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Preparazione del nuovo Tomo...
Introduzione dell'Introduzione
Incrudelendo
in Milano la peste, nell’estate del i63o,
disastri a disastri, angustie ad angustie crebbero in quel gran travaglio le
superstizioni, e principalmente la credenza che alcuni si fossero congiurati
per propagare il male e mettere Milano affatto al nulla.
Di costoro
toccò il Manzoni, e promise trattarne a pieno altrove. Però chi sa quanto
ancora negherà al desiderio comune la sua Storia della Colonna Infame?
Frattanto,
importando a molti il conoscerne alcun che, io raccolsi da parecchi libri
alcune cose, che esibisco informi ai lettori; i quali oh come avranno a stupire
ed imparare quando, sotto la penna del nipote di Beccaria, vedranno queste
tradizioni diverse, morte, contraddittorie, staccate, avvivarsi, e dirìgersi al
fine d’educare la opinione popolare alla ragione, alla giustizia!
È credenza antica, per lo meno quanto la
peste di Atene descritta da Tucidide, che la malizia umana giungesse a tanto da
diffondere la peste ad arte. Quando la ragione sonnecchiava serva della
superstizione e dell’autorità, o delirava ebbriata dal fanatismo, rinacque e si
saldò una tale credenza: Cardano, Martino Delrio, Wieiro, trattatisti di
diavolerie, assicurano che nel i536, nel Marchesato di Saluzzo, fu propagata la
peste cogli unti: v’è un trattato de peste manufactaj e il Tadini ci conservò
memoria di molte, diffuse, come credevasi, maliziosamente.
Anche nella peste del 1576 si ragionò di Untori, e
raccontarono che un di costoro, in sul venire strozzato, confessossi reo, e
palesò insieme un preservativo contro la peste, adoperato poi col nome di unto
dell’impiccato.
Il 12 settembre di quell’anno, il governatore Ayamonte, avendo saputo che alcune persone con
poco zelo di carità, e per mettere terrore e spavento al popolo per eccitarlo a
qualche tumulto, vanno ungendo con unti che dicono pestiferi e contagiosi le
porte et i catenacci delle case e le cantonate, sotto pretesto di portar la
peste, dal che risultano molti inconvenienti, e non poca alterazione tra le
genti, maggiormente a quei che facilmente si persuadono a credere tali cose,
per ovviare a tale insolenza, promette a chi ne denunzii gli autori 5oo scudi,
e la liberazione di due banditi: e se era complice, l’impunità, purché non
fosse il capo.
Da questa
grida, ripetuta poi il 19 del mese
stesso, ben appare come fosse poco più che il sospetto di un’insolenza, non
di una tanta reità. E convien credere che non acquistasse piede, giacche il
Besta, il Giussano, il Rugato, altre memorie di contemporanei, non ne fanno pur
cenno. Però l’ignoranza progrediva mercè
le cure di chi vi aveva interesse, e i frutti di quella sono sempre gli stessi.
Fin dal 1628, la cattolica maestà del nostro re, con
paterna premura, havea mandato lettere al senato e al tribunale della sanità
milanese, annunziando come dalla Corte sua fossero fuggiti quattro Francesi, (i
Francesi allora faceano molta paura ai nostri padroni) scoperti di voler
infettare Madrid con unti pestilenziali: stessero dunque sull’avviso se mai
capitassero in questi paesi. Poco dopo
arriva in Milano all’osteria dei Tre-re un Gerolamo Bonincontro, vestito
alla francese e civile negli atti; e siccome allora il passaggio delle truppe
faceva nascere paura di peste, così egli lascia intendere d’avere certi suoi
specifici, co’ quali cinque anni innanzi avea fatto del gran bene nella
terribile peste di Palermo; e sfoggia ampie attestazioni avute da principi,
come abilissimo di medicina e di matematica. Sono questi discorsi rapportati al
senatore Arconato, presidente della sanità, che di rapportatori neppur allora
ci doveva esser carestia. Egli, combinate le lettere reali coll’essere costui
francese, conchiude, e la conclusione vien via drittissima, che colui fosse un untore, e lo fa
catturare.
