Precedenti capitoli:
Alla ricerca dell' 'immacolata' (e più certa) ricchezza di vita (51) & (1)
Prosegue in:
Il mondo alla rovescia (53) & (3)
& Il racconto del cedro (3)
Cominciò a disporre sulla neve, in guisa di basamento, molti grossi
rami, che impedivano alla nascente fiamma di annegare nella neve disgelata.
Ottenne la fiamma avvicinando un fiammifero ad una sottile scorza di betulla
che aveva in tasca: bruciava anche meglio della carta. La mise sul primo strato
di rami, e alimentò la fiamma nascente con manciate di erba secca e con i
ramoscelli più minuti. Lavorava lentamente, con mille cautele, perfettamente
conscio del pericolo. Gradualmente, mano mano che la fiamma si rinvigoriva,
aumentava il calibro dei rami con cui l’alimentava. Accoccolato nella neve,
districava i rami dalla boscaglia e li dava direttamente in pasto alle fiamme.
Sapeva che non poteva permettersi di sbagliare. A 60 sotto zero, uno che
abbia i piedi bagnati non deve fallire il primo tentativo di accendere un
fuoco. Se ha i piedi asciutti, e fallisce, può fare un chilometro di corsa
lungo la pista per ripristinare la circolazione. Ma la circolazione, in un
piede bagnato e in via di congelamento, non si ravviva più neanche correndo, a
60 sotto zero; per quanto veloci si possa correre, il piede si indurisce
vieppiù nel gelo.
Tutto questo l’uomo lo sapeva.
Il vecchio di Sulphur Creek gliene aveva parlato l’autunno passato, e
adesso il consiglio gli riusciva prezioso. Già i piedi erano diventati
completamente insensibili. Per farsi il fuoco era stato costretto a togliersi i
guanti, e le dita si erano immediatamente intorpidite. Finché aveva camminato a
cinque chilometri all’ora, il cuore aveva pompato sangue fino a tutte le
estremità del suo corpo, ma l’istante che si era fermato, l’azione della pompa
si era affievolita. Il gelo dello spazio mordeva l’estremità indifesa del
pianeta, ed egli, che si trovava nell’estremità indifesa, ne riceveva in pieno
l’assalto. Il sangue del suo corpo si ritraeva di fronte ad esso. Il sangue era
vivo, come il cane, e come il cane anelava a sfuggire e nascondersi di fronte
allo spaventoso gelo. Finché aveva camminato al suo ritmo, volente o nolente il
sangue era stato spinto alla superficie; ma ora rifluiva indietro, sprofondando
negli intimi recessi del suo corpo. Le estremità erano le prime a sentirne l’assenza.
I piedi bagnati furono i primi a congelarsi, e le dita nude ad intorpidirsi,
ma senza gelarsi. Naso e guance si erano cominciati a congelare, ed egli
sentiva tutta la pelle del corpo rabbrividire, abbandonata dal tepore del
sangue. Ma ormai era salvo. Dita e naso e guance sarebbero stati solo sfiorati
dal gelo, dal momento che il fuoco aveva preso ad ardere con lena. Lo
alimentava con rametti non più grandi di un dito. Ancora un minuto e avrebbe
potuto alimentarlo con rami grossi come il suo polso, dopodiché poteva sfilarsi
le calzature e, mentre si asciugavano, tenere i piedi nudi vicino al fuoco,
strofinandoli naturalmente prima con la neve.
Era riuscito ad accendere il fuoco: era salvo!
Ricordando il consiglio del vecchio di Sulphur Creek, sorrise.
Pretendeva che nessuno dovesse viaggiare da solo nel Klondike, oltre i
cinquanta sotto zero. Ebbene, lui ci si trovava; aveva avuto l’incidente; era
solo e ce l’aveva fatta. Quei vecchi, o almeno certuni, erano delle
donnicciole, pensò. Bastava non perdere la testa, ecco tutto. Un uomo degno di
questo nome poteva benissimo viaggiare da solo. Ma era impressionante la
rapidità con cui gli si congelavano le guance e il naso. E non aveva
immaginato che le dita potessero perdere ogni vitalità in così poco tempo.
