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D’altra
parte, che gli aeroplani abbiano dato qualche buon risultato è certo. Le
eliche, opponendo un piano obliquo allo strato d’aria, offrono un mezzo di
produrre un lavoro d’ascensione, e i piccoli apparecchi sperimentati provano
che il peso disponibile, cioè quello di cui si può disporre oltre il peso
dell’apparecchio, aumenta col quadrato della velocità. Ecco dei grandi vantaggi
superiori anche a quelli degli aerostati sottomessi ad un movimento di
traslazione.
Tuttavia,
Robur aveva pensato che la cosa migliore fosse in fondo la più semplice. Così
le eliche — quelle ‘sante eliche’ che nel Weldon-Institute gli erano state
tirate in testa — erano bastate a tutti i bisogni della sua macchina volante.
Le une tenevano l’apparecchio sospeso nell’aria, le altre lo rimorchiavano in
meravigliose condizioni di velocità e di sicurezza.
Infatti,
teoricamente, con un’elica di passo sufficientemente corto ma di notevole
superficie, come aveva detto Victor Tatin, si potrebbe, ‘spingendo le cose
all’estremo, sollevare un peso indefinito con la minima forza’. Se l’ortottero
— che batte le ali come gli uccelli — s’innalza appoggiandosi normalmente
sull’aria, l’elicottero si eleva battendola obliquamente con le ali della sua
elica, come se salisse un piano inclinato. In realtà sono ali ad elica invece
di essere ali a pale. L’elica si muove necessariamente nella direzione del suo
asse.
L’asse è verticale? Si sposta verticalmente.
È
orizzontale? Si sposta orizzontalmente.
Tutto
l’apparecchio volante dell’ingegner Robur si basava appunto su queste due
funzioni. Ed ecco la descrizione esatta, che può dividersi in tre parti essenziali:
la piattaforma, i motori di sospensione e di propulsione, e la sala macchine. Piattaforma.
È una struttura, lunga trenta metri, larga quattro, vero ponte di nave con
prora a forma di sperone. Sotto, si arrotonda uno scafo, solidamente costruito,
che racchiude gli apparecchi destinati a produrre la forza meccanica, il
deposito delle munizioni, gli apparecchi, gli utensili, il magazzino generale
delle provviste di ogni genere, comprese le casse dell’acqua.
Intorno a
tale struttura alcuni leggeri montanti uniti da un’intelaiatura di fil di ferro
sostengono una battagliola che serve da corrimano. Sulla sua superficie si
innalzano tre tughe i cui scompartimenti sono adibiti alcuni per alloggio del
personale, altri a sala macchine.
Nella tuga
centrale funziona la macchina che aziona tutti i motori di sospensione; in
quella di prora la macchina del propulsore anteriore; in quello di poppa, la
macchina del propulsore posteriore; queste tre macchine hanno ciascuna la
propria messa in moto.
Nella prima
tuga a prora si trovano un ripostiglio, la cucina e il posto dell’equipaggio.
Nell’ultima
tuga a poppa si trovano parecchie cabine, fra le quali quella dell’ingegnere,
una sala da pranzo, e, sopra, una garitta di vetro ove sta il timoniere che
dirige l’apparecchio col mezzo di un poderoso timone. Queste tughe sono
illuminate da portellini, chiusi con vetro temperato la cui resistenza supera
dieci volte quella del vetro ordinario. Al disotto della chiglia, è disposto un
sistema di molle flessibili, per addolcire gli urti, benché l’atterraggio possa
farsi con la massima dolcezza, tanto l’ingegnere è padrone dei movimenti dell’apparecchio.
Motori di
sospensione e di propulsione. Al disopra della piattaforma, si rizzano
verticalmente trentasette assi, di cui quindici per ogni lato e sette più alti
nel mezzo. Si direbbe una nave con trentasette alberi. Solo che questi alberi,
invece di vele, portano ciascuno due eliche orizzontali, di un passo e di un
diametro assai corti, ma a cui si può imprimere una rotazione prodigiosa.
Ognuno di questi assi si muove indipendentemente dagli altri, e, inoltre, a due
a due, ogni asse gira in senso inverso, disposizione necessaria perché l’apparecchio
non sia preso da un movimento rotativo. In maniera che le eliche, pur
continuando ad innalzarsi sulla colonna d’aria verticale, si fanno equilibrio
contro la resistenza orizzontale.
Conseguentemente,
l’apparecchio è munito di settantaquattro eliche sospensive, le cui tre pale
sono riunite esteriormente da un cerchio metallico, che, facendo l’ufficio di
volano, economizza la forza motrice. A prora e a poppa, montate sopra assi
orizzontali, due eliche propulsive, a quattro pale, di un passo inverso assai
allungato, girano in senso diverso e comunicano il movimento di propulsione.
Anche queste eliche di un diametro maggiore delle eliche di sospensione, possono
girare con estrema velocità.
Insomma,
questo apparecchio si ispira ai sistemi proposti da Cossus, de la Landelle e Ponton d’Amèncourt, ma perfezionato
dall’ingegner Robur. Ma soprattutto nella scelta e nell’applicazione della
forza motrice egli ha diritto di essere considerato inventore.
Sala
macchine.
Né al
vapore acqueo, o ad altri liquidi, né all’aria compressa o ad altri gas
elastici, né a miscele esplosive che producono un’azione meccanica Robur ha
domandato la potenza necessaria per sostenere e muovere il suo apparecchio.
