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Prosegue con la visione...:
Dell'intero secondo editoriale per e con The Masses...
‘Non sono filosofi. Non sono psicologi. Vendono
banner pubblicitari’. Non è inutile. Ma non è poesia. Tuttavia, deve essere
così?
‘Fai ciò che ami e non lavorerai mai un giorno in
vita tua’
è apparso ovunque come slogan sostenibile!
Negli anni diciotto-venti e trenta, dei primi del
Secolo, il matematico francese Gaspard-Gustave de Coriolis, studiando l’effetto
prodotto quando, ad esempio, una palla da biliardo colpisce un’altra, usò la
parola “travail”. Gli sperimentatori iniziarono presto ad applicare l’equivalente
inglese, di “work”, per descrivere, diciamo, cosa fa un motore a vapore quando
converte la pressione del vapore nel movimento che fa funzionare una macchina.
Alla fine del diciannovesimo secolo in via di
industrializzazione, il lavoro era generalmente diventato il significato del Tempo
e degli sforzi che le persone dedicano al lavoro richiesto per soddisfare i
loro bisogni. Significava sempre di più lo sforzo che gli uomini dedicano,
lavorando in cambio di denaro, per provvedere ai bisogni delle loro famiglie.
Questa definizione emergente fa parte della Storia
di come il lavoro non retribuito e spesso invisibile che le donne svolgono, a
casa, è stato chiamato qualcosa di diverso dal lavoro. Anche un altro tipo di
scissione analitica ha messo radici tra il lavoro e quello che è stato chiamato
mestiere….
In “A Deep History, from the Stone Age to the Age
of Robots” (Penguin Press), l’antropologo sudafricano James Suzman, uno
specialista dei popoli Khoisan, contesta la definizione economica di lavoro. Il
lavoro di una cultura è il tempo libero di un’altra; i bisogni di una persona
sono, per un’altra gente, semplici desideri.
‘Gli uomini Hazda sembrano molto più interessati
ai giochi d’azzardo che alle possibilità di gioco’,
…ha scherzato l’antropologo Marshall Sahlins sui
cacciatori-raccoglitori africani, che ha chiamato ‘la ricca società originale’.
Se gli esseri umani sono in grado di passare meno
tempo a lavorare rispetto ad altri primati, perché così tante persone ora
lavorano sodo come i gorilla?
La risposta di Suzman è allo stesso tempo
antropologica e storica, e ha a che fare con l’agricoltura.
‘Per il 95 per cento della storia della nostra specie’,
…scrive Suzman,
‘il lavoro non ha occupato nulla di simile al
posto sacro nella vita delle persone che occupa ora’.
Secondo Suzman,
‘fino alla rivoluzione industriale, qualsiasi
guadagno in termini di produttività che le popolazioni agricole generavano come
risultato del lavoro più duro, dell’adozione di nuove tecnologie, tecniche o
colture o dell’acquisizione di nuovi terreni erano sempre presto divorati da popolazioni
che crebbero rapidamente in un elevato numero che non poteva essere sostenuto’.
Più gli agricoltori lavoravano, più duramente
dovevano lavorare.
L’idea che sia virtuoso trascorrere più tempo
lavorando è stata incarnata dalla figura del contadino yeoman, un piccolo
contadino che possedeva la propria terra e comprendeva il duro lavoro, nella
formulazione di Benjamin Franklin, come "la via per la ricchezza".
Poi è arrivata l’ascesa della fabbrica.
(The New Yorker)
Forse la Verità non dedotta neppure ben interpretata e applicata circa l’uomo e la propria Natura; fors’anche volutamente ignorata, emarginata, visto che una determinata ciclicità o costante periodicità ripercorre le soglie del disquisito ed oltre modo non del tutto ben compreso, giacché se così non fosse avremo una determinata e più costante certezza evolutiva e non più frattura. Così come il suo compimento nella sociale ciclicità rilevata e argomentata come valore non raggiunto ed altresì osservato nei propri ed altrui contesti storici presumibilmente risolti nell’atto formale, appunto, della scrittura entro i termini della presunta Conoscenza (come un matematico il quale deduce ed inoltra la propria formula… circa il Tempo detto)…
Innanzitutto
mi sia concessa una importante e non certo eretica, bensì ortodossa affermazione
nell’ambito in cui ciò, tutto ciò disquisito compreso il Lavoro. E con questo il
prodotto, la quantità e la qualità della vita, circa il contesto della propria
indiscutibile progressione in cui come abbiamo letto, e non a caso, epoche
apparentemente distanti fra loro, in realtà tendono a sovrapporsi, e l’occhio distingue
percepisce differenzia e scompone, con notevole confusione, le vere frazioni e
termini, sia inerenti al Tempo e la matematica che sovrintende, o vorrebbe circa
lo stesso.
