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con Ordine Ingiuntivo (10)
I
viaggiatori a memoria d’uomo incontravano branchi di asini selvatici che
pascolavano – io ne ho intravisto solamente uno, schivo e lontano –, e marmotte
e lepri li osservavano innocenti a portata di mano. Negli ultimi cinquant’anni
le cose sono cambiate. Ma anche adesso, quando raggiungiamo il livello del
lago, uno stormo d’oche selvatiche vola verso di noi in un vortice d’ali che
mette i brividi, e uccelli acquatici procedono impettiti e nidificano a un tiro
di schioppo da dove piantiamo le tende, punteggiando la riva per chilometri. Da
qui, se si sta in mezzo agli uccelli, lo sguardo abbraccia l’intero lago.
All’estremità
meridionale, le creste del Gurla Mandhata digradano ancora lucenti
di neve fin lungo la riva orientale, mentre dalla parte opposta, dietro a brune
colline pedemontane ondulate, il Kailash si erge come un fungo
nel blu. Queste due vette bianche dominano il lago. Tra di esse, il vuoto
indaco del lago ha un aspetto freddo e primordiale. I tibetani lo chiamano Mapham Tso, ‘l’Ineguagliabile’, o Rinpoche, ‘il Prezioso’. La sua quiete soffocata sembra congelarlo in un
concentrato d’acqua gemmea.
Nei testi
sacri buddhisti come in quelli induisti, l’universo nasce da una simile materia
originaria.
Un vento
cosmico sbatte l’acqua, dalla quale hanno origine i vari mondi, e il dio visnu, che quasi eternamente sogna nell’oceano, crea la diversità
dall’unico con una mera prova di volontà. la geologia stessa contribuisce ad
accrescere la stranezza del lago, poiché il Manasarovar è un frammento in secca
dell’oceano Tetide, quasi del tutto prosciugato dal sollevamento dell’Himalaya.
Per gli
induisti, in particolare, il Manasarovar è coniugato misticamente
con il Kailash, alla cui sommità fallica corrisponde la
vagina delle acque scure del lago. Già nel II secolo, il poema epico Rāmāyana, descrivendo l’altopiano tibetano, situa il Kailash accanto a un grande lago oltre il quale si estende una notte
senza fine.
Il Manasarovar, dicono, fu creato dalla mente di Dio.
Esso è il
fiore della prima coscienza. In un’epoca precedente al testo sacro, un gruppo
di profeti venne qui per venerare Śiva, il dio della distruzione
e del cambiamento che medita sul Kailash. Per dare più potere alle
loro abluzioni, Brahmā, il dio originario della
creazione, generò queste acque astrali dal suo pensiero.
Il lago divenne la culla degli dèi.
Talvolta Śiva ne solca le acque in forma di cigno dorato. Nel centro del
lago, invisibili agli occhi dei comuni mortali, il re dei serpenti e il suo
popolo banchettano sull’Albero della vita, il cui frutto diventa
d’oro e cade nelle acque infondendo in esse l’immortalità. Nel VI secolo, nei Purāna classici, il Manasarovar diviene un vero e
proprio paradiso.
Dalle sue radici nel mondo inferiore dei
serpenti, l’Albero si estende nel cielo, e
il lago è animato da creature celestiali che vi si bagnano alle note di musica
serafica. Fu in queste acque pure che la madre del Buddha si immerse prima di riceverlo
nel proprio grembo; e qui il re dei serpenti insegnò l’illuminazione ai suoi
spiriti acquatici, detti lu, nel momento in cui le
tradizioni induiste e buddhiste si fusero in modo indissolubile.
Quando il Buddha e i suoi cinquecento discepoli volanti, diretti al Kailash, atterrarono sul lago, il serpente li sistemò in troni
dorati sull’acqua, dove i cigni indù già stavano cantando. Questi avvenimenti
soprannaturali hanno lasciato traccia lungo le rive del Manasarovar. Quella orientale è cosparsa di ciottoli
curiosamente pesanti, levigati come gemme.
