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In una società dei consumi, tale contesa ha conseguenze
materialistiche. E’ come se gli individui tentassero di placare la propria ansia
esistenziale attraverso gli acquisti. Secondo il punto di vista
convenzionale, la ricetta del progresso è semplice: più si consuma, più si diventa
felici.
Un esame approfondito di ciò che motiva i consumatori rivela una vasta
gamma di fattori, famiglia, amicizia, salute, approvazione dei pari, comunità,
scopo, noti per avere una forte correlazione con la felicità di cui si dichiara
di godere. In altre parole, gli individui credono veramente che, attraverso i consumi,
si ottengono amici, comunità, senso del proprio scopo e così via.
Ma ci troviamo di fronte a un paradosso per certi aspetti tragico.
Le persone conoscono bene le cose che le rendono felici, ma hanno una scarsa
comprensione di come fare a ottenerle. La tesi secondo cui sempre più
consumi portano a un livello più elevato di benessere si rivela
errata. Avvalendosi di dati raccolti si è verificata l’ipotesi che il livello
di soddisfazione di vita sia legato all’aumento del reddito. Di positivo c’è
che l’equazione quasi funziona: si assiste infatti a un trend crescente di
soddisfazione per la propria vita ai livelli più bassi del reddito. Di
negativo c’è che il rapporto continuerà a diminuire all’aumentare del reddito.
In gran parte dei paesi industrializzati, nella migliore delle ipotesi,
vi è solo una blanda correlazione tra del reddito e felicità dichiarata e in
paesi con redditi medi oltre i 15.000 dollari, la correlazione tra aumento del
reddito e un livello di soddisfazione di vita più elevato è praticamente nulla.
Nel corso del tempo, si può raccontare lo stesso paradosso all’interno
di singole nazioni.
Negli Stati Uniti, dal 1950 il reddito reale pro capite è
triplicato, ma la percentuale di individui che dichiara di essere molto
soddisfatta non è affatto cresciuta, anzi, dagli anni 70 ha registrato un
calo. In Giappone per molti decenni la soddisfazione di vita non ha
registrato grossi cambiamenti. Nel Regno Unito, la percentuale di
individui che si dichiara molto soddisfatta è passata dal 52 del 1957 al 36% di
oggi.
Nei paesi occidentali alcuni aspetti fondamentali del benessere
individuale, invece di migliorare sembrano aver subito un declino.
Nell’America del Nord, i tassi di depressione raddoppiano ogni
decennio. Il 15% degli americani di 35 anni ha già sofferto di una forte
depressione. Quarant’anni fa, si parlava solo del 2%. Negli Stati Uniti, a un
certo momento della vita, un terzo della popolazione soffre di malattie mentali
gravi, e circa la metà di queste persone sarà colpita da una grave
depressione inabilitante.
Nel corso di un qualsiasi anno, circa il 6% della popolazione soffrirà
di depressione clinica e attualmente in America del Nord, il suicidio è
la terza causa di morte più comune tra i giovani adulti. Risalire alle
cause di questa infelicità non è particolarmente facile, ma vi sono due serie di dati
piuttosto convincenti che vedono come il consumismo stesso ne sia in
parte responsabile.
La prima serie rivela una correlazione negativa tra i comportamenti
materialistici e il benessere soggettivo. Il filosofo Alain de Botton ha
mostrato come una società iniqua porti ad alti livelli di ‘ansia da status’ tra
i cittadini. Lo psicologo Tim Kasser e colleghi hanno mostrato come chi
mostra comportamenti più materialistici, definendo e misurando il proprio
valore attraverso il denaro e i possedimenti materiali, dichiara livelli
inferiori di felicità. Rincorre l’autostima attraverso la ricchezza materiale
sembra un tipo di ‘gioco a somma zero’ in cui il bisogno costante di
migliorarsi e di approvazione serve solo a far sì che ci si fossilizzi in una
nevrotica spirale di consumi.
Un secondo nucleo di prove altrettanto convincenti collega la crescente
infelicità all’indebolimento di certe istituzioni fondamentali. Il
benessere soggettivo dipende in maniera determinante da stabilità
familiare, amicizia e forza della comunità. Ma, nella società dei consumi
questi aspetti sono stati messi in secondo piano.
Nel Regno Unito, ad esempio, dal 1950 la disgregazione familiare è
aumentata di circa il 400%. Negli ultimi 20 anni dell’ultima parte del
secolo scorso, la percentuale di americani che definiva i propri matrimoni come
‘molto felici’ è calata drasticamente e negli ultimi 50 anni, la fiducia e il
senso di comunità tra la gente sono calati enormemente. Alla metà del ventesimo
secolo, oltre il 50% di tutti gli americani credeva che le persone fossero ‘morali
e oneste’. Nel 2000, la proporzione era calata a circa poco più di un quarto e,
nello stesso periodo, anche la partecipazione alle attività comunitarie e sociali
diminuì nettamente.
In altre parole, sembra esserci una correlazione tra la crescita dei
consumi e l’erosione delle cose che rendono felici le persone, in particolare
le relazioni sociali. E’ evidente che tale correlazione non significa
necessariamente che ci sia un rapporto casuale tra i due termini. Di fatto,
come si e scriverà più avanti, ci sono però ragioni più che solide per considerare
seriamente l’idea che le strutture e istituzioni necessarie a mantenere la crescita
erodano le relazioni sociali o, come sostiene l’economista Richard Layard, che la
crescita dei consumi abbia ‘portato un certo aumento della felicità, anche in
paesi ricchi, ma tale felicità aggiunta è stata annullata da una maggiore
tristezza derivante da relazioni sociali meno armoniose’.
Un tragico risultato di questa inafferrabile corsa alla felicità è che,
sia ora sia per il futuro, le società industriali stanno escludendo le
possibilità che altre persone possano condurre una vita soddisfacente, e non
sono nemmeno in grado di offrir loro ricompense nell’immediato.
Il paradosso del benessere rende la domanda inevitabile: perché si
continua a consumare?
Perché non si guadagna meno, si spende meno in modo tale da avere più
tempo per la famiglia e gli amici?
In questo modo, non si potrebbe vivere meglio, e più equamente,
riducendo l’impatto dell’umanità sull’ambiente?
Questa idea ha dato la motivazione a numerose iniziative che mirano a
uno stile di vita più semplice. ‘La semplicità volontaria’ è per certi
aspetti una vera filosofia di vita. Si ispira in gran parte agli insegnamenti
del Mahatma
Gandhi, che incoraggiava le persone a ‘vivere semplicemente, cosicché
gli altri possano semplicemente vivere’. Nel 1936, uno dei discepoli di Ghandi
descrisse la semplicità volontaria come ‘l’evitare l’accozzaglia esteriore’ e
la ‘intenzionale organizzazione della vita per uno scopo’.
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