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Nella giornata mondiale della Natura....
Prosegue...:
Nell'altro versante della Montagna (2)
Sotto alberi ‘secolari’ meditai su quel
labirinto perduto: lo immaginai inviolato e perfetto sulla cima segreta d’una
montagna; lo immaginai subacqueo, cancellato dalle risaie; lo immaginai infine,
non già di chioschi ottagonali e di sentieri che voltano, ma di fiumi e di
province e di regni...
Pensai a un labirinto di labirinti, a un labirinto sinuoso
e crescente che abbracciasse il passato e l’avvenire, e che implicasse in
qualche modo anche gli astri. Assorto in queste immagini illusorie, dimenticai
il mio destino d’uomo inseguito. Mi sentii, per un tempo indeterminato,
percettore astratto del mondo. La campagna vaga e vivente, la luna, i resti del
tramonto operarono in me; così anche il declivio, che eliminava ogni
possibilità di fatica. La sera era intima, infinita. Il sentiero scendeva e si biforcava,
tra i campi già confusi. Una musica acuta e come sillabica s’avvicinava e s’allontanava
nel va e vieni del vento, appannata di foglie e di distanza.
Pensai che un uomo può essere nemico di
altri uomini, di altri momenti di altri uomini, ma non d’un paese: non di
lucciole, di parole, di giardini, di corsi d’acqua, di tramonti. Giunsi, così,
a un alto cancello arrugginito. Tra le sbarre, decifrai un viale e una specie
di padiglione. Compresi subito due cose, la prima banale, la seconda
incredibile: la musica veniva dal padiglione, la musica era cinese. Per questo
l’avevo accettata senza residuo, senza prestarle attenzione. Non ricordo se vi
fosse un campanello, o un battaglio, o se chiamai battendo le mani.
Il crepitio
della musica continuò.
Ma dal
fondo del giardino una lanterna s’avvicinava: una lanterna che i tronchi
rigavano e ogni poco annullavano… Una lanterna di carta che aveva la forma dei
tamburi e il colore della luna. La portava un uomo alto. Non vidi il suo volto,
che restava nell’ombra.
Aprì il
cancello e disse lentamente nella mia lingua:
‘Vedo che il pietoso Hsi P’êng procura di
alleviare la mia solitudine. Lei vorrà senza dubbio vedere il giardino?’.
Riconobbi
il nome d’uno dei nostri consoli e ripetei sconcertato:
‘Il
giardino?’.
‘Il giardino dei sentieri che si biforcano…’…
Ed approdai agli odierni campi!
Ed approdai agli odierni campi!
Il giardino dei sentieri che si biforcano è un enorme indovinello, o parabola, il cui tema
è il Tempo: è questa causa recondita a vietare la menzione del suo nome.
Omettere
sempre una parola, ricorrere a metafore inette e a perifrasi evidenti, è forse
il modo più enfatico di indicarla. È il modo tortuoso che preferì, in ciascun
meandro del suo infaticabile romanzo, l’obliquo Ts’ui Pên.
Ho
confrontato centinaia di manoscritti, ho corretto gli errori introdotti dalla
negligenza dei copisti, ho congetturato il piano di questo caos, ho
ristabilito, o creduto di ristabilire, l’ordine primitivo, ho tradotto l’opera
intera: non vi ho incontrato una sola
volta la parola Tempo.
La spiegazione è ovvia.
Il giardino
dei sentieri che si biforcano è una immagine incompleta, ma non falsa, dell’Universo
quale lo concepiva Ts’ui Pên.
A
differenza di Newton e di Schopenhauer, il suo antenato non credeva in un tempo
uniforme, assoluto. Credeva in infinite serie di tempo; in una rete crescente e
vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi
che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli, comprende
tutte le possibilità.
Il tempo si
biforca perpetuamente verso innumerevoli futuri.
In uno di
questi io sono suo nemico.
Tornai ad
accorgermi di quel pullulare che ho detto.
Mi parve
che l’umido giardino che circondava la casa fosse
saturo all’infinito di persone invisibili….
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