giuliano

domenica 24 febbraio 2019

LA NAUSEA (Seconda Parte)



















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La radice non era nera.

Non c’era del nero su quel pezzo di legno c’era... un’altra cosa: il nero, come il cerchio, non esisteva. Guardavo la radice: era più che nera o quasi nera? Ma ben presto ho smesso d’interrogarmi poiché ho avuto l’impressione di trovarmi in una zona che conoscevo. Sì, avevo già scrutato, con quella stessa inquietudine, innumerevoli oggetti, avevo già cercato - vanamente - di pensare qualcosa su di essi: ed avevo già sentito le loro qualità, fredde e inerti, sottrarsi e scivolarmi di tra le dita.

Nera radice così come la foglia…

….Ed allora questo momento è stato straordinario.




Ero lì, immobile e gelato, immerso in un’estasi orribile. Ma nel seno stesso di quest’estasi era nato qualcosa di nuovo: comprendevo la Nausea, ora, la possedevo. A dire il vero, non mi formulavo la mia scoperta. Ma credo che ora mi sarebbe facile metterla in parole. L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è esser lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre. C’è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé.

Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità.

Tutto e gratuito, questo giardino, questa città, io stesso…

…In meno di tre secondi tutte le mie speranze sono state spazzate via. Su quei rami esitanti che brancolavano ciecamente all’intorno, non sono riuscito ad afferrare alcun ‘passaggio’ all’esistenza. Quest’idea di passaggio era un’altra invenzione degli uomini. Un’idea troppo chiara. Tutte quelle minute agitazioni s’isolavano, si determinavano per se stesse. Traboccavano da tutte le parti dai rami e i ramoscelli. Turbinavano attorno a quelle mani secche, le avvolgevano di piccoli cicloni.

Naturalmente, un movimento era una cosa diversa da un albero.




Ma era ugualmente un assoluto.

Una cosa.

I miei occhi non incontravano mai altro che del pieno. In cima ai rami brulicavano esistenze, esistenze che si rinnovavano continuamente e che non nascevano mai. Il vento esistente veniva a posarsi sull’albero come una grossa mosca, e l’albero rabbrividiva. Ma il brivido non era una qualità nascente, un passaggio dalla potenzialità all’atto; era una cosa; una cosa-brivido scorreva nell’albero, se ne impadroniva, lo scuoteva, e di colpo l’abbandonava, se ne andava più in là a girare su se stessa. Tutto era pieno, tutto era in atto, non c’era intervallo, tutto, perfino il più impercettibile sussulto, era fatto con un po’ d’esistenza.

E tutti questi esistenti che si affaccendavano attorno all’albero non venivano da nessun posto e non andavano in nessun posto. Di colpo esistevano, e poi, di colpo non esistevano più: l’esistenza è senza memoria; dì ciò che scompare non conserva nulla - nemmeno un ricordo. L’esistenza dappertutto, all’infinito, esistenza di troppo, sempre e dappertutto; l’esistenza - che non è mai limitata che dall’esistenza. Mi son lasciato andare sulla panchina, stordito, ottuso di quella profusione di esseri senza orìgine: dappertutto sbocci, sviluppi, le mie orecchie ronzavano d’esistenza, la mia carne stessa palpitava e si schiudeva, s’abbandonava al pullulamento universale, una cosa ripugnante.




‘Ma perché’, - ho pensato, ‘perché tante esistenze, visto che si rassomigliano tutte?’.

A che pro tanti alberi tutti simili?

Tante esistenze mancate e ostinatamente ricominciate e di nuovo mancate - come gli sforzi maldestri d’un insetto caduto sul dorso? (Io ero uno di questi sforzi). Quell’abbondanza non faceva l’effetto della generosità, al contrario. Era tetra, meschina, imbarazzata di se stessa. Quegli alberi, quei gran corpi sgraziati. Mi son messo a ridere poiché d’un tratto ho pensato alle formidabili primavere che si descrivono nei libri, piene di spaccature, dì scoppi, di sbocci giganteschi. C’erano imbecilli che venivano a parlarvi di volontà di potenza e di lotta per la vita. Si vede che non avevano mai guardato una bestia né un albero.

Quel platano, con le sue macchie di tigna, quella quercia mezza fradicia, avrebbero voluto gabellarmele per giovani forze violente che zampillavano verso il cielo. E quella radice? Senza dubbio avrei dovuto rappresentarmela come un artiglio vorace che squarciava la terra, per strapparle il suo nutrimento?




Impossibile veder le cose a quel modo. Delle mollezze, delle debolezze, questo sì. Gli alberi ondeggiavano. Uno zampillamento verso il cielo? Era piuttosto un afflosciamento, da un momento all’altro m’aspettavo di vedere i tronchi raggrinzirsi come verghe stanche, afflosciarsi e cadere al suolo in un mucchio nero pieno di pieghe. Non avevano voglia di esistere, solo che non potevano esimersene, ecco. E allora facevano tutte le loro piccole funzioni, pianamente, senza slancio: la linfa saliva lentamente entro i vasi, controvoglia, e le radici s’affondavano lentamente nella terra. Ma ad ogni momento sembravano sul punto di piantar tutto lì e annullarsi. Stanchi e vecchi, continuavano ad esistere, di malavoglia, semplicemente perché erano troppo deboli per morire, perché la morte poteva venir loro solo dall’esterno: solo le arie musicali sanno portare fieramente la loro propria morte in sé come una necessità interna; soltanto che esse non esistono.