Il Tadini e il suo auditore Visconti, incaricati d’esaminarne
gli utensili, trovarongli libri d’astrologia e chiromanzia, un breviario, non
so che libri spirituali e temporali, o come si direbbe oggi, profani: una
vestina ed una cintura dell’abito di S. Francesco di Paola, e vasetti con
argentovivo e polveri. Queste toccate e fiutate, si conobbero medicinali, onde fu come innocente liberato.
Se non che dalle
carte e dagli esami suoi era venuto in chiaro com’egli fosse un frate
apostata, ricoverato alcun tempo a Ginevra, e che ora andava a Roma per impetrare
perdonanza dal papa: lo perché il padre inquisitore generale lo chiese come
cosa sua, ed avutolo, il processò come Dio vel dica, e mandollo poi a Roma al
modo suo.
Fin qui adunque tale idea (come quasi tutti i mali
nostri) degli untori era vaga,
lontana, e ne avrebbero riso, se non fosse parso un crìmen
lesae il
dubitare di cosa asserita da un re cattolico.
“Ma il
sospetto acquistò piede dal trovarsi la mattina del 22 aprile 1630 untate le pareti di molte case. Tutti accorrevano a
vedere: ci andai anch’io: erano macchie sparse, ineguali, come se alcuno con
una spugna avesse schiccherate le muraglie. Da quell’ora, ogni dì si narrava di
altre case untate, di gente infetta appena le avesse tocche: si aggiunse che si
ungessero le persone: infine, de’ tanti morti, ben pochi si credevano perire senza
malizia. Prima i ferri, i legni: poi le strade, l’aria stessa temevasi contaminata:
che più si giudicavano unte perfino le messi mature”.
E racconta,
d’accordo col Tadini e cogli altri, come sul
principio di giugno trovansi unte le panche in Duomo; le quali portate
fuori e bruciate, servirono non poco a convincere la moltitudine, per cui un
oggetto diventa coti di leggieri un argomento. Provata allora la verità del fatto
per tanti testimonii e per la visita del tribunale della sanità, cominciossi a
ragionarvi sopra. E una burla degli studenti di Pavia: è una bizzarrìa di
cavalieri grandi per incantar la noja di quell’assedio di Casale: è il contino
Aresi, è don Carlo Bossi, è il figlio del castellano Padilla per ispaventare la
gente: è una perfida vendetta del governatore Cordova cacciato a torsi di
cavoli: è una trama del re di Francia: è una delle solite del Richelieu, ed è
uomo da Jarlo, che non crede più in Dio di quello facciano le mie scarpe: è una
raffinata barbarie di quel Wallenstein, il cui nome suonava terribile come la
campana a martello.
Alfine divenne universale opinione che quegli
unti fossero fatti per ispargere la peste.
Universale
dico, benché tra i privati, chi per sana cagione, chi per ismania di
contraddire quel che dicevano i più, vi fossero alcuni che non credeano. Tra
questi ricorderò volentieri il mio brianzuolo Ripamonti, che chiaramente mostra
non avervi fede: ma soggiunge
‘s’io dicessi che non vi furono untori, e che mal
s’appongono a frodi umane i giudizii di Dio ed i castighi, molti sclamerebbero
empia la storia e l’autore’.