Erano prive di vita: riusciva a stento a coordinare i movimenti necessari ad
afferrare un ramoscello, sembravano remote, dal suo corpo e da sé. Se toccava
un ramo, senza l’aiuto degli occhi non riusciva a capire se l’avesse preso o
no. Tra lui e le estremità delle sue dita i fili di comando erano
interrotti.
Ma tutto questo poco importava, ormai.
Il fuoco era lì, scoppiettante e crepitante e carico di vita in ogni
sua fiamma danzante. Cominciò a slacciarsi i mocassini. Erano incrostati di
ghiaccio; gli spessi calzerotti tedeschi erano come guaine di ferro fino alle
ginocchia; e i lacci dei mocassini erano come fili di acciaio inestricabilmente
avviluppati come da una conflagrazione. Per un po’ armeggiò con le dita
intorpidite, poi, rendendosi conto della totale futilità del gesto, estrasse il
coltello. Ma prima che potesse tagliare i lacci, accadde il fatto. Fu colpa
sua, o piuttosto la conseguenza di uno sbaglio. Non avrebbe dovuto fare il
fuoco sotto l’abete, ma all’aperto. Lo aveva fatto perché, così, era stato
più facile prendere i rametti dal sottobosco e gettarli direttamente nel fuoco.
Ma l’albero, sotto il quale aveva acceso il suo fuoco, aveva i rami appesantiti
da cumuli di neve; da settimane non soffiava vento, ed ogni ramo era carico al
massimo. Ogni volta che aveva strappato un rametto aveva comunicato una
leggera vibrazione all’albero - una vibrazione impercettibile dal suo punto di
vista, ma sufficiente a provocare il disastro.
In cima all’albero un ramo scaricò il suo fardello di neve sui rami di
sotto, i quali fecero altrettanto. Il processo continuò, diffondendosi e
coinvolgendo tutto l’albero. Si formò come una valanga, che precipitò di
colpo sull’uomo e sul fuoco, e il fuoco si spense. Al suo posto ora si
stendeva un manto disordinato di neve fresca. L’uomo fu atterrito. Ebbe la
sensazione di aver appena udito pronunciare la sua condanna a morte. Lì per lì
si sedette, fissando il punto in cui fino a un attimo prima c’era stato il
fuoco. Poi si sentì pervaso da una grande calma. Forse il vecchio di Sulphur
Creek aveva ragione. Se soltanto avesse avuto un compagno, ora, non si sarebbe
trovato in pericolo. Il compagno avrebbe potuto accendere per lui un altro
fuoco. Bene, toccava a lui ora riaccendere un altro fuoco, e questa volta non
doveva commettere sbagli. Anche se gli andava bene, avrebbe certamente perso
alcune dita. I piedi dovevano essere malamente congelati oramai, e ci sarebbe
voluto un bel po’ per preparare il secondo fuoco. Tali furono i suoi pensieri,
ma non era rimasto seduto a formularli: mentre gli balenavano nel cervello si
era dato da fare a preparare le basi della nuova fiammata, all’aperto stavolta,
dove nessun albero traditore potesse spegnerla. Si diede poi da fare a
raccogliere erbe secche e rametti sottili. Non riusciva a riunire le dita per
strapparli, ma poteva prenderli a manciate. Era il meglio che potesse fare,
anche se ciò significava raccogliere persino rami fradici o erbe troppo
fresche, di nessun ausilio.
Lavorava con metodo, raccattando anche una certa quantità di rami più
grossi da usarsi successivamente, quando il fuoco avesse preso bene. E nel
frattempo il cane stava seduto a guardarlo, con occhi ansiosi, perché l’uomo
gli appariva come il procacciatore di fuoco, e il fuoco era lento a venire.
