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Dei nostri Passi... (13/1)
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i nostri 'Passi' (15/6)
Per
fortuna, al sentirsi rivolgere la parola nella propria lingua, i tibetani
divennero mansueti. I coltelloni vennero rinfilati nella guaina, lentamente.
Dopo l’episodio
dei coltellacci, ci fu altro di notevole?
Nossignore.
Ben presto uscimmo dalla foresta e ci trovammo allo scoperto. Il paesaggio era
ormai davvero tibetano; qualche erba magra e infiniti sassi bigi e gialli. Il
tempo si guastò. Salimmo per alcune ore fino ad un ripiano glaciale della valle,
dove trovammo quattro tende di nomadi, e ci fermammo. Pioveva e faceva freddo.
Dite un po’,
sono simpatici questi vostri tibetani, in genere?
Simpaticoni.
Cordiali, sempre pronti a scherzare, aperti, franchi, un po’ farabutti, qualche
volta maneschi, facili a commuoversi, generosi, ospitali e rozzi. Assai diversi
da quel che si pensa debba essere un ‘orientale’. Niente in comune cogli
indiani, poco coi cinesi. Quando arrivammo al drok-sa (campo dei nomadi,
pascolo) una donna ci venne incontro con grandi feste. Era Kandron, la sorella
del mio portatore Si-thar; suo marito, Dondrukdorje, era proprietario di una
delle tende; venimmo dunque accolti come gente di casa.
Avanti-
descrizione della tenda, di questi nomadi, dei prodotti caseari eccetera...
Sissignore.
Sarò un po’ lungo. Mi scuserete. Bisogna infatti cominciare ‘ab ovo’ dall’origine
di tutto. L’origine di tutto è lo yakil, bos tibetanus, un grosso animale peloso,
dalle corna possenti, ma gentile, mansueto, pacifico. La femmina dello yak si
chiama dri. Yak e dri danno da vivere al nomade tibetano ed alla sua famiglia.
Innanzitutto il lungo pelo dell’animale viene filato; se ne tesse poi un panno grossolano
che serve per fare la tenda. La tenda (ba) è sostenuta da alcuni pali ritti,
all’interno, e da una trentina di pali corti (sigyang) all’esterno del muro
circolare di pietre che serve di fondamento a tutta la casa. Nell’interno, al
centro, v’è un quadrato scavato in terra pel fuoco (me-kyor); tutt’intorno la
gente si siede su pelli di yak o di pecora selvatica.
E chi c’era
nella tenda dove stavate?
C’era
anzitutto Dondruk-dorje, un uomo forte, alto, grosso, di 29 anni, con una
faccia da schiaffi...
Faccia da
schiaffi?
Sì, sapete
il genere di persona la quale comincia a prendere in giro lo straniero con
barzellette che quello non può capire, così tutti ridono del suo imbarazzo...
Ma insomma stavamo allegri, anche se spesso a mie spese. I tibetani sono così,
che volete farci, montanari un po’ selvaggi, capaci di grandi generosità e di
ferocia senza pensarci, a cinque minuti di distanza. Poi c’era Kandron, 24
anni, una vasta cavalla di donna, in fondo belloccia. Per fortuna Kandron mi
proteggeva: ogni volta il marito ne tirava fuori una nuova, e tutti ridevano, lei
mi chiedeva scusa e mio ffriva del latte! Latte di dri, fenomenale; crema,
profumo di fiori alpini. E poi yogurt, ricotta, formaggio...succhi bianchi
della neve e del sole, deliziosi, ricchi, essenziali. Certo un sahib non
dovrebbe stare così coi suoi portatori — almeno questa è una raccomandazione
che si sente ripetere. Ma avrei mai partecipato alla vita dei nomadi, così dall’intimità,
standomene solennemente fuori sotto la mia tenda? Mi pare valga sempre la pena
di sacrificare un po’ di rispetto per un po’ di fratellanza.
Scusate,
questi nomadi stavano li tutta la giornata a ridere e scherzare con voi, senza
far nulla?
Poche
impressioni potrebbero essere più errate. Dondruk-dorje faceva il burro; lavoro
lungo e faticoso. Una ventina di litri di latte vennero versati in un otre
costituito dalla pelle d’una vacca; poi Dondruk-dorje scosse violentemente quest’otre
per circa un’ora; infine ne tirò fuori un grosso malloppo di burro. Kandron
intanto bolliva il latte scremato (oshang) con dello yogurt (sho) per fare
ricotta (chura). La ricotta veniva messa a fermentare per farne del
formaggio(chu-she). Tutti lavori lunghi e abbastanza faticosi; alza un
pentolone, porta un sacco, sposta una forma, riempie un secchio... e così per
tuttala giornata. Sul tardi ci fu la mungitura. Scena bellissima. Dondrukdorjee
Kandron sortirono dalla tenda. Gli yak erano dispersi per le coste della
montagna. L’uomo andò lontano per rintracciare le bestie. Il tempo intanto s’era
rimesso. La valle apparve luminosa in tutta la sua ampiezza, circondata e
chiusa da grandi montagne dirupate su cui scintillavano ghiacci rosa di
tramonto. Silenzio e fiori; qualche allodola altissima e invisibile nel vento.
