giuliano

mercoledì 4 marzo 2020

IL GIARDINO DEI SENTIERI CHE SI BIFORCANO



















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Nella giornata mondiale della Natura....

Prosegue...:

Nell'altro versante della Montagna (2)















Sotto alberi ‘secolari’ meditai su quel labirinto perduto: lo immaginai inviolato e perfetto sulla cima segreta d’una montagna; lo immaginai subacqueo, cancellato dalle risaie; lo immaginai infine, non già di chioschi ottagonali e di sentieri che voltano, ma di fiumi e di province e di regni...

Pensai a un labirinto di labirinti, a un labirinto sinuoso e crescente che abbracciasse il passato e l’avvenire, e che implicasse in qualche modo anche gli astri. Assorto in queste immagini illusorie, dimenticai il mio destino d’uomo inseguito. Mi sentii, per un tempo indeterminato, percettore astratto del mondo. La campagna vaga e vivente, la luna, i resti del tramonto operarono in me; così anche il declivio, che eliminava ogni possibilità di fatica. La sera era intima, infinita. Il sentiero scendeva e si biforcava, tra i campi già confusi. Una musica acuta e come sillabica s’avvicinava e s’allontanava nel va e vieni del vento, appannata di foglie e di distanza.




Pensai che un uomo può essere nemico di altri uomini, di altri momenti di altri uomini, ma non d’un paese: non di lucciole, di parole, di giardini, di corsi d’acqua, di tramonti. Giunsi, così, a un alto cancello arrugginito. Tra le sbarre, decifrai un viale e una specie di padiglione. Compresi subito due cose, la prima banale, la seconda incredibile: la musica veniva dal padiglione, la musica era cinese. Per questo l’avevo accettata senza residuo, senza prestarle attenzione. Non ricordo se vi fosse un campanello, o un battaglio, o se chiamai battendo le mani.

Il crepitio della musica continuò.

Ma dal fondo del giardino una lanterna s’avvicinava: una lanterna che i tronchi rigavano e ogni poco annullavano… Una lanterna di carta che aveva la forma dei tamburi e il colore della luna. La portava un uomo alto. Non vidi il suo volto, che restava nell’ombra.




Aprì il cancello e disse lentamente nella mia lingua:

 ‘Vedo che il pietoso Hsi P’êng procura di alleviare la mia solitudine. Lei vorrà senza dubbio vedere il giardino?’.

Riconobbi il nome d’uno dei nostri consoli e ripetei sconcertato:

‘Il giardino?’.

‘Il giardino dei sentieri che si biforcano…’… 

      Ed approdai agli odierni campi!


Il giardino dei sentieri che si biforcano è un enorme indovinello, o parabola, il cui tema è il Tempo: è questa causa recondita a vietare la menzione del suo nome.




Omettere sempre una parola, ricorrere a metafore inette e a perifrasi evidenti, è forse il modo più enfatico di indicarla. È il modo tortuoso che preferì, in ciascun meandro del suo infaticabile romanzo, l’obliquo Ts’ui Pên.

Ho confrontato centinaia di manoscritti, ho corretto gli errori introdotti dalla negligenza dei copisti, ho congetturato il piano di questo caos, ho ristabilito, o creduto di ristabilire, l’ordine primitivo, ho tradotto l’opera intera: non vi ho incontrato una sola volta la parola Tempo.

La spiegazione è ovvia.




Il giardino dei sentieri che si biforcano è una immagine incompleta, ma non falsa, dell’Universo quale lo concepiva Ts’ui Pên.

A differenza di Newton e di Schopenhauer, il suo antenato non credeva in un tempo uniforme, assoluto. Credeva in infinite serie di tempo; in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità.

Il tempo si biforca perpetuamente verso innumerevoli futuri.

In uno di questi io sono suo nemico.

Tornai ad accorgermi di quel pullulare che ho detto.

Mi parve che l’umido giardino che circondava la casa fosse saturo all’infinito di persone invisibili….

(Gao Xingjian, La montagna dell’Anima)

 (Prosegue...)













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