Onde
seguita discorrendo come…
‘si designassero autori del disperato consiglio
gran re e i loro ministri, e la pubblica indignazione accagionasse quelli, che
forse più che altri compiangevano la nostra sciagura. Ed era voce comune che il
demonio congiurasse cogli uomini per ispopolare il paese. Su di che crederli o
non crederli, io riferirò i portenti che si spargevano. Correva dunque fama che
il diavolo avesse in Milano tolto a pigione una casa, ove erasi posto a
fabbricare e diffondere unguenti. A sentirli, vi sapeano dire che casa era e di
cui: ed uno raccontava, che trovandosi un dì in piazza del Duomo, vide una
carrozza a sei bianchi cavalli e gran corteggio, e sedutovi uno di grand’aspetto,
ma burbero quanto mai, gli occhi infocati, irto i crini, minaccioso il labbro. Il
quale fattogli dappresso, si soffermò, lo fece montare, e dopo varii giri e
rigiri lo menò ad un’abitazione, che pareva il palazzo di Circe. Ivi misto l’ameno
e il terribile: qui luce, là tenebre, altrove deserti, gabinetti, boschi, orti,
cascate d’acqua: infine mucchi d’oro. Dai quali gli permise di levarne tanto
che fosse pago, purché volesse spargere dell’unto. E avendo ricusatoci trovò al
luogo stesso ond’era stato levato.... Ma
dopoché si ritenne che il diavolo vi desse mano, entrò quella stupida e
micidiale negligenza, che è figlia della disperazione: poi un indagare le cause
di effetti sognati , e un panico terrore: fin i più intimi si schivavano l’un l’altro:
né solo del vicino e dell’amico si viveva in sospetto, ma fino tra marito e
moglie, tra fratelli e fratelli, tra padre e figliuoli: e il letto, e la mensa
geniale, e che che si ha per santo incuteva spavento…’.
Chi non sa
il caso del senatore Caccia? Al quale il servo (chiamavasi il Farleta) offrì
una mattina un fiore, né appena quegli il fiutò, ne contrasse il contagio e la
morte. A Volperò di Tortona si trovarono sette untori, che furono morti sulla
ruota: e attorno a quel tempo si scopersero ivi presso le macine da mulino
untate, sulle cui macchie fregato del pane, e datolo mangiare alle galline,
subito morirono ed illividirono. Una mosca che forse v’era posata su, fermatasi
nell’orecchio di un tale, gli causò senz’altro la morte.
Antonio Croce
e G. B. Saracco di Cittadella deposero con giuramento, che un carpentiere lor
vicino ammalato, di fitta notte sentì andar alcuno per camera, sebbene fosse
chiusa la porta.
Mi levai (così l’infermo) a guardare, ed essi:
alzati e ci segui, v’è fuor di città un magnate che ti darà vasi da unger la
vicinanza, e n’avrai in compenso salute e vigore. Intanto mi esibivano de’bei
danari, e li faceano suonar sulla tavola. Fra ciò sentivo tentennare e
scricchiolare il letto, tirarmisi la coltrice e le lenzuola, ond’io stava
inorridito. Ma poiché insistevano essi, chiesi loro chi fossero. Mi risposero:
Ottavio Sassi. Io rifiutai, e tosto ogni cosa si dileguò. Solo rimase sotto il
letto un lupo che mugolava, e tre gattoni alle prode che faceano versacci,
finché apparve il dì.
Anche Carlo
Girolamo Somaglia narra avvenimenti simili, come a non dubitarne.
Due che col
fiscale Giuseppe Fossati uscivano in carrozza verso Novate, smontati ad un
macello, furono untati e morirono. Gio Curìone, servidore d’esso Somaglia, mentre
andava oltre pei fatti suoi, accortosi d’aver unto il mantello si lo gettò,
vide gli screzii, additò il reo, che fu menato su, ma non seppesi il castigo perché
in prigione molti morirono prima che la Giustizia facesse la dovuta
dimostrazione.