Abbiamo
avuto spesso occasione di far osservare che la maggior parte delle scienze
profane, le sole che i moderni conoscano o che anzi ritengano possibili, non
rappresentano in realtà che semplici residui snaturati delle antiche scienze
tradizionali (compresa ed ovviamente la scrittura…), nel senso che la parte
infima di queste, non più messa in relazione con i suoi princìpi, e perduto
quindi il suo vero significato originario, ha finito per avere uno sviluppo
indipendente ed essere considerata una conoscenza bastante a se stessa.
Sotto
questo aspetto la moderna matematica non fa eccezione, se la si paragona a quel
che erano per gli antichi la scienza dei numeri e la geometria; e quando
parliamo degli antichi, bisogna comprendervi anche l’antichità ‘classica’, come
qualsiasi studio delle teorie pitagoriche
e neoplatoniche (da cui determinati principi dottrinali detti e ancora da
definire… per chi digiuno di principi formali circa ugual Storia…), è sufficiente
a dimostrare, o almeno dovrebbe esserlo, se non si dovesse fare i conti con la
straordinaria incomprensione di coloro che oggi stesso pretendono di intrepretarle
e con ugual algoritmo controllare un più alto contesto spirituale, per codificarne
il Tempo detto…
I
matematici (così come taluni scrittori…) nell’epoca moderna, sembrano essere
giunti ad ignorare che cosa sia veramente il ‘numero’, perché riducono tutta la
loro scienza al ‘calcolo’ (come un buon vestito in seno ad un corpo nudo alla
conoscenza dei nuovi fatti argomentati circa lo spirito), che per loro è un
semplice insieme di procedimenti più o meno artificiali, il che in definitiva
equivale a dire, che sostituiscono il numero con la cifra; del resto, questa
confusione del numero con la cifra è oggigiorno talmente diffusa che la si
potrebbe ritrovare a ogni momento fin nelle espressioni del linguaggio
corrente.
Ora, la
cifra (con cui tra l’altro ognuno misura il proprio compenso fra lo zero posto
e l’elevato dell’altrui crescendo e sottratto alla natura…) non è in realtà
niente di più che il vestito del numero.
Non diciamo
nemmeno il corpo, poiché è semmai la forma geometrica che, sotto certi aspetti,
può essere legittimamente considerata il vero corpo del numero, come dimostrano
le teorie degli antichi sui poligoni messi in rapporto con il simbolismo dei
numeri. Non vogliamo qui affermare, tuttavia, che le cifre siano dei ‘segni’ completamente
arbitrari, la cui forma sarebbe stata determinata soltanto dalla fantasia di
uno o più individui; quel che vale per i caratteri alfabetici deve valere anche
per i caratteri numerici, che in certe lingue non sono distinti dai primi, e
agli uni come agli altri si può applicare la nozione di un’origine geroglifica,
ossia ideografica o simbolica, che vale per tutte le scritture senza eccezione.
Certo è che i matematici ed ogni soggetto che fa odiernamente uso di un certo tipo di matematica applicata alla apparente realtà di ogni giorno, di questo o precedente secolo, nella loro notazione usano alcuni simboli di cui non conoscono più il significato, e che sono come vestigia di tradizioni (inerenti diritto dottrina morale e legge, non meno dell’ideale perseguito…) dimenticate; e ciò che è ancora più grave è che non solo essi non si chiedono quale possa essere questo significato, ma sembrano persino non volere che ve ne sia uno.
Infatti
essi inclinano sempre più a considerare ogni notazione come una semplice
‘convenzione’, intendendo con ciò una cosa stabilita in maniera del tutto
arbitraria, il che in fondo per quanto si sforzino una vera impossibilità,
poiché non si istituisce mai una convenzione senza una ragione per farla e per scegliere
precisamente quella piuttosto che qualunque altra; solo a coloro che ignorano
quella ragione la convenzione può sembrare arbitraria, ed è appunto ciò che
accade qui.
In un caso
del genere è fin troppo facile del resto passare dall’uso legittimo e valido di
una notazione ad un uso illegittimo, che non corrisponde più a niente di reale
e che a volte può persino essere, oltre che paradossale anche illogico, giacché
in paradosso con gli stessi termini adottati al fine di un duplice
conseguimento inerenti ad un Tempo frazionato, ma non scisso nella sua presa di
coscienza, e quindi posto in una falsa presa di ‘virtuale coscienza’, così come
talvolta la matematica adottata vorrebbe esplicitare, o peggio svelare, nello
svilimento dello Spirito taluni principi (dedotti nell’ambito della materia)…
Ora volgiamo lo sguardo al mestiere al lavoro motivo di questo breve antico scritto così come disquisito e prendiamo coscienza del suo più certo significato, scisso dai termini, ovviamente, come postulato qual frazionato Tempo…
Ho appena
solo accennato circa la concezione ‘profana’ delle scienze e delle arti, quale
è oggi invalsa in Occidente, è un fenomeno molto moderno e implica una
degenerazione rispetto ad uno stato anteriore in cui sia le une che le altre
avevano un carattere del tutto diverso.
