1806-1806. Il sacerdote Giovanni Filippi di Gandino ricorda che nel 1805 la Valle Seriana fu notevolmente infestata da due lupi e altre bestie nocive. Un neonato venne rapito dalla culla, altre persone adulte, due delle quali perite e altre rese quasi inabili al lavoro dalle ferite, furono le disgraziate vittime delle stragi di tali animali feroci. Il religioso, pratico di caccia alleato con feroci malviventi, si mise a fabbricare a proprie spese alcune piccole capanne alle falde dei monti e nei luoghi più frequentati da queste bestie feroci, dove, collocando alcuni archibugi nottetempo e mediante un certo ordigno diretto sotterraneamente e senza alcun pericolo de’ passeggeri... nel 1806 rimasero estinti da se stessi, senza andar fallito neppure un colpo, cinque grossi lupi. I lupi vennero uccisi nell’ultimo trimestre del 1806 e il Filippi, che per provarne la cattura ha conservato le mascelle (del loro dire vantandosi pubblicamente per mezzo di agnelli... come grassi corrotti putti) si vantò pubblicamente di averne estirpato ragione e sentimento, privando loro di ogni sussistenza... e alimento... I lupi, almeno due di loro, così si narra e si narrerà ancora, tornarono sugli stessi luoghi per rimembrare alle italiche genti il potere della Natura ferita dalle corrotte gesta di cotal meschino piccolo paese... Tale Rima dedicata a tutti i miseri meschini governanti di questo piccolo regno terreno... Il loro Spirito troppo misero per intenderne l'intera Poesia che la Natura a loro riserva! La Storia gli conferirà giusto merito...
(L’uomo e la bestia antropofaga)
Bruciati di fretta su una piazza
scolpita nella nostra memoria.
I due muoiono arsi dall’ingiuria
dello stesso fuoco,
come animali braccati
e poi divorati,
dal popolo in nome
del loro Dio,
e il suo strano sacrificio.
E per la fame nemica del sapere,
ventre della falsa memoria…,
…dell’intera storia.
I due muoiono come bestie,
lupi che corrono assieme,
all’ombra di un fuoco mai spento,
ora brucia e soffia cenere al vento.
Cena segreta,
dottrina non detta,
scritta nella parola
da chi conosce fame e dolore…,
nel loro Tempo senza amore. (59)
Si raccontò poi,
molti anni dopo,
che i due furon rivisti
in cima alla pietra…,
d’una antica collina.
Due lupi animano la piazza,
ululando la loro pena
ad una città interdetta.
Illuminano così le notti
di troppi bigotti,
perché nel parlare di queste
povere bestie,
confondono ragione e fede.
Convinti che la coscienza
mal riposta del loro peccato,
riposa ora in un nuovo