Un altro
giovane che gli stava in casa, unto, morì entro 24 ore. Fa altrove raccontare
al senator Laguna d’aver esaminato un untore, che confessò come un tale gli
avea dato un vaso e tre zecchini, promettendogli che tornando gli daria altro
danaro. Colui fece la prova sui domestici tuoi (sui domestici!) poi sui vicini,
che di corto morirono. Condottosi quindi in cerca dell’amico dal danaro, più
noi trovò. Nonostante seguitò ad impiastrare per una certa voluttà che vi prendeva,
come de’ cacciatori che, non capitando selvaggine, tirano qualche volta ad
uccelli da nulla. Poiché c’insegna un altro, che la diabolica fattura era tale,
che chi preso ne veniva con darle il primo consenso, sentiva tal gusto e
diletto nell’andar untando, che umano piacere, sia qualsivoglia, non è
possibile se li agguagli.
Talmente si
trovava fondata l’opinione del volgo e della plebe e della nobiltà, che queste
unzioni non fossero solamente pestilenti, ma ancora vi concorresse l’arte
diabolica per distrugere non solamente la città, ma tutto lo stato, e che ogni
notte per il spazio di tre mesi si vedevano unte molte contrade della città che
era cosa di stupore e meraviglia non sapere dove si fabbricasse tanta quantità
d’unguento, quale si vedeva di colore gialletto, o croceo scuro, et in verità
havere da ongere in una notte le centinaja et migliaja di case, bisognava fosse
fabricato con arte diabolica, perché naturalmente parlando non si poteva fare
che non si fosse saputo o inteso per le diligenze straordinarie, che
trattandosi del benefitio publico, ciascuno non le facesse.
Ma quello
che ci confermava concorrere l’arte diabolica in queste unzioni e che ogni
notte non solamente si trovavano rinfrescate le unzioni nelle medesime case
della notte antecedente, ma accresciute di gran lunga la subsequente... Et che
sii la verità non si può negare che il Podestà di Milano un giorno non facesse
condurre nel Tribunale della Sanità dieci furbi, d’età in circa di 12 in 14
anni, li quali confessarono a viva voce che ogni mattina erano condotti all’offelleria,
et doppo bene mangiato et bevuto, andavano ungendo le persone che si trovavano
nel Verzaro, con unguento che gli era dato d’alcune persone che si trovavano ad
un hora di notte in quelle case che si dicono matte al bastione, con 4o soldi
per ciascuno, et fatta diligenza la sera medema per fargli prigione, non si
ritrovorno. Ben, è vero che vicino al bastione se gli trovò un tale Giovanni Battista,
che della parentela per degni rispetti non si nomina, et condotto prigione,
mentre si tormentava restò sopra la corda strangolato dal demonio, et quegli
figliuoli furono frustati, di puoi banditi da tutto lo stato....
Ne
solamente restò nella città di Milano, ma si allargò nel Ducato in molte terre
et ville per causa delle quali furno presi alcuni delinquenti et condannati
alla Ruota, et in particolare un laico servita et un altro di S. Ambrosio ad Nemus,
per esser caso notorio, furno presi con detto unguento, et messi alla tortura
confessorno averlo riceputo da certe persone forestieri per far morire alcuni suoi
nemici, dove poco dopo forno ancor essi condannati alla morte.
In questo
tempo non fu Medico alcuno ne persona intelligente che havesse sentimento
diverso di queste untioni pestilenti, che non fossero con arte diabolica
fabricate: mentre per le molte persone le quali morivano alla sprovista senza
segni esterni, senza comercio da loro saputo di contagio, concludevano tutti
per necessità esser stati unti e non altrimenti.
Si aggiunse
di più che, oltre l’unguento pestilente e venefico, fabbricavano ancora una
polvere della medesima natura e qualità, la quale mettevano nelli vasi dell’acqua
benedetta, pigliata dal popolo nelle chiese et ancora nelli luoghi della
povertà, dove si trovavano camminare con li piedi ignudi, attacandose alle mani
et piedi, haveva tanta forza che incontinente quelle misere creature s’infettavano
et morivano in brevità di tempo.
