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Passeggiata (9/10)
La democrazia parte dal presupposto che tutti gli uomini sono creati
uguali; il capitalismo si fonda sulla premessa che la concorrenza produce
inevitabilmente disuguaglianza, in funzione delle differenze di talento, spirito
imprenditoriale e fortuna. I due sistemi di valori sono sati a lungo le
filosofie dominanti in due diverse sfere della vita.
La ‘faglia’ che segna il confine tra capitalismo e democrazia
provocò non pochi scossoni nei primi anni della repubblica americana. Sotto la
superficie, in profondità, si andavano accumulando pressioni tettoniche dal
potenziale dirompente. La schiavitù, il peccato originale dell’America, provocò
una collisione tra i profili rocciosi di due idee che spingevano l’una contro
l’altra con ugual densità: la ‘proprietà’ e la ‘libertà’. Ma negli ultimi
decenni del Diciottesimo secolo queste due placche tettoniche si fusero in un
unico sostrato roccioso e uniforme, sul quale la repubblica americana poté
infine poggiarsi.
A causare tensione, inizialmente, fu la menzione della
proprietà terriera tra i requisiti per il diritto di voto. In una lettera del
1776 John
Adams scrisse che ‘quella stessa linea di pensiero’ che spingeva per
abrogare il requisito della proprietà avrebbe portato ad avanzare altre
richieste: ‘Vi saranno nuove
rivendicazioni; le donne chiederanno il diritto di voto; i giovani penseranno
che i loro diritti non siano garantiti a sufficienza; e perfino i nullatenenti
chiederanno di aver voce in capitolo, proprio come chiunque altro, in tutte le
decisioni pubbliche. Tale linea di pensiero tende a confondere e ad annullare
qualsiasi distinzione, appiattendo tutte le classi su un unico livello’. John
Adams aveva ragione a credere che vi sarebbero state altre rivendicazioni; ma
il suo tentativo di opporvisi in via preventiva era mal riposto. Inoltre, la
logica secondo la quale Adams e altri volevano fare della proprietà terriera un
requisito per il diritto di voto era a suo modo debole. Di conseguenza, il
profondo desiderio di libertà rinvigorito dalla conquista dell’indipendenza
portò inevitabilmente a una frattura tra questi due concetti.
All’inizio i padri fondatori apprezzarono ed evidenziarono il ruolo che
la proprietà e la ricchezza avrebbero potuto svolgere nel promuovere la libertà
e l’autogoverno, assicurando una base per l’indipendenza di giudizio da parte
dei cittadini. La ricchezza di per se non era considerata un male. Anzi,
l’opulenza fu ritenuta (ed ancor oggi in
quanto viene pur celebrata nel regresso e cotal paradosso di cui si
manifesta l’inaspettata celebrazione nonché oggettiva contraddizione se pur
votata ed acclamata là ove tanta terra regna…), entro limiti ragionevoli,
una forza positiva per la conquista della libertà politica (la quale nei lumi di codesta dialettica
sembra non più albergare nella volontà dello schiavo elevato a ragion di stato…).
Inoltre, secondo il filone della Riforma protestante particolarmente influente
in America, la prosperità economica poteva essere interpretata come segno di
legittimo proprietario tra i pochi fortunati destinati dal Signore alla
salvezza eterna.
Quando i rivoluzionari americani si ribellarono (non meno di adesso….)
contro la monarchia inglese, riconobbero nelle rispettive proprietà (minacciate
da fattori esterni…) il segnale di una capacità autonoma di pensiero e un
incentivo ad unire i propri sforzi contro un nemico comune (provate a leggere
talune massime del nuovo ‘rivoluzionario’ in carica….).
I rivoluzionari
temevano, cioè, l’imposizione di tributi iniqui e la minaccia posta dalla
Corona britannica alla loro proprietà quasi quanto il rischio di venire privati
della libertà stessa. Quindi l’ ‘aristocrazia terriera’ delle
colonie (donde la massima espressione del
nuovo voto oggi celebrato…- mi dicano anche dal Klan o Klus acclamato - pur lo
‘schiavo’ non certo un feudatario… Comunque proseguiamo….) discendeva,
dopotutto, dai nobili e dai mercanti che avevano stilato la Magna Charta cinquecento anni prima;
anche allora l’indipendenza economica dal sovrano aveva suscitato il desiderio
di una maggiore libertà politica. Il requisito della proprietà, quale
condizione per il diritto di voto era, in un certo senso, un’ulteriore
manifestazione della differenza che i padri fondatori nutrivano verso la
concentrazione del potere. Un individuo nullatenente era quasi certamente
dipendente da altri e dunque alla loro mercé; di conseguenza, non poteva
esprimere il proprio voto sulla base di un ragionamento non inquinato
dall’esercizio del potere economico sulla sua capacità di discernimento.
Tali considerazioni erano dettate dall’interpretazione che i padri
fondatori davano del processo che aveva portato all’affermazione della libertà
politica alla fine del Medioevo: gli individui che avevano accumulato
sufficiente proprietà per sentirsi indipendenti dalla monarchia avevano
acquisito tale chiarezza di vedute da lasciarsi guidare dalla luce della
ragione. I padri fondatori ritenevano dunque che la proprietà terriera fosse un
indicatore, per quanto imperfetto, di competenza nei fatti del mondo e di
razionalità di pensiero; proprio le qualità che si vorrebbero presenti in una
confederazione di pensatori indipendenti, il cui discernimento collettivo
dovrebbe formare la base dell’autogoverno.
Tuttavia la logica (della ragione
e non solo della democrazia almeno non si voglia velatamente istaurare un altro
e diverso principio, giacché rimembro per i pochi approdati presso cotal
disquisizione, che il soggetto da cui estrapolo cotal ‘verbo’ e da me scelto
non solo per il coraggio ecologico, dovrebbe esser stato celebrato vincitore
nonché voluto presidente se i principi da lui nominati e adottati, quindi ne
deduciamo, in onor della verità, che è pur vero che la democrazia celebra fasti
differenti alleati ad oscuri precedenti nel paradosso della propria
stratigrafica memoria… e non solo circa la proprietà citata…) portò
inevitabilmente ad abbandonare il requisito della proprietà quale elemento
discriminate per il diritto di voto (ed azzardo un altro paragone di stato,
giacché nell’annunciare ogni abbattimento di ‘riforme di assistenza’ nonché erigere
mura a difesa della propria ed altrui terra significa voler sovvertire il
principio di una corretta evoluzione, da cui ed in cui, il ‘progressivo’
annulla la ‘somma’ dando luogo e ragione di certa inconsistenza quanto fin qui
edificato e poi rinnegato… La ‘ragione’ e con essa l’‘evoluzione’ nella quale e
in motivo di questa si differenzia ponendola a riguardo [così come lo Spirito -
in difetto o in ragione della materia - prigioniero di un alveare donde molto
miele non crea la dovuta e necessaria dolcezza per l’amaro della vita], procede
non solo nella selezione ma a miglioramento: ad un graduale e costante
miglioramento per ogni specie detta. Ed ogni specie convenuta dacché in questa
sede parliamo non certo di un solo impero donde deriva il futuro destino
‘privato del proprio fidato somaro’, ma due ove l’alveare nell’acclamata
evoluzione annunciata risolve(va) l’enunciato meccanicistico donde la ragione
privata e purgata di ogni qual si voglia decoro nell’evoluzione detta e non
solo nella privacy violata della pazienta assistita e rinfrancata allo stimolo
della propria ed altrui - futura - intelligenza…).
(Al Gore, L’assalto della ragione; con
brevi ed indesiderati commenti…)
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