,
S’
ò di condurr al porto in mia ventura,
Di
toccarne le relique i’ pur pensava.
Nel
mi’ bordon non avea feratura,
Che
giamai contra pietre noli’ urtava :
La
scharsella sì era san costura.
Tant’ andai, giorno e notte caminando,
Col
mi’ bordon che non era ferrato,
Che
’ntra duo be’ pilastri fu’ arivato.
Molto
s’ andò il mi’ cuor riconfortando.
Dritt’
a le r[e]lique venni apressimando,
E
mantenente mi fu’ inginochiato,
Per
adorar quel corpo beato ;
Po’
venni la coverta solevando.
E
poi provai sed i’ potea il bordone
In
quella balestriera, eh’ i’ v’ ò detto,
Metterlo
dentro tutto di randone ;
Ma
i’ non potti, eh’ eli’ era sì stretto
L’
entrata, che ’1 fatto andò in falligione
La
prima volta i’ vi fu’ ben distretto.
Pe’
più volte falli’ allui ficcare,
Perciò
che ’n nulla guisa vi capea ;
Ella
scarsella e’ al bordon pendea,
Tuttor
disotto lo faciea urtare,
Credendo
il bordon me’ far entrare,
Ma
già nessuna cosa mi valea ;
Ma
a la fine i’ pur tanto scotea,
Ched
i’ pur lo faciea oltre passare.
Sì
eli’ io allora il fior tutto sfoglai,
E
la semenza eh’ i’ avea portata.
Quand’
ehi arato, silla seminai ;
La
semenza del fior v’ era cascata,
Amendue
insieme sille mescolai.
Che
molta di buon’ erba n’ è po’ nata.
(Dur
Durante…)
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