giuliano

domenica 5 maggio 2013

VITA DURA (4)













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vita dura (2)

vita dura (3)









Paragonando il racconto qui registrato con la sua forma
originaria che trovasi in 'Vita Dura', mi sento incapace di
spiegare esattamente e chiaramente il motivo per cui l'uso
può essere 'recitato' con successo davanti a un pubblico e
l'altra no; una ragione c'è, ma è troppo sottile per esser tra-
smessa dall'impacciato veicolo della parola; la sento, ma
non riesco ad esprimerla; elude come un odore, pungente,
invadente, ma che sfugge all'analisi.
Mi arrendo.
So solamente che l'una versione si può recitare e l'altra no.
Per recitare intendo, ovviamente il narrare a memoria; nes-
suna delle due versioni può leggersi afficacemente dal libro.




C'è gran copia di buone ragioni per cui avviene così, ma
una basterebbe, forse; leggendo un libro voi narrate il rac-
conto di un altro e di seconda mano; siete un imitatore...,
non la vera persona; siete qualche cosa di artificioso, non
di reale; invece, se raccontate in assenza del libro assorbi-
te il personaggio e non tardate a immedesimarvi con esso,
come appunto succede agli attori.
Il più grande attore non riuscirebbe ad entusiasmare il
suo pubblico con un libro in mano; la lettura non può ren-
dere le sfumature sottili che può la recitazione. Mi riferi-




sco a quelle studiate finzioni che paiono impulsi momen-
tanei e che riescono più efficaci: quali, le finte esitazioni
prima della parola adatta, le finte pause involontarie, i
finti commenti casuali, i finti impacci, le enfasi apparen-
temente involontarie date alla parola sbagliata con na-
scosta intenzione: questi e tutti gli altri illusori giochi d'-
ombre che prestano al racconto la piacevole naturalezza
 di una narrazione improvvisata possono esser tentati,
e sono tentati, da chi legge da un libro, ma si rivelano
chiaramente degli artifici, e, se il pubblico ne ammira l'-
ingegnosa abilità, essi fanno appello alla sua mente ma
non raggiungono il suo cuore; e il successo del lettore
è lungi dall'essere completo.




Quando uno legge da un libro sul podio non tarda ad
accorgersi che nella sua batteria di espedienti vi è un'-
arma potente da cui egli non riesce ad ottenere un ef-
fetto proporzionale al calibro: è la 'pausa', quel sugge-
stivo eloquente silenzio, quel silenzio geometricamen-
te progressivo che spesso ottiene l'effetto desiderato
là dove nessuna combinazione di parole, per quanto
felice, riesce a raggiungerlo.
La pausa non serve gran che a chi legge da un libro,
perché egli non sa quale dovrebbe esserne l'esatta
durata; non è lui che deve determinare la lunghezza,
ma per lui deve farlo il pubblico.




Egli deve leggere sul viso del pubblico il momento
in cui la pausa ha raggiunto l'esatta misura, ma i
suoi occhi non si rivolgono al pubblico ma al libro,
e quindi bisogna che cerchi di indovinare la misura
della pausa; non riuscirà a indovinare esattamente,
e solo l'esattezza, l'assoluta esattezza può servire al-
lo scopo.
Chi recita e fa a meno del libro ha tutti i vantaggi;
quando egli giunge a una frase familiare, pronuncia-
ta ogni sera per un centinaio di sere - una frase pre-
ceduta o seguita da una pausa - i visi del pubblico
gli diranno quando dovrà terminare la pausa.




Per un pubblico la pausa sarà breve, per un altro
un po' più lunga, per un altro un tantino più lunga;
ed egli dovrà variarne la durata per conformarsi
alle lievi differenze fra un pubblico e l'altro.
Questi divari sono talmente leggeri e delicati da
paragonarsi quasi agl'infinitesimi ottenuti dall'in-
gegnosa macchina di Pratt e Whitney, capace di
misurare un quinto di milionesimo di centimetro.
Un pubblico è il gemello di quella macchina; sa mi-
surare una pausa fino a tale impercettibile frazione.




Io con la pausa giocavo come altri bambini si
trastullano coi balocchi. Fra i racconti che narra-
no quando girai il mondo a beneficio dei credito-
ri del signor Webster, ne comprendevano tre o
quattro nei quali le pause avevano una parte im-
portante, e io solevo allungarle o accorciarle se-
condo che richiedeva il caso, traendone gran pia-
cere se la pausa era esattamente misurata e un
certo disagio quando non lo era.
Nel racconto di spiriti del 'Braccio d'oro', di ori-
gine negra, una di queste pause cade proprio pri-
ma della frase finale.




Tutte le volte che davo alla pausa l'esatta lunghez-
za, la frase che seguiva otteneva senz'altro un sod-
disfacente effetto di sorpresa, ma, se la lunghezza
sgarrava del quinto di milionesimo di centimetro,
in quell'infinitesima frazione il pubblico aveva avu-
to il tempo di destarsi dal profondo raccoglimento
indotto dall'orrifico racconto e di prevederne il mo-
mento culminante e di prepararsi ad esso prima che
che irrompesse; e la frase cadeva senza effetto.
Nel 'Vecchio caprone di suo nonno' vi è una pausa;
segue una certa frase e mia moglie e Clara, quando
compivamo il giro del mondo, si infliggevano ogni
sera l'intera mia recita, senza che ve ne fosse ne-
cessità alcuna, per guardare il pubblico quando
giungeva quella pausa; dal suo effetto pensavano
di essere in grado di misurare con certezza il gra-
do di intelligenza del pubblico.




La verità la sapevo io, ma a dirla non avevo inte-
resse.
Quando la pausa era giusta l'effetto non mancava;
quando la pausa sgarrava in lunghezza di un quin-
to di milionesimo di centimetro il riso era blando,
mai uno scroscio.
Il passo del 'Vecchio caprone di suo nonno' è quel-
lo in cui si discute se la caduta dell'Irlandese sul
forestiero sia un caso o un evento provvidenziale.
Se fu un evento provvidenziale, e se il suo unico
scopo era di salvare l'Irlandese, perché fu necessa-
rio il sacrificio dello straniero?
'C'era il cane. Perché non cadde sul cane?
Perché non fu designato il cane?
Perché il cane non l'avrebbe visto venir giù'.




Quest'ultima era la frase attesa dalla mia famiglia.
Dopo di essa una pausa era necessaria assolutamen-
te, con qualsiasi pubblico, perché nessuno, per intel-
ligente che sia, può riuscire in un istante a preparare
la mente ad una logica nuova e poco familiare - ep-
pure per qualche momento apparentemente plausibi-
le - che riconosce in un cane uno strumento troppo
poco osservante del controllo divino e troppo soler-
te nella ricerca del proprio interesse per potersene
fidare in una circostanza che richiede sacrificio nel-
l'interesse altrui, pur quando il comando proviene
dall'alto.
(Twain, Autobiografia)















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