giuliano

mercoledì 13 gennaio 2021

LA POLITICA DELLA RICCHEZZA (8)











































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La democrazia parte dal presupposto che tutti gli uomini sono creati uguali; il capitalismo si fonda sulla premessa che la concorrenza produce inevitabilmente disuguaglianza, in funzione delle differenze di talento, spirito imprenditoriale e fortuna. I due sistemi di valori sono sati a lungo le filosofie dominanti in due diverse sfere della vita.
La ‘faglia’ che segna il confine tra capitalismo e democrazia provocò non pochi scossoni nei primi anni della repubblica americana. Sotto la superficie, in profondità, si andavano accumulando pressioni tettoniche dal potenziale dirompente. La schiavitù, il peccato originale dell’America, provocò una collisione tra i profili rocciosi di due idee che spingevano l’una contro l’altra con ugual densità: la ‘proprietà’ e la ‘libertà’. Ma negli ultimi decenni del Diciottesimo secolo queste due placche tettoniche si fusero in un unico sostrato roccioso e uniforme, sul quale la repubblica americana poté infine poggiarsi. 
A causare tensione, inizialmente, fu la menzione della proprietà terriera tra i requisiti per il diritto di voto. In una lettera del 1776 John Adams scrisse che ‘quella stessa linea di pensiero’ che spingeva per abrogare il requisito della proprietà avrebbe portato ad avanzare altre richieste: ‘Vi saranno nuove rivendicazioni; le donne chiederanno il diritto di voto; i giovani penseranno che i loro diritti non siano garantiti a sufficienza; e perfino i nullatenenti chiederanno di aver voce in capitolo, proprio come chiunque altro, in tutte le decisioni pubbliche. Tale linea di pensiero tende a confondere e ad annullare qualsiasi distinzione, appiattendo tutte le classi su un unico livello’. John Adams aveva ragione a credere che vi sarebbero state altre rivendicazioni; ma il suo tentativo di opporvisi in via preventiva era mal riposto. Inoltre, la logica secondo la quale Adams e altri volevano fare della proprietà terriera un requisito per il diritto di voto era a suo modo debole. Di conseguenza, il profondo desiderio di libertà rinvigorito dalla conquista dell’indipendenza portò inevitabilmente a una frattura tra questi due concetti.




All’inizio i padri fondatori apprezzarono ed evidenziarono il ruolo che la proprietà e la ricchezza avrebbero potuto svolgere nel promuovere la libertà e l’autogoverno, assicurando una base per l’indipendenza di giudizio da parte dei cittadini. La ricchezza di per se non era considerata un male. Anzi, l’opulenza fu ritenuta (ed ancor oggi in quanto viene pur celebrata nel regresso e cotal paradosso di cui si manifesta l’inaspettata celebrazione nonché oggettiva contraddizione se pur votata ed acclamata là ove tanta terra regna…), entro limiti ragionevoli, una forza positiva per la conquista della libertà politica (la quale nei lumi di codesta dialettica sembra non più albergare nella volontà dello schiavo elevato a ragion di stato…). Inoltre, secondo il filone della Riforma protestante particolarmente influente in America, la prosperità economica poteva essere interpretata come segno di legittimo proprietario tra i pochi fortunati destinati dal Signore alla salvezza eterna.
Quando i rivoluzionari americani si ribellarono (non meno di adesso….) contro la monarchia inglese, riconobbero nelle rispettive proprietà (minacciate da fattori esterni…) il segnale di una capacità autonoma di pensiero e un incentivo ad unire i propri sforzi contro un nemico comune (provate a leggere talune massime del nuovo ‘rivoluzionario’ in carica….). 




I rivoluzionari temevano, cioè, l’imposizione di tributi iniqui e la minaccia posta dalla Corona britannica alla loro proprietà quasi quanto il rischio di venire privati della libertà stessa. Quindi l’ ‘aristocrazia terriera’ delle colonie (donde la massima espressione del nuovo voto oggi celebrato…- mi dicano anche dal Klan o Klus acclamato - pur lo ‘schiavo’ non certo un feudatario… Comunque proseguiamo….) discendeva, dopotutto, dai nobili e dai mercanti che avevano stilato la Magna Charta cinquecento anni prima; anche allora l’indipendenza economica dal sovrano aveva suscitato il desiderio di una maggiore libertà politica. Il requisito della proprietà, quale condizione per il diritto di voto era, in un certo senso, un’ulteriore manifestazione della differenza che i padri fondatori nutrivano verso la concentrazione del potere. Un individuo nullatenente era quasi certamente dipendente da altri e dunque alla loro mercé; di conseguenza, non poteva esprimere il proprio voto sulla base di un ragionamento non inquinato dall’esercizio del potere economico sulla sua capacità di discernimento.
Tali considerazioni erano dettate dall’interpretazione che i padri fondatori davano del processo che aveva portato all’affermazione della libertà politica alla fine del Medioevo: gli individui che avevano accumulato sufficiente proprietà per sentirsi indipendenti dalla monarchia avevano acquisito tale chiarezza di vedute da lasciarsi guidare dalla luce della ragione. I padri fondatori ritenevano dunque che la proprietà terriera fosse un indicatore, per quanto imperfetto, di competenza nei fatti del mondo e di razionalità di pensiero; proprio le qualità che si vorrebbero presenti in una confederazione di pensatori indipendenti, il cui discernimento collettivo dovrebbe formare la base dell’autogoverno.




Tuttavia la logica (della ragione e non solo della democrazia almeno non si voglia velatamente istaurare un altro e diverso principio, giacché rimembro per i pochi approdati presso cotal disquisizione, che il soggetto da cui estrapolo cotal ‘verbo’ e da me scelto non solo per il coraggio ecologico, dovrebbe esser stato celebrato vincitore nonché voluto presidente se i principi da lui nominati e adottati, quindi ne deduciamo, in onor della verità, che è pur vero che la democrazia celebra fasti differenti alleati ad oscuri precedenti nel paradosso della propria stratigrafica memoria… e non solo circa la proprietà citata…) portò inevitabilmente ad abbandonare il requisito della proprietà quale elemento discriminate per il diritto di voto (ed azzardo un altro paragone di stato, giacché nell’annunciare ogni abbattimento di ‘riforme di assistenza’ nonché erigere mura a difesa della propria ed altrui terra significa voler sovvertire il principio di una corretta evoluzione, da cui ed in cui, il ‘progressivo’ annulla la ‘somma’ dando luogo e ragione di certa inconsistenza quanto fin qui edificato e poi rinnegato… La ‘ragione’ e con essa l’‘evoluzione’ nella quale e in motivo di questa si differenzia ponendola a riguardo [così come lo Spirito - in difetto o in ragione della materia - prigioniero di un alveare donde molto miele non crea la dovuta e necessaria dolcezza per l’amaro della vita], procede non solo nella selezione ma a miglioramento: ad un graduale e costante miglioramento per ogni specie detta. Ed ogni specie convenuta dacché in questa sede parliamo non certo di un solo impero donde deriva il futuro destino ‘privato del proprio fidato somaro’, ma due ove l’alveare nell’acclamata evoluzione annunciata risolve(va) l’enunciato meccanicistico donde la ragione privata e purgata di ogni qual si voglia decoro nell’evoluzione detta e non solo nella privacy violata della pazienta assistita e rinfrancata allo stimolo della propria ed altrui - futura - intelligenza…).


(Al Gore, L’assalto della ragione; con brevi ed indesiderati commenti…)















  

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