Quando tutto fu pronto, l’uomo si frugò in tasca per cercare un secondo
pezzo di scorza di betulla. Sapeva di averne e, pur senza sentirla con le dita,
la udiva frusciare mentre annaspava nella tasca. Ma, per quanto provasse, non
riusciva ad afferrarla. E intanto si accorgeva che, ad ogni istante che
passava, i piedi gli si andavano congelando. Questo pensiero tendeva a
precipitarlo nel panico, ma si sforzò di cacciarlo e di mantenersi calmo. Si
infilò i guanti coi denti, stese le braccia avanti e indietro percuotendosi le
mani sui fianchi con tutta la sua forza. Prima lo fece seduto, poi in piedi; e nel
frattempo il cane se ne stava accovacciato nella neve, la coda pelosa da lupo
arricciolata a scaldargli le zampe anteriori, le aguzze orecchie da lupo tutte
tese mentre osservava l’uomo…
…E l’uomo, mentre agitava e batteva gambe e braccia, provò un grande
empito di invidia per la creatura che se ne stava calda e sicura nella sua
copertura naturale. Dopo un po’ percepì un primo, fievole ritorno di
sensibilità nelle dita. Il fioco formicolio andò aumentando fino a trasformarsi
in un dolore pungente, tormentoso, che egli tuttavia accolse con sollievo. Si
tolse allora il guanto destro ed estrasse la scorza di betulla. Le dita nude
gli si andavano intorpidendo velocemente. Successivamente tirò fuori i
fiammiferi. Ma il freddo tremendo aveva reso le sue dita come morte. Nel
tentativo di separare un fiammifero dagli altri, tutto il mazzo gli cadde nella
neve. Tentò di raccoglierlo, ma non vi riuscì. Le dita morte non erano in grado
né di toccare né di afferrare. Procedette con grande attenzione. Scacciò dalla
mente il pensiero del congelamento dei piedi, del naso, e delle guance, per
dedicarsi con tutta l’anima ai fiammiferi. Osservò attentamente, usando la
vista al posto del tatto, e quando vide che le dita erano piazzate ai due lati
del mazzo, le chiuse, o per meglio dire le volle chiudere, perché le
comunicazioni erano interrotte e le dita non ubbidirono. Si infilò il guanto
della mano destra e la batté con furia contro il ginocchio. Poi con le due mani
guantate riuscì a portarsi in grembo il mazzo di fiammiferi, nonché parecchia
neve. Ma senza grandi risultati. Dopo vari armeggi, riuscì a portarsi i
fiammiferi tra i pollici delle due mani guantate e da qui alla bocca. Il
ghiaccio scricchiolò quando con un violento sforzo aprì la bocca. Ritrasse la
mascella inferiore e il labbro superiore e sfregò i denti sul mazzo per
separare un fiammifero. Riuscì a prenderne uno, che si lasciò cadere in grembo.
Ma non servì a niente: non poteva raccattarlo. Poi ebbe un’idea: lo afferrò coi
denti e se lo strofinò su una gamba. Venti volte dovette strofinarlo prima che
si accendesse. Quando fu acceso, sempre tenendolo fra i denti, lo avvicinò alla
scorza di betulla. Ma le esalazioni di zolfo, entrandogli nelle narici e nei
polmoni, lo fecero tossire spasmodicamente.
Il fiammifero cadde nella neve e si spense!
Il vecchio di Sulphur Creek aveva ragione, pensò nel momento di
controllata disperazione che seguì: oltre 45 sotto zero bisogna viaggiare con
un compagno. Batté le mani, senza peraltro provare nessuna sensazione. All’improvviso
mise a nudo le mani, togliendosi i guanti coi denti. Afferrò tutto il mazzo tra
le palme delle mani. I muscoli delle braccia non essendo congelati gli
consentirono di stringere forte le palme contro i fiammiferi. Poi sfregò tutto
il mazzo contro la gamba. Settanta zolfanelli, all’improvviso, presero fuoco!
Non c’era vento per spegnerli. Reclinò la testa da un lato per sfuggire alle
loro esalazioni soffocanti, e avvicinò il mazzo ardente alla scorza di betulla.