Campanoni lontani delle mandrie. Quando gli yak cominciarno a rientrare,
Kandron li diresse verso le tende lanciando delle pietre con la fionda di corda
(ota).
Evidentemente
questa Kandron vi ha commosso.
Sissignore.
Era veramente un’immagine di barbarica bellezza. Si chinava a raccattare la
pietra, la poneva tra le cordicelle della fionda, poi piegandosi indietro,
curvandosi, roteando tutte le spalle, il petto, fermissima sulle gambe forti e
ben piantate in terra, lanciava il proiettile, e questo piombava sibilando
vicino allo yak, dalla parte donde bisognava spaventarlo perché corresse verso
casa.
Risparmiateci
pure la mungitura dei dri.
Ma bisogna
che vi dica due parole sui cani. In Tibet ci sono i Lhasa terrier’s, degli
animalini simili ai pechinesi, di lusso; e poi ci sono i mastini. Questi ultimi
sono dei canoni grossi come dei San Bernardo, e sono le più terribili e
selvagge bestie che si possa immaginare. Vicino alla tenda di Dondruk-dorje ce
n’erano tre. Uno, meno funesto, stava in giro libero, però ringhiava sempre;
gli altri due erano spaventosi. Mettevano i brividi. Bastava avvicinarsi a
venti metriche cominciavano a saltare mordendo ferocemente la catena,
digrignando i denti, abbaiando come avessero davvero sete di sangue umano.
E dove
dormiste quella sera?
Nella tenda
di Dondruk-dorje c’era troppa folla. Durante la cena era venuto a riunirsi alla
compagnia un altro nomade, la cui tenda si trovava a dieci minuti di distanza; si
chiamava Hri-tar, era un giovane di 28 anni, il quale aveva un garzoncello di
16 o 17 per aiutarlo nei lavori; quest’ultimo si chiamava Sonam. La cena era
stata tutta un lungo e splendido succedersi di latticini: yogurt, ricotta,
latte a morire, formaggio fresco, formaggio secco, latte ancora fino a sentirsi
come uno tre...
Ritenete
possibile ci si possa ubriacare col latte?
Preso in
queste formidabili proporzioni induce una sorta di sonnolenza beata non lontana
dagli effetti di certi vinelli leggeri…
O di certi
vini pesanti…
Già, forse.
Soggetti di
conversazione durante la cena?
Perché il
figlio di Ishe non abbia voglia di lavorare, perché Ten-zin abbia venduto i
vitelli così presto, perché il prezzo del burro non sia salito come doveva e
allora Dorje... E’ bello quando si
comincia a conoscere tutti su per una valle e ci si sente quasi di casa! Me
nestavo in silenzio, sdraiato sulla pelliccia di pecora selvatica, sorbendo ogni
tanto un poco di latte cremoso; ed ero veramente felice. Finalmente Hritar
volle muoversi. Fuori era buio, faceva freddo, pioveva di nuovo. Nella tenda di
Hritar si stava invece benissimo. C’erano pelli e spazio. Sonam accese un gran
fuoco, ci sedemmo a bere del tè, a sorbire un sorso di arak, a chiacchierare; poi
verso le undici ci mettemmo a dormire.
Notte nella
tenda?
Silenzio;
ogni tanto un campano di yak che si muove; lento spegnersi del fuoco; saggio
morire dei tizzoni; canti mormorati dal vento. Hritar che parla nel sonno.
L’indomani?
Prestissimo
Hritar si levò dal giaciglio vestendosi e gridando a Sonam: ‘dormiglione,
alzati; ci sono diecimila cose da fare; io alla tua età ero fuori avanti l’alba;
levati dormiglione, pigrone, pezzo di cispa’... Sonam, scosso dalle semi benigne
pedate di Hritar si levò, cogli occhi ancora chiusi dal sonno, si vestì e
cominciò meccanicamente ad accendere il fuoco, a preparare il tè. Hritar
intanto andò fuori a mungene i dri. La mungitura della mattina è meno faticosa
di quella della sera. Gli animali passano la notte legati a delle corde fissate
con pioli per terra; non c’è da andare a cercarli, sono lì...
Vi
vestiste, prendeste il tè, sortiste fuori della tenda, e poi?
Poi fui
improvvisamente dinanzi al mondo!
Apocalittico?
Apocalittico.
Archetipico?
Archetipico
Spiegatevi.
Ecco: il
sole incendiava i ghiacciai di sublime splendore, mentre le immense pareti nere
dei monti nell’ombra grondavano ancora notte. Avrei voluto cantare un peana di
vittoria: vittoria di tutto ciò ch’è grande, nobile, puro, degno di dedizione e
di sacrificio nella vita degli uomini...
Invece?
Invece
bevvi solennemente del latte. E con un dito? Con un dito ripulii la tazza della
crema saporosa rimasta sull’orlo, attorno.
Infine?