Dietro di
noi, le miniere abbandonate nei pendii sono il segno del passaggio dei
cercatori d’oro, puniti con un’epidemia di vaiolo per avere offeso questa terra
sacra. Si dice che qui, un secolo fa, fu trovata una pepita d’oro a forma di
cane, la quale venne poi restituita alla terra per paura o devozione. le
leggende sacre hanno reso magica tutta la scarsa vita del lago. Secondo la
gente del posto, le erbe che crescono sulle sue rive sono efficaci contro tutte
le malattie, e quando i pesci percossi dalle onde sono gettati morti a riva,
viene bruciato dell’incenso per scacciare gli spiriti maligni. l’acqua del
lago, se bevuta dai moribondi, spinge l’anima in paradiso, e la sua sabbia,
inserita nella bocca di un defunto, ne impedisce la rinascita come animale.
Cammino lungo la riva in senso orario come un pellegrino.
Il sole
arde con uno splendore purificante. la sabbia è grigia e soffice sotto i piedi.
A 4500 metri si sente l’aria leggera. Il cuore batte più veloce, ma i piedi si
muovono intorpiditi sulla sabbia. le distanze, in quest’aria tersa, sono maggiori
di quanto non sembrino. Mi dirigo verso un promontorio vicino, e in capo a due ore
non l’ho ancora raggiunto. Gli oggetti sembrano più prossimi ma anche più
piccoli di quanto non siano. E poi suoni isolati – un flebile pigolio – accentuati
dal silenzio.
Lungo tutta
la battigia, tra il blu uniforme del lago e la terra gialla, folaghe e sterne
costituiscono una frangia di vita in movimento, docili nella loro santità di
riflesso. Al mio passaggio non volano mai via. Presto cammino tra intere
colonie di uccelli acquatici, quasi fossi invisibile. Gabbiani zampettano in
gruppi lungo la riva; piro-piro passeggiano dove il fondale è basso, e
pettegole punzecchiano col lungo becco il terreno molle accanto all’acqua.
Appena al largo, coppie di casarche ferruginee si lavano il piumaggio color
rame e si chiamano l’un l’altra con un dolce verso domestico di due note per
poi convergere chiocciando.
Sono
tentato di entrare con i piedi nell’acqua fin dove gli svassi maggiori se ne
stanno ormeggiati ai ramoscelli galleggianti. A dieci metri, i becchi a pugnale
e le teste dalle piume nere, spruzzate di rosso tiziano, sembrano distanti
appena un braccio. A volte si immergono di colpo o emettono un richiamo malinconico
verso il nulla. Quando giro il promontorio s’alza un vento lieve, e onde in
miniatura si infrangono sugli scogli. Proprio davanti a me, sulla punta, vi è
un cumulo di massi bianchi che luccicano in modo innaturale. In quest’aria
abbagliante mi sento stranamente euforico, irreale.
A trenta
chilometri da qui, il Gurla Mandhata rende l’acqua argentea.
Ai miei piedi ci sono lastre di pietra sistemate in posizione verticale sulle
quali sono incise preghiere. Impossibile sapere quale monaco o pellegrino abbia
realizzato l’opera. La roccia è scalpellata e nera intorno alle parole che
risaltano in un rilievo color ocra deteriorato: Om mani
padme hum,
ripetuto come un respiro profondo. Le lastre sono rivolte silenziosamente verso
il lago, o forse verso il Gurla Mandhata, dimora della locale dea
della pioggia, il quale prende il nome da un re leggendario che qui trovò la
salvezza.
Sulla
scogliera scoscesa sopra di me appaiono muri cadenti e torri diroccate di
pietre disposte in modo da lasciare dei fori. Mi arrampico su un pendio di pura
polvere. Non c’è altro che stanze in rovina e il profumo dell’artemisia.
Questi, capisco ora, sono i ruderi del Serkyi
Cherkip,
il monastero dell’Uccello dorato, dove il Buddha e i suoi discepoli scesero a venerare
il Kailash. Esso fu distrutto quarant’anni fa durante la
Rivoluzione culturale. Fino ad allora, otto piccoli monasteri, pressappoco
equidistanti, circondavano il lago come un mandala, ognuno simboleggiante un
raggio della Ruota della vita buddhista.