Dopo molti
altri esempii viene a narrar di sé stesso, che vide, in contrada di S. Rafaello,
un furfante a cavallo, che destramente spargeva detta polvere, ma accortosi d’estere
scoperto, fuggì a rotta di collo; di due zitelle di Antonio Vailino da
Caravaggio, che nel prendere l’acqua santa in chiesa dei Servi per segnarsi, vi
scorsero qualche polvere galleggiante, e fra 4o ore morirono; e d’altre due
donne che, giunte alla chiesa delle Grazie, trapelanti dal cammino e dal caldo,
bevvero dell’acqua santa, e poco dopo ne morirono…
Dopo tutto ciò, mi chiedete forse quel ch’io
creda del fatto di tali unzioni?
Veramente,
a sentirlo asserire da tanti come cosa veduta proprio da loro, trattandosi di
un giudizio di immediata, assoluta percezione, parrebbe un soverchio di critica
il dubitarne. Ma chi faccia ragione alla natura dell’uomo e all’oscurità dei
tempi, resta condotto anche più in là del dubbio. Perocché l’uomo, quantè più
grossolano tant’è più credulo, quant’è più passionato tant’è più precipitoso
nei giudizii, e quando accade una meraviglia, più è grossa, più agevolmente là
si crede, e ognuno, almeno per ambizione pretende esserne stato testimonio. Che
se mai vi poneste mente, i fanciullini quando si fecero alcun male son tutta
finezza di apporre a qualche caso la colpa per iscusarne sé stessi. Anche il
popolo, fanciullo adulto, per non dover dire ‘io contrassi il contagio coll’avere
trascurate le debite cautele’ trovava comodo l’incolparne un’ineffabile
malignità. Aggiungi l’istinto, della curiosità che vorrebbe trovar le ragioni,
e adatte al modo suo di vedere; aggiungi la perpetua inclinazione del volgo a
scorgere la mano dell’iniquità nelle sciagure, perché sentendo troppo duro il
dar di cozzo contro quello che con arcana bilancia i beni e i mali scomparte, vuoi
pur trovare quaggiù un reo, contro cui sfogare il dispetto di patimenti che non
crede di meritare. Che se a questo modo di vedere proprio di tutti i tempi (e
voi n’avete in pronto esempii vecchi e nuovi) s’intreccino altre accreditate
illusioni) diffuse, radicate, e l’abitudine d’incaute credenze e di
osservazioni trascurate, chi misurerà l’abisso ove può giungere l’uomo?
Gran
lezione a coloro che hanno potere sull’opinione, agli scrittori principalmente,
ai maestri, ai preti, di non lasciar l’errore neppur là dove paja innocente, perché
lento stende le sue radici a danno delle utili piante, e i frutti sono sempre
funestissimi. E appunto in quell’età il desiderio d’empiere con gagliarde
sensazioni il vuoto, abborrito dalla volontà, che restava nelle fantasie pei falliti
interessi generali, la terribile vicissitudine di sfortunati eventi, la malizia
di chi poteva, aveano ricondotto gl’italiani a quel punto, in cui, come
fanciulli, fossero guidati coll’autorità e la credulità non colla ragione.
In ogni
parte del sapere, misterii, filosofi, leggisti, teologanti a giurare sulla parola
del maestro, rimanere contenti a cause ridicole, ogni fenomeno spiegato con
soprannaturali cagioni, miracoli o prestigi, santità o diavoleria, insultata o
punita la ragione qualvolta rivendicasse i diritti suoi. Basti l’accennare l’opinione
delle streghe e della magia, i temporali, le malattie un po’ complicate, la
sterilità de’ campi o delle donne, in quel naturalissimo effetto dell’innamorarsi,
voleano attribuirsi a maligno sguardo, a filtri, a malie. Già avete potuto
vedere in questi ragionamenti le prove di tutto ciò, ed anche là i folletti erano
stati visti coi propri occhi, testimoni oculari aveano notato il tale e il tale
nelle tregende, i tribunali, le persone più elevate n’erano convinte tanto, da
seguitarne per un pajo di secoli legali., orribili, non interrotte carneficine;
vittime oggidì compiante, non che dai generosi pochi, ma fin da quelli che
disprezzano altre vittime, cadute volontarie all’antiguardo della ragione
progressiva.