Ogni esistente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione. Mi son lasciato andare all’indietro e ho chiuso gli occhi. Ma le mie fantasie, subito risvegliate, son balzate su e son venute a riempire d’esistenze i miei occhi chiusi: l’esistenza è un pieno che l’uomo non può abbandonare.

Strane immagini. Rappresentavano una folla di cose.




Non cose vere, altre che gli rassomigliavano. Oggetti di legno che rassomigliavano a sedie, a zoccoli, altri oggetti che rassomigliavano a piante. E poi due facce: era la coppia che aveva pranzato vicino a me, l’altra domenica, alla birreria Vézelise. Grassi, caldi, sensuali, assurdi, con le orecchie rosse. Vedevo le spalle e il petto della donna. Esistenza nuda. Quei due là - d’un tratto, ciò mi ha fatto orrore -, quei due là continuavano ad esistere da qualche parte di Bouville; da qualche parte - in mezzo a quali odori? - quel petto morbido continuava a carezzarsi contro stoffe fresche, a raccogliersi nei merletti e la donna continuava a sentirsi il petto esistere nella sua blusa, a pensare: ‘le mie tettine, i miei bei frutti’, e a sorridere misteriosamente, attenta all’espandersi dei suoi seni che la solleticavano, e poi ho gridato e mi son ritrovato, con gli occhi sbarrati.

Ch’io l’abbia sognata, quell’enorme presenza?

Era lì, posata sul giardino, precipitata negli alberi, moltissima, impiastricciando tutto, densissima, una mostarda. Ed io ci ero dentro, io, con tutto il giardino? Avevo paura, ma soprattutto ero arrabbiato, trovavo ch’era una cosa così stupida, così fuori posto, e l’odiavo, quell’ignobile marmellata. Quanta ce n’era! Arrivava fino al cielo, e invadeva tutto, tutto riempiva col suo abbraccio gelatinoso, e ne vedevo in quantità sempre più grande, ben oltre i confini del giardino, oltre le case, oltre Bouville, non ero più a Bouville, non ero in nessun posto, fluttuavo. Non ero sorpreso, sapevo bene che era il Mondo, il Mondo nudo e crudo che si mostrava d’un tratto, e soffocavo di rabbia contro questo grosso essere assurdo.




Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c’era stato niente prima di esso. Niente. Non c’era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m’irritava: senza dubbio non c’era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse. Era impensabile: per immaginare il nulla occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli occhi spalancati, il nulla era solo un’idea nella mia testa, un’idea esistente, fluttuante in quella immensità: quel nulla non era venuto prima dell’esistenza, era un’esistenza come un’altra e apparsa dopo molte altre.

Ho gridato ‘che porcheria, che porcheria!’

E mi son scrollato per sbarazzarmi di questa porcheria appiccicosa, ma questa teneva duro, e ce n’era tanta, tonnellate e tonnellate d’esistenza, indefinitamente: soffocavo nel fondo di quest’immensa noia. E poi, d’un tratto, il giardino s’è vuotato come per un gran buco, il mondo è sparito allo stesso modo come era venuto, oppure mi son risvegliato - in ogni caso non l’ho visto più: attorno a me rimaneva della terra gialla, dalla quale uscivano dei rami morti drizzati in aria. Mi sono alzato, sono uscito. Arrivato alla cancellata mi son voltato. Allora il giardino m’ha sorriso.

Mi sono appoggiato alla cancellata ed ho guardato a lungo.




Il sorriso degli alberi, del gruppo di allori, ciò voleva dire qualche cosa; era questo il vero segreto dell’esistenza. Mi son ricordato che una domenica, non più di tre settimane fa, avevo già sorpreso sulle cose una specie d’aria di complicità.

Era diretta a me?

Ho sentito con disappunto che non avevo alcun mezzo di comprendere. Nessun mezzo. E tuttavia era là, in attesa, sembrava uno sguardo. Era là, sul tronco del castagno. era il castagno. Le cose si sarebbero dette pensieri che si fermassero a metà strada, che s’obliassero, che obliassero ciò che avevano voluto pensare, e che restassero così, ondeggianti, con un bizzarro, piccolo significato che le sorpassava. M’infastidiva, questo piccolo significato: non potevo comprenderlo, nemmeno se fossi rimasto centosette anni appoggiato a quella cancellata; avevo appreso sull’esistenza tutto quello che potevo sapere. Me ne sono andato, sono rientrato all’albergo, ed ecco qua, ho scritto.


(J. P. Sartre & Associati Eretici Esiliati)












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