In tal
modo, i pellegrini che completavano il circuito del lago giravano la ruota
verso la salvazione. Sei di questi monasteri devastati sono stati restaurati,
ma in essi vi è sempre stata penuria di monaci. Al Cherkip un secolo fa la comunità
si era ridotta a un solo individuo. La mattina e la sera, questi suonava la
grande campana di bronzo sul deserto d’acqua senza che nessuno la udisse. Sono
gli induisti a tributare al lago la venerazione più profonda. la maggior parte
di essi tuttavia ha rinunciato da tempo al parikrama, il loro giro rituale.
Forse
perché il Manasarovar nacque dalla mente di Brahmā, il cui paradiso è transitorio, gli induisti preferiscono
cercare la liberazione finale nel Kailash, la dimora di Śiva, dal momento che il culto di quest’ultimo li conduce, attraverso
le reincarnazioni, alla pace eterna. Ma si bagnano ancora con fervore nelle
acque basse del lago per purificarsi dai peccati commessi nelle vite passate.
Oltre le
rovine mi imbatto in un muro mani lungo trenta metri che corona il promontorio
sul lago. Le pietre d’ardesia di cui si compone sono disposte a strati
disordinati su una base di rocce. Alcune delle preghiere sono incise in modo
elaborato. Nemmeno le guardie rosse, a quanto pare, erano riuscite a distruggere
del tutto questa massa interminabile, e anni dopo i monaci avevano salvato le
pietre, mettendo insieme quelle intere e quelle spaccate, e poi se n’erano
andati via.
Ora le
pietre si estendono stranamente nel silenzio.
Sono di
un’ardesia grigio-azzurra, grigio-verde, più liscia di una lavagna. Sotto le
loro voci spezzate, le onde ora sbattono con più violenza sugli scogli, e il
vento si fa più forte. Quando raggiungo i massi bianchi sulla punta, mi accorgo
che non sono rocce ma collinette di ghiaccio luccicante. Ne tocco la superficie
gelida, stupito. In cielo arde il sole di giugno, eppure sono dure come
acciaio. Sembrano provenire da un’altra era. Mi ero dimenticato che a maggio
l’intero lago è ancora un campo di battaglia di lastre di ghiaccio che si
scontrano.
In inverno,
il livello dell’acqua si abbassa sotto un guscio ghiacciato che periodicamente
crolla sotto il proprio peso. Poi i banchi sconquassati ghiacciano di nuovo
finché la superficie non si frantuma in una geometria turchese di creste alte
due metri. A terra – scrisse lo swami indiano Pranavananda che studiò il lago in inverno
settant’anni fa – tempeste di neve accecanti seppelliscono greggi e mandrie, e
gli asini selvatici muoiono in piedi sotto i cumuli. Nei fondali bassi del
lago, centinaia di pesci restano imprigionati nel ghiaccio trasparente, e
perfino i cigni periscono con la loro prole, schiacciati tra i banchi che si
spaccano.
Pochi
giorni prima che il ghiaccio si sciolga, il lago è un’esplosione di
scricchiolii e di boati, mescolati a suoni simili a grida umane e a strumenti
musicali. I lastroni e i prismi di ghiaccio si scontrano sollevandosi, e sulla
superficie si aprono crepe profonde due metri. vicino a riva, blocchi di
ghiaccio grandi fino a un metro cubo e mezzo vengono scagliati sulla terraferma
a diversi metri dall’acqua, ancora eretti e torreggianti, come quelli su questo
promontorio eroso, più alti di me e misteriosamente integri.
‘Il mondo scompare. È questa la nostra pace’.
Nel cortile
del suo tempio a Kathmandu, l’affabile monaco Tashi, che studiava il tantra da tre anni, si rifiutava di
considerarlo una filosofia, e men che meno una fede. ‘Non abbiamo un Dio’. Gli dèi erano solo guide verso l’illuminazione,
che li avrebbe cancellati. ‘Penso che sia una scienza’ cercò di spiegarmi
allargando le braccia, impotente. ‘Chiunque può praticarla. Anche tu, credo’.
Cercai di
figurarmi quest’eventualità, ma nella mente mi affioravano parole sbagliate:
rifiuto della vita, autoipnosi, annullamento della tanto amata differenza.
Morte prematura. Ma il tantrismo era una via da vivere, disse Tashi, non una dottrina da imparare. Non potevi conoscerlo finché
non lo sperimentavi. Anche se a quel punto, forse, era troppo tardi per tornare
indietro.
