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Quando incontrai il Lupo (19/20)
Dubito
seriamente che ci sia un vero te stesso o, se è per questo, un vero me stesso:
un Sé, una persona che persiste immutabile e trascende tutti i diversi modi in
cui potremmo esserle infedeli. Anzi, dubito addirittura che fosse questa la visione
di Shakespeare, visto che la mette in bocca a un palese stupido come Polonio.
Perciò
dubito che esista un vero io in contrapposizione a un falso io.
Ci sono
solo io.
Anzi, non
sono neppure più sicuro che perfino quell’io esista. Forse ciò che definisco ‘io’
non è altro che una successione di persone diverse, tutte collegate
psicologicamente ed emotivamente e tutte unite dall’illusione di essere me.
Chi lo sa?
Non ha
davvero importanza.
Il punto cruciale è che ognuno dei miei momenti più alti è completo in se stesso e non richiede giustificazione nel ruolo che si suppone giochi nel definire chi e che cosa sono io.
Sono i
momenti che importano, non la persona che si suppone (erroneamente) essi
rivelino. È questa la lezione difficile. Io sono un Filosofo di professione e,
di conseguenza, un’ostinata forma di pessimismo è, o dovrebbe essere, uno dei
miei ferri del mestiere. Povero, vecchio Dio: dopo tutto il disturbo che si è
preso per me – l’intervento assurdamente improbabile sotto forma del fantasma
di pietra di Brenin – non riesco ancora a convincermi a credere in Lui.
Ma se
potessi credere, allora spererei nel Dio della preghiera di Eli Jenkins in
Sotto il bosco di latte:
il Dio che cerca sempre il nostro lato migliore,
non il peggiore.
I nostri momenti più alti rivelano il nostro lato migliore, non il peggiore. L’io al mio peggio è reale quanto l’io al mio meglio. Ma ciò che mi rende degno - se lo sono - è l’io al mio meglio.
Sono stato
al mio meglio, ne sono convinto, quando dicevo di no alla morte di Brenin (il
mio solo amico un Lupo) durante quei primi giorni in Francia. Ero un pazzo
privato del sonno. Pensavo di essere morto e all’inferno. La mia visione di ciò
che stava succedendo nella mia vita faceva sembrare Tertulliano assolutamente ragionevole.
Ero a
pezzi.
Ma, malgrado
tutto, quelli sono stati tra i momenti più alti della mia vita. È questo che
Sisifo alla fine ha capito. Siamo al nostro meglio quando non ha più senso
andare avanti, quando non c’è più alcuna speranza che ci spinga ad andare avanti.
E a volte è
necessario mettere la speranza al suo posto, riporla dentro la sua piccola,
squallida scatola. E andiamo avanti comunque e, nel farlo, creiamo un senso
(anche se, naturalmente, non è per questo che lo facciamo: qualsiasi ragione minerebbe
quel senso).
In quei momenti
gridiamo ‘Vaffanculo!’ agli dèi dell’Olimpo, agli dèi di questo mondo o dell’altro
e ai loro piani per costringerci a spingere per l’eternità massi su per le
alture o a imporre la stessa fatica ai nostri figli.
Per essere
al nostro meglio dobbiamo essere costretti in un angolo, dove non c’è speranza
e niente da guadagnare andando avanti.
E noi andiamo avanti comunque!
Siamo al nostro meglio quando la morte si sta chinando sopra la nostra spalla e non c’è più nulla che possiamo fare perché il nostro tempo è quasi finito.
Ma gridiamo
‘Vaffanculo!’ alla linea della nostra vita e abbracciamo, invece, il momento.
Sto per
morire (con il mio Lupo fra le calunnie di questa gente fuori la Selva…), ma in
questo momento mi sento bene e mi sento forte.
E farò
quello che voglio.
Questo
momento è completo in se stesso e non ha bisogno di trovare giustificazioni in
altri momenti, passati o futuri.
Posso ancora dire Vaffanculo e
domandarti dov’è il Bar… per dimenticare la morte del nostro comune amico Lupo…
E così, suppongo, è stato un Lupo che mi ha rivelato tutto questo: lui è la luce e io ho potuto vedere me stesso nell’ombra che proiettava. Ciò che ho imparato, in effetti, è stata l’antitesi della religione…
(Mark Rowlands, il Lupo & il Filosofo)
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