Egli ricorse all’elettricità, a quell’agente, che sarà, un giorno, l’anima del
mondo industriale. Nessuna macchina elettromotrice per produrla; ma solo pile
ed accumulatori. Ma quali sono gli elementi che compongono queste pile, da
quali acidi sono attivate?
È il
segreto di Robur.
Anche per
gli accumulatori. Di quale materiale sono le loro piastre positive e negative?
Lo si
ignora.
L’ingegnere
si era ben guardato – e non senza motivo – di prendere un brevetto
d’invenzione. Insomma, risultato non contestabile; delle pile di un rendimento
straordinario, degli acidi di una resistenza quasi assoluta all’evaporazione e
alla congelazione, degli accumulatori che lasciano molto indietro i Faure- Sellon-Volckmar,
infine delle correnti i cui ampere si leggono con numeri fino allora
sconosciuti.
Ne deriva
una potenza in cavalli elettrici, praticamente infinita, che mette in azione le
eliche che comunicano all’apparecchio una forza di sospensione e di propulsione
superiore a tutti i suoi bisogni, in qualsiasi circostanza. Ma, bisogna
ripeterlo, tutto ciò appartiene solo all’ingegner Robur. E riguardo a ciò egli
ha conservato un segreto assoluto.
Se il presidente
e il segretario del Weldon-Institute non riescono a scoprirlo, questo segreto
andrà molto probabilmente perduto per l’umanità. È inutile aggiungere che
l’apparecchio possiede una stabilità sufficiente per la posizione del centro di
gravità. Non c’è pericolo che faccia degli angoli pericolosi coll’orizzontale;
nessun rovesciamento è da temere.
Rimane da
conoscere quale materia l’ingegner Robur ha adoperato per la costruzione della
sua aeronave, nome che può esattamente applicarsi all’Albatros. Quale materia
era così dura che il bowie-knife di Phil Evans non aveva potuto intaccarla e di
cui Uncle President non aveva saputo spiegare la natura?
Semplicemente
della carta. Già da parecchi anni questo materiale aveva avuto uno sviluppo notevole.
La carta senza colla, i cui fogli sono imbevuti di destrina e di amido, poi
schiacciati nelle presse idrauliche, forma una materia dura come l’acciaio. Se
ne fanno pulegge, rotaie, ruote ferroviarie, più solide delle ruote di metallo
e nello stesso tempo più leggere. Robur aveva appunto voluto utilizzare questa
solidità e questa leggerezza per la costruzione della sua locomotiva aerea.
Tutto! Scafo,
piattaforma, tughe, cabine, era in carta di paglia, divenuta metallo sotto la
pressione, e per giunta (vantaggio non spregevole per un apparecchio che
viaggia a grande altezza) incombustibile. Quanto ai diversi organi dei motori
di sospensione e di propulsione, assi e pale delle eliche, la fibra gelatinosa
ne aveva fornito la sostanza resistente e flessibile ad un tempo.
Questa
materia, che può assumere qualsiasi forma, insolubile nella maggior parte dei
gas e dei liquidi, acidi e essenze, – per non parlare delle sue proprietà
isolanti – era stata impiegata molto utilmente nella costruzione del macchinario
elettrico dell’Albatros.
L’ingegner
Robur, il nostromo Tom Turner, un macchinista e i suoi due aiutanti, due
timonieri e un capocuoco, in tutto otto uomini: ecco il personale
dell’aeronave, che bastava largamente alle manovre richieste dalla locomozione
aerea.
Armi da
caccia e da guerra; congegni da pesca; fanali elettrici; strumenti
d’osservazione, bussole e sestanti per riconoscere la rotta, termometri per lo
studio della temperatura, diversi barometri, alcuni per valutare le altezze raggiunte,
gli altri per indicare le variazioni della pressione atmosferica; uno
stormglass per la previsione delle tempeste; una piccola biblioteca; una
piccola tipografia portatile; un pezzo d’artiglieria montato su perno al centro
della piattaforma, che si caricava dalla culatta e che lanciava un proiettile
di sei centimetri; una provvista di polvere, palle, cartucce di dinamite; una
cucina scaldata dalle correnti degli accumulatori; uno stock di conserve, carni
e legumi, sistemati in una cambusa ad hoc e alcuni barili di brandy, whisky e
gin.
Infine
tutto ciò che poteva permettere di viaggiare alcuni mesi senza scendere a
terra, ecco il materiale e le provviste dell’aeronave, per non parlare della
famosa tromba. Inoltre, c’era a bordo una leggera imbarcazione in caucciù, insommergibile,
che poteva portare otto uomini su un fiume, su un lago e anche sul mare calmo.
Ma Robur
aveva preparato dei paracadute in caso di qualche incidente?
No!
Non temeva
incidenti di questo genere.
Gli assi
delle eliche erano indipendenti. L’arresto delle une non impediva il movimento
delle altre. Il funzionamento della metà bastava a mantenere l’Albatros nel suo
elemento.
— E con
lui, — com’ebbe ben presto occasione di dire Robur il Conquistatore ai suoi
ospiti, ospiti per forza — con lui, sono padrone di questa settima parte del
mondo, più grande dell’Australia, dell’Oceano, dell’Asia, dell’America e
dell’Europa – questa Icaria celeste che migliaia di Icari popoleranno un
giorno!
(J. Verne)
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