Che se oggi
nessuno se non forse qualche donnicciola, crede vi fieno state le streghe, benché
il fatto sia asserito da tanti, benché tante l’abbiano esse stesse confessato
ai tribunali, non potremo anche noi credere che fossero del tutto un sogno
quelle unzioni? Trovar una parete impiastricata, nulla di più facile massime allora.
Chi la vide lo disse: mille altri asserirono averlo veduto anche loro: il fatto
correndo per le bocche, misto allo spavento, ingrandisce, si variano le
circostanze così da parere diversi i fatti, ecco tutto.
Che se si
volesse credere almeno la prima unzione, attribuendola a burla od altro, come poi
spiegare quella continuazione! come il numero quasi infinito di case unte ogni
notte? ove si fabbricava tanta materia? chi ardiva diffonderla e in tal copia
dopo che vedeansi dati ai più crudeli strazii quelli che appena n’erano
sospettati rei? Eppure anche queste cose sono tutte attestate con altrettanta
asseveranza.
Se poi ci
fosse stato ancora chi non credesse esser quei unti un’arte diabolica, vennero
i padri del S. Ufficio dell’Inquisizione ad annunziare al presidente Arconato,
siccome il tal dì appunto era stato da essi prefinito al demonio perché cessasse
ogni suo potere sovra il popolo milanese, parole, dice il Ripamonti che
sembrano togliere ogni dubbio sugli unti, essendovi interposta l’autorità
apostolica, che non può né ingannare né essere ingannata.
Quand’anche
fosse provato che i governanti siano sempre i più retti pensatori, non vi
farebbe meraviglia il vederli entrar anch’essi a due piedi nella credenza degli
unti, e cosi al risentimento istintivo del popolo aggiungere quello deliberato della
legge. Fin sulle prime il Senato excellentissimo non restava usare ogni
diligenza benché straordinaria per ritrovare li malfattori, acciò li potessero
castigare, e per levare ancora tanto terrore che seguiva per la città quando
fosse ancofatto per burla o per spavento del popolo.
Il
tribunale della sanità poi pubblicò il seguente editto:
Avendo
alcuni temerai e scellerati avuto ardire di andare ungendo molte porte delle
case, diversi catenacci di esse e gran parte dei muri di quasi tutte le case di
questa città, con unzioni parte bianche e parte gialle, il che ha causato negli
animi di questo popolo di Milano grandissimo terrore e spavento, dubitandosi
che tali untuosità, siano state fatte per aumentare la peste che va serpendo in
tante parti di questo stato, dal che potendone seguire molti mali effetti ed
inconvenienti pregiudiciali alla pubblica salute, aj quali dovendo gli signori
Presidenti e Conservatori della sanità dello stato di Milano per debito del loro
carico prevedere, hanno risoluto per beneficio publico e per quiete e
consolazione degli abitanti di questa città, oltre tante diligenze sin qui d’ordine
loro usate per metter in chiaro i delinquenti , far pubblicare la presente guida.
Con la
quale promettono a ciascuna persona di qualsivoglia grado, stato e condizione
si sia che nel termine di giorni 3o prossimi a venire dopo la pubblicazione
della presente metterà in chiaro la persona o le persone che hanno commesso,
favorito, ajutato o dato il mandato, o recettato, o avuto parte o scienza
ancorché minima in cotal delitto, scudi 200 de’danari delle condanne di questo
Tribunale, e se il notificante sarà uno de’complici, purché non sia il
principale, se gli promette l’impunità, e parimente guadagnerà il suddetto
premio.
Ed a questo
effetto si deputano per giudici il sig. Capitano di Giustizia, il signor
Podestà di questa città ed il sig. Auditore di questo tribunale a’ quali o ad
uno di essi avranno da ricorrere i propalatori di tal delitto, quali volendo saranno
anco tenuti segreti.