Mentre così lo teneva, sentì qualcosa alle mani. La carne stava bruciando, ne
sentiva l’odore. La sensazione divenne un dolore lancinante. Pure lo sopportò,
tenendo goffamente la fiamma presso la scorza che stentava a prender fuoco
perché le sue stesse mani, bruciando, assorbivano gran parte della fiamma. Alla
fine, quando non ne poté più dal dolore, ritirò le mani. I fiammiferi
fiammeggianti caddero sfrigolando nella neve, ma la scorza di betulla era
accesa. Cominciò a buttare sulla fiamma erbe secche e minuscoli ramoscelli. Non
poteva chinarsi a scegliere, perché doveva prendere il combustibile tra le
palme delle mani. Restavano attaccati ai rametti pezzetti di legno fradicio e
muschio fresco, che cercava di eliminare alla meglio coi denti.
Badava al fuocherello con cura amorosa, anche se goffamente: era la
vita per lui, e non bisognava lasciarlo perire. Sentendo che il sangue si
ritirava sempre più dalla superficie del suo corpo prese a rabbrividire, e i
gesti divennero sempre più inaccurati. Un grosso pezzo di muschio verde cadde
sul fuocherello. Cercò di rimuoverlo con le dita ma tremava talmente che finì
con lo scompigliare il nucleo del fuoco sparpagliando tutt’intorno erbe e
ramoscelli accesi. Cercò di rimetterli insieme, ma nonostante l’intensissimo
sforzo il suo tremore ebbe la meglio, e i ramoscelli rimasero sparsi senza
speranza. Ciascuno diede una sbuffata fumosa e si spense.
Il procacciatore di fuoco aveva fallito!
Mentre si guardava intorno smarrito, i suoi occhi caddero sul cane,
accovacciato sulle rovine del focolare, nella neve: era irrequieto, alzava
leggermente una zampa dopo l’altra, e spostava il peso dall’una all’altra. La
vista del cane gli fece venire un’idea folle: si ricordò la storia di un
uomo che, durante una bufera, aveva ucciso un vitello e si era salvato
rintanandosi nella sua tiepida carcassa. Avrebbe ammazzato il cane e affondato
le sue mani nel corpo ancora caldo fino a quando non avessero riacquistato la
sensibilità.
Poi si sarebbe acceso un altro fuoco.
Parlò al cane, chiamandolo per farlo avvicinare; ma la sua voce
aveva un suono strano, come di paura, che spaventò l’animale che non lo aveva
mai sentito parlargli prima a quel modo. C’era qualcosa di diverso, e la natura
sospettosa dell’animale sentì il pericolo - non sapeva quale, ma oscuramente
provò un senso di timore verso l’uomo. Abbassò le orecchie al suono della voce
dell’uomo, e i suoi movimenti irrequieti e l’alzarsi e l’abbassarsi delle zampe
anteriori divenne più pronunciato, ma non si avvicinò. L’uomo si accostò
carponi al cane, ma questa strana posizione ridestò i sospetti dell’animale,
che si schermì, scansandosi. L’uomo si sedette per un po’ sulla neve, cercando
di dominarsi. Poi si infilò i guanti, coi denti, e si alzò in piedi. Guardò per
terra per accertarsi di essere davvero in posizione verticale, poiché la
mancanza di sensibilità ai piedi gli aveva tolto ogni contatto col suolo.
Vedendolo in piedi, i sospetti del cane si affievolirono, e quando l’uomo gli
parlò in tono perentorio, col suono della frusta nella voce, gli si avvicinò,
con la soggezione di sempre. Quando fu a tiro, l’uomo perse ogni controllo
su di sé. Le sue braccia si tesero verso il cane, ed egli rimase
genuinamente stupito nello scoprire che le mani non riuscivano a afferrare la
presa, che le dita non si piegavano né sentivano. Aveva dimenticato per un
attimo che erano congelate e si andavano vieppiù congelando col passar del
tempo…
…Tutto avvenne in un
baleno, e prima che l’animale potesse sfuggire, lo abbrancò fra le braccia…
Si sedette nella neve, restando afferrato al cane che digrignava i
denti, guaiva e si dibatteva. Ma era tutto quello che poteva fare: tenersi
abbrancato all'animale, e starsene seduto. Capì di non essere in grado di
ucciderlo. Come avrebbe potuto? Con le sue mani inette non poteva né brandire
il coltello, né strangolarlo. Lo lasciò andare, e quello balzò selvaggiamente
via, con la coda tra le gambe, ringhiando. Si fermò a una quindicina di
metri e lo osservò con curiosità, le orecchie ritte.