La stessa
cosa si può dire dei mestieri; e del resto la distinzione fra arti e mestieri,
o tra ‘artista’ e ‘artigiano’, è anch’essa specificatamente moderna, come se
fosse nata da quella deviazione profana e avesse senso soltanto a causa di
questa. L’artifex, per gli antichi, è
indifferentemente l’uomo che esercita un’arte o un mestiere; ma non si tratta,
a dire il vero, dell’artista o dell’artigiano nel senso che hanno oggi queste
parole; è qualcosa di più dell’uno e dell’altro, perché, almeno in origine, la
sua attività è legata a principi di un ordine molto più profondo.
In
qualsiasi civiltà tradizionale, infatti, ogni attività dell’uomo, di qualunque
genere, è sempre considerata come derivante essenzialmente dai principi; in tal
modo essa è come ‘trasformata’, si potrebbe dire, e, invece di essere ridotta
ad una semplice manifestazione esteriore (che è in definitiva il punto di vista
profano che prevale oggigiorno…), è integrata alla tradizione e costituisce,
per colui che la esercita, un mezzo per partecipare effettivamente a questa.
Così anche da un semplice (o complesso) punto di vista più antico, è molto facile rendersi conto del carattere ‘religioso’ (e/o spirituale) che questa assume negli atti più ordinari dell’esistenza. Il fatto è che qui la religione non occupa un posto a se stante, senza alcun rapporto con tutto il resto, come lo è per gli occidentali moderni, al contrario essa pervade tutta l’esistenza spirituale dell’essere umano, o meglio, tutto ciò che costituisce quell’esistenza, e in particolare la vita sociale, si trova come inglobato all’interno della sua sfera, al punto che, in tali condizioni non può esservi in realtà alcunché di profano, salvo per coloro che, per una ragione o per l’altra, sono fuori dalla tradizione, e il caso rappresenta una semplice anomalia.
Altrove,
dove non c’è niente al quale si possa propriamente applicare il nome di
‘religione’, esiste nondimeno, o dovrebbe, una legislazione tradizionale e
‘sacra’ che, pur avendo caratteristiche diverse ‘assolve’ esattamente la stessa
funzione; queste considerazioni si possono dunque applicare a qualsiasi civiltà
tradizionale senza eccezioni.
Ma c’è di
più…
I mestieri (e
con loro il lavoro in generale), osservati con l’occhio di una antica
motivazione spirituale quale certo principio, possono adempiere ad un superiore significato,
assolvere possiamo dire, come all’inizio l’esempio offerto da The Masses, con l’io scrivente non certo
proteso in delirante pretesa, ma al contrario adempiere spiritualmente - come
la sua antica scrittura -, di cui abbiamo colto notevoli Frammenti, impone e
non certo da sciamano, ma da ottimo religioso nella sacralità dell’espletamento
del proprio ed altrui ruolo, in funzione del lavoro.
Il soggetto
scrivente assolve e non più formalmente all’adempimento senza compenso alcuno nell’attività
conforme alla propria natura, simmetrica ai principi professati, e disgiunta da
diversi ed alieni motivi quali false dottrine regolatrici in nome di una
altrettanto falsa religione divenuta mito da cui si oppone!
Nella
differenza in cui si pone congiuntamente il Guenon
circa la propria epoca in fase di progressiva democratizzazione entro i termini
della civiltà occidentale che impone il suo dispiegamento e l’altrettanta
interpretazione che ne farà un certo tipo di dittatura (o democratica pretesa
che la consolida ed assolve) interpretandolo, ed in cui il fenomeno viene
evidenziato e posto in difetto oltremodo interpretativo circa l’uguaglianza, mi
permetto di giustificare una mistificazione in proposito al suo pensiero, in
quanto ingiustamente interpretato e dedotto da una illogica occidentale genesi,
anche questa ciclica, non affine ad un più elevato pensiero completamente
travisato, frainteso e posto nei canoni dottrinali impropri di un sistema
incapace di coglierne nessi e sfumature.
Giacché
l’uguaglianza nella differenza in cui posta dal Guenon da cui il Tempo meccanico di cui si nutre una società di ‘ugual’
schiavi, consolida e non certo paradossalmente la propria certificata finalità
scritta nella genesi dell’opposta ‘libertà liberata’ dal vincolo della
meccanizzazione della nascente massa di uomini liberi ed uguali posti a scala industrializzata
(come i meccanismi precisi di un orologio) e costretta ai suoi canoni
dottrinali…
(Guenon & Giuliano)
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