Infine
partimmo. Addio Hritar! Addio Kandron e Dondruk-dorje! Addio nomadi felici,
compagni d’un giorno sperduto fra i monti dell’Imàlaia! Ah la vostra vita
serena lontana dai moti malefici del mondo! Resterete vivi per sempre nella mente
e nel cuore del viaggiatore ch’è stato per un poco con voi! Tu Hritar che
mostri orgoglioso i tuoi yak più forti; tu Sonam che accendi il fuoco; tu
Kandron che lanci le pietre al cielo, e tu Dondrak-dorje ...Ah, maledetto!
Mentre partiamo n’ha detta una finale. Ora tutti ridono... Che ha detto?
Sconcezze, sconcezze... No, Kandron, grazie...Latte proprio no, non ne posso
più...
E il
Tankar-la, era ancora lontano?
Sissignore.
‘Il Passo del Pane Bianco’ era ancora parecchio più su. Gli uomini restarono
addietro. Camminai per ore, da solo, avanti, arrampicandomi di morena in
morena. Ero certo che avrei toccato il cielo, tanto questo era azzurro,
solidamente azzurro, sopra di me. Scomodo camminare sulle cime più alte con la
testa curvata, per non sbattere nel cielo... Poi piano piano il tempo si
guastò. Nebbie si condersarono dal nulla, il vento si fece cattivo ed
antipatico. Giunsi sul passo appena in tempo per vedere qualcosa dell’altro
versante, dal lato del Sikkim, prima che le nuvole si chiudessero. Mi nascosi
sotto un landro di roccia. Pensavo: tristezza di trovarmi per la seconda volta nell’Imàlaia
da solo. Come avrei voluto avere un compagno con me! Insieme avremmo potuto
tentare qualche impresa degna di ricordo, invece di queste passeggiate... Forse
una volta verrà il giorno felice? I portatori mi raggiunsero con la pioggia.
Non facemmo neppure a tempo ad alzar la tenda, ci bagnammo tutti prima di
poterci riparare.
Come
trascorreste il tempo fino all’ora di dormire?
Si
chiacchierò un poco, facemmo del tè, lo bevemmo, mangiammo qualcosa. Poi mi
misi a leggere...
Naturalmente
un’opera sublime, in carattere coi luoghi: Dante, Milarepa o la Bhagavad Gita,
vero?
Niente
affatto. Scusatemi, signore, ma sarebbe di cattivo gusto. Quando si vive nel
sublime, quando si respira il sublime, si guarda il sublime, si pesta il
sublime, si tocca il sublime, oh no, signore, allora è dolce e consolante
entrare nella tenda e rifugiarsi dal sublime. E’ un cercar riposo per gli
occhi, pei sensi tutti, e per la mente. Nel caso mio questa difesa dal sublime
era costituita da un romanzo di Trollope, capitatomi non so come fra le mani. Pacifico
e solido romanzo inglese dell’ottocento, quadrato come un mobile e dal sapore
di zuppa casalinga. Duecento pagine fino al primo timido bacio, altre cento
fino al matrimonio e la fine. Intanto si ragiona di parrocchie e di zie, di
ninnoli e di mammole. Come sono dolci queste cose in una tenda a cinquemila sull’Imàlaia!
Fuori i silenzi smisurati dell’Asia e rocche sovrane di ghiaccio che nascondono
le stelle ,dentro un prezioso angolo di provincia ed immagini delle consolanti cose
di cattivo gusto che si conservano nei salotti polverosi...
Cantaste la
mattina dopo svegliandovi?
Speravo di
cantare! Cantare col sole, con lo scintillio dei ghiacciai vicini e lontani;
salutare il Cangenzongà, il Pauhunri, il Cangenghiau... Invece nebbia e
bigiore. Per qualche momento si poterono vedere i dintorni immediati del passo;
selvaggi luoghi da urli o martirii. Pietre, massi, ghiaccio e lame sbilenche di
montagne in bilico. Geologia in divenire. Ossa del mondo scarnite dall’odio degli
elementi. Rovina e in abissarsi di scorie. Luna.
Così
lasciaste il campo senza tristezza, m'immagino...
Partimmo
prestissimo, Si-thar ed io, per salire una cima a nord del passo. Dopo poco ci
trovammo su un ghiacciaio ripido e con parecchi crepacci; poi su, su, ancora
nella nebbia, nel vento, per un ripido pendio nevoso che non finiva mai, fino alla
vetta, una crestina a forse 5500metri.`
Qu attendeste
che le nubi si aprissero…
E.. naturalmente
non si aprirono affatto.
Così
dovemmo tornare senza aver potuto fotografare il panorama, da lì certo
meraviglioso. Oramai non restava che scendere a Lachung nella stessa giornata.
Disfacemmo le tende verso mezzogiorno e poco dopo partimmo. Giù, giù come
bauli, per quella valle che non finiva mai; giù per ghiaccio, per neve, per
morene, lungo torrenti, per prati, per boscaglie di rododendri, poi giù tra i
primi alberi, giù nella foresta, giù dalle abetaie ai primi segni di tropico,
sempre nella nebbia, sotto la pioggia, con le sanguisughe che assaltano le
caviglie, giù ancora, da 5500 a 2500, e sull’imbrunire a Lachung. Morti.
Dormire come sassi.
Fosco
MARAINI
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