L’uomo si mise a cercare con gli occhi le proprie mani, e le trovò
penzoloni all’estremità delle braccia. Gli sembrò strano che bisognasse usare
gli occhi per capire dove fossero le mani. Cominciò a muovere le braccia avanti
e indietro, e a battersi le mani inguantate sui fianchi. Continuò per cinque
minuti, con violenza, e il cuore pompò abbastanza sangue alla superficie per
fargli cessare il tremito. Ma nessuna sensazione si ridestò nelle mani. Aveva l’impressione
che gli penzolassero come pesi morti all'estremità delle braccia, ma quando
cercò di identificare l’origine di questa sensazione, non riuscì a trovarla.
Una certa paura di morire, tetra e oppressiva, lo pervase. Divenne acuta quando
si rese conto che non si trattava più di perdere le dita delle mani o dei
piedi, o addirittura le mani e i piedi, ma che era ormai per lui questione di
vita o di morte, e la sorte aveva tutta l’aria di essergli avversa. Questo
pensiero lo gettò nel panico: si volse correndo verso il letto del
ruscello, lungo la vecchia pista semicancellata. Il cane gli si accodò.
…Correva alla cieca, senza una meta, posseduto da un terrore quale non
aveva mai provato in vita sua. Lentamente, mentre si arrabattava per aprirsi un
varco in mezzo alla neve, riprese a vedere il mondo circostante - gli argini
del fiume, gli ammassi di vecchi tronchi, gli alberi senza foglie e il cielo.
Correre lo fece sentir meglio. Non tremava più. Forse, se continuava a correre,
i piedi si sarebbero scongelati: in ogni modo, se correva abbastanza a lungo,
avrebbe raggiunto il campo e i compagni. Senz’altro avrebbe perduto alcune dita
delle mani o dei piedi, e qualche parte del volto, ma i suoi compagni avrebbero
avuto cura di lui, e salvato il resto. E nello stesso tempo un’altra voce
interiore gli diceva che non avrebbe mai raggiunto l’accampamento e i compagni,
che era troppo lontano, che il gelo si era ormai impadronito di lui, e che
presto si sarebbe irrigidito e infine sarebbe morto. Cercava di scacciare
questo pensiero e di non prenderlo in considerazione. A volte esso faceva pressione
per essere udito, ma egli lo ricacciava via cercando di pensare ad altro. Gli
sembrava strano di riuscire a correre avendo i piedi così congelati che non li
sentiva quando poggiavano per terra; gli sembrava di scivolare sulla
superficie, di non aver contatto con il terreno. Aveva visto una volta in
qualche posto un Mercurio alato, e si chiese se Mercurio provasse quello che
provava lui scivolando sulla terra. La teoria di correre fino all’accampamento
e ai compagni aveva un solo punto debole: gli sarebbero mancate le forze per
farlo.
Già altre volte aveva inciampato; alla fine vacillò, annaspò e cadde.
Quando cercò di rialzarsi, non ci riuscì. Doveva riposarsi un po’,
pensò, e poi mettersi semplicemente a camminare. Mentre sedeva a prender fiato,
notò che si sentiva proprio bene. Non tremava più, e aveva perfino l’impressione
di avere un caldo ardore nel petto. Eppure, se si toccava il naso o le guance,
non sentiva nulla. Correre non era servito a sgelarli, come non aveva sgelato
mani e piedi. Poi gli venne il sospetto che le parti congelate del suo corpo
stessero estendendosi. Tentò di scacciare questo pensiero, di pensare ad altro:
sentiva che gli provocava un senso di panico, e del panico era terrorizzato, ma
quello persisteva, e finì col produrre in lui la visione del suo corpo
totalmente congelato.