‘In questa meditazione’ mi spiegò, ‘trovi
soprattutto una grande forza e la pace finale, la pace che tutti noi cerchiamo.
Una volta che hai cominciato, certo, sai che sarebbe sciocco rinunciare.
Avresti troppo da perdere… non ti resterebbe nulla’.
Presto Tashi sarebbe andato in ritiro per tre anni, e non vedeva l’ora.
‘Potrei tornare nel mio villaggio in Bhutan e trovare una
capanna lì, ma la mia famiglia non mi lascerebbe in pace’.
Rise.
‘Dovrei chiedere ai miei di venire a trovarmi solo una volta
al mese, e non capirebbero…’.
Sicché non sapeva
dove sarebbe andato – dipendeva dal suo maestro – e Tashi si figurava questo
maestro più del proprio yi-dam, immaginando che l’uomo
fosse un Buddha.
‘Da noi funziona così. Anche se il tuo maestro è mediocre, lo
veneri ugualmente’.
Dal tempio
accanto, il fremito della preghiera e il rumore sordo dei tamburi riverberano
come un cuore potente. In confronto alle melodie ben formate del canto
cristiano, questo mormorio ritmico e profondo non pareva affatto una preghiera,
ma un’emanazione ultraterrena. Poi giunsero i lamenti dei corni lunghi tre
metri, come se una grossa bestia si agitasse sottoterra.
D’un tratto
Tashi disse: ‘Se potessi
venire con te al Kailash, vorrei fermarmi lì. In quel luogo sacro. Per sempre.
In solitudine’.
Gli chiesi allora se vi fossero ancora eremiti sul Kailash, ma Tashi non lo sapeva. ‘Ma tu ci andrai’ disse, ‘e ti farà bene. Ti purificherà la mente, ti darà forza.
Dedicherai il tuo pellegrinaggio a quelli che sono morti… e loro ne ricaveranno
meriti’.
‘Sul serio?’ la mia voce era aspra, guardinga rispetto a
ogni falsa consolazione.
‘È possibile aiutare i morti?’.
Una fede da
tempo abbandonata ebbe un sussulto dentro di me. Quand’ero bambino,
l’anglicanesimo non offriva messe né intercessioni per i defunti. I morti erano
fuori portata e non potevano essere confortati. Ma per Tashi, l’implacabilità del karma era stata alleviata da tradizioni
più benevole.
‘Sì, è possibile aiutarli dedicando loro buone
azioni. Se fa un pellegrinaggio del genere senza niente nella mente, sarà un
viaggio vano’.
Spesso Tashi appariva molto semplice, molto pratico. Avevo l’impressione che
tollerasse le contraddizioni meglio di me. O forse per lui non c’era nessuna
contraddizione. A volte, divertito da qualcosa, si grattava la testa – resa
lucida come un elmetto dalla tonsura –, e le dita facevano un rumore come di
carta che si strappava. Dopo un po’, due mucche entrarono nel cortile da un
terreno vicino, e lui si allontanò per convincerle con pazienza ad andarsene.
Dalla
grotta dell’eremita sopra il Manasarovar, vedo uno stormo di oche
selvatiche volare silenziosamente ad altezza d’occhio verso est. Scendo di nuovo
sul litorale, dove il Kailash si erge privo di nubi a
nord. Fluttuante sull’orizzonte d’acciaio del lago, il monte ha fatto da guida
a generazioni di persone che hanno rinunciato alla vita mondana. Secondo i
buddhisti ha un guardiano furioso, Demchog, che vive in un palazzo
di ghiaccio sulla vetta. Esso è raffigurato come un demone violento con molte
braccia e una corona di teschi, che brandisce un tridente e un tamburo, al
quale è avvinghiata la consorte Phagmo. Questa aggressiva
sentinella tuttavia spaventa solo gli ignoranti. Non è un dio della montagna
indigeno ma una variante tantrica di Śiva, e il suo mandala,
completo di sessantadue dee che lo assistono, è il Kailash stesso.
Dunque il dio sfuma nella propria montagna, e la
montagna lo possiede.
(C. Thubron, Verso la montagna sacra)
(C. Thubron, Verso la montagna sacra)
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