Dato in
Milano lì 19 Maggio i63o.
M. Airromus Moirnus Pretesa.
Jacob us Ajrromus Talubos Cariceli.
Aperti
dunque cent’occhi per iscoprire i rei si credette finalmente averli trovati.
PROCESSUS CRIMIHALIS
CONTRA
DON JOANNEM GAETANUM DE PADILLA
et ceteros
impinctos de aspersione facta
Mediolani
Unguenti pestiferi
anno mdcxxx
PARS OFFENSIVA
Istruendosi processo
contro alcuni rei di unzioni pestifere fatte in questa città, emersero alcuni
indizii contro Don Giovanni Gaetano
Padillia, cavaliere di San Giacomo, e capitano della cavalleria in questo stato
di Milano, il quale per ciò fu arrestato, e per comando del Senato costituito
reo d’aver con danaro dato incombenza a Giovanni Stefano Bargello di fare e
spargere un unguento pestifero, per isterminio del popolo. Egli fece le sue
difese, delle quali orsi tratta la definitiva.
Trattasi pure di Carlo
Vedano detto il Tegnone, egualmente arrestato e costituito reo, perché al
pronunziato effetto sia stato mediatore dell’amicizia fra il detto Don Giovanni
e l’ora defunto Giovanni Stefano Baruello, il quale avea confessato d’aver
fatto l’unguento pestifero per comando di esso Don Giovanni, anche mediante
danaro, e d’averlo dato a diverse persone ad oggetto di disseminarlo.
Lo stesso è pure
imputato d’aver bastonato i suoi genitori, del che pure esibì le difese.
Trattasi anche di
Francesco Griono, detto il Saracco, pure arrestato e reo costituito di aver
asperso col detto unguento, mediante danaro, il quale fece alcune difese.
Da ultimo trattasi di
Giovanni Battista Sanguineto banchiere, imputato d’aver somministrato danaro a
quelli che il predetto unguento disseminarono, il qual pure offrì discolpe. Così
sta la cosa, come si vedrà.
l63o. DIE SABBATI 22. MENSIS IUNIS.
Avendo l’eccellentissimo
senato inteso qualmente ieri nella via detta la Vedra de’ Cittadini, fu
disseminato l’unguento pestifero, comandò all’egregio capitano di giustizia,
che subito s’informasse, principalmente dal sacristano della chiesa di S.
Alessandro informato. Il quale incontanente si recò ad esso sacristano, e da
lui udito che ciò era vero, e che principalmente veniva imputato un genero
della Paola comare, commissario della sanità, si recò parimenti alla contrada
della Vedrà, e vide quanto sotto.
“Entrando nella detta
strada della Vedra de Cittadini dalla parte verso il Carobio, si è visto la
muraglia à mano dritta di quelle case rumata in diversi luoghi alto da terra
circa un brazzo et mezzo, et entrando nella porta, dove stanno li Tradati, si è
vista la muraglia, fumata sotto l’andito di quella, tanto da una parte, quanto
dall’altra in diversi luoghi.
Di più si è visto, che
la muraglia intorno alli uschij della barberia di Gio. Giacomo Mora , posta sù
l’altro cantone della detta strada della vedrà de Cittadini verso il Carobio, è
stata imbiancata di fresco tanto quanto dura la longhezza di detta muraglia, et
questo per levare altre ontioni, che erano sopra essa muraglia, et fu detto da diversi,
che erano ivi, che quelli luoghi fumati, erano così per haver dato il fuoco a
quelli luoghi, dove si era trovato ontato di onto tirante al giallo, come
attestano in effetto esso Sign. Capitano et Notaio, d’haver visto nelli luoghi
abbruciati alcuni segni di materia ontuosa tirante al giallo, sparsovi come con
le deta.
(La Storia Prosegue)
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