Era troppo!
Riprese a correre come un pazzo lungo la pista.
Rallentò a un certo punto il passo, ma il pensiero del propagarsi del
congelamento lo fece di nuovo correre. Per tutto il tempo il cane gli stava
alle calcagna. Quando cadde la seconda volta, attorcigliò la coda sulle zampe
anteriori e gli si sedette di fronte, curiosamente bramoso e intento. Il senso
di calore e di sicurezza dell’animale lo irritò, e urlando lo coprì d’imprecazioni
finché non lo vide abbassare le orecchie con aria remissiva. Questa volta il
tremito lo assalì più presto. Stava perdendo la sua battaglia col gelo, che
cominciava ormai a invadere il suo corpo da ogni parte. Questo pensiero lo
spinse ancora un po’ avanti, ma dopo aver corso per un centinaio di metri
barcollò e cadde bocconi, lungo disteso. Fu l’ultimo suo momento di panico.
Quando ebbe ripreso fiato, e il controllo di sé, si mise a sedere e si propose
di affrontare la morte con dignità. L’idea, tuttavia, non gli si presentò
proprio in questi termini: ebbe piuttosto la sensazione di aver agito come uno
sciocco, mettendosi a correre all’impazzata come una gallina decapitata; questa
fu la similitudine che gli si presentò alla mente.
Se era destinato a morire congelato, tanto valeva prenderla
decorosamente.
Raggiunta questa pace dell’animo, ebbe un primo senso di assopimento. Buona
idea, pensò, entrare nella morte dormendo. Era come prendere un anestetico.
Morire congelato non era poi così brutto come la gente s'immaginava. C’erano
modi molto peggiori di morire. Si raffigurò i suoi compagni, mentre trovavano
il suo corpo il giorno dopo. Improvvisamente gli parve di essere con loro, di
percorrere con loro quella pista, alla ricerca di se stesso. E, sempre con
loro, dietro una curva della pista si trovò disteso nella neve. Non
apparteneva già più a sé, poiché anche allora era staccato da sé, e in piedi,
coi compagni, guardava se stesso nella neve.
Faceva proprio freddo, pensò!
Al ritorno negli Stati Uniti avrebbe detto alla gente cosa era un vero
freddo. Passando da questa a un’altra visione, gli riapparve il vecchio di
Sulphur Creek. Lo vedeva nitidamente, mentre al calduccio si fumava la pipa. ‘Avevi
ragione, vecchio, avevi ragione’, mormorò l’uomo al vecchio di Sulphur Creek. Quindi
l’uomo si assopì in quello che gli apparve come il sonno più bello che avesse
mai dormito.
Il cane era accovacciato di fronte a lui, e aspettava.
Il breve giorno volgeva al termine, con un lento, lungo crepuscolo. Non
si vedeva alcun preparativo di fuoco, e inoltre il cane non aveva mai visto in
tutta la sua esistenza un uomo starsene seduto così nella neve senza accendere
il fuoco. Mentre il crepuscolo avanzava, il cane, vinto dal desiderio di fuoco,
cominciò ad agitarsi e a gemere sommessamente, poi afflosciò le orecchie,
aspettando il castigo. Ma l’uomo rimase muto. Dopo un po’ il cane si mise a
guaire più forte. E dopo un altro po’ strisciò vicino all’uomo e annusò l’odore
della morte. Arricciò il pelo e si ritrasse. Sostò ancora qualche minuto,
ululando sotto le stelle che tremolavano e danzavano, e brillavano nitide nel
cielo gelido. Poi si volse, e si diresse trotterellando verso l’accampamento
che ben conosceva, dove c’erano altri procacciatori di cibo, e di fuoco.
(J. London, Preparare un fuoco)
Nessun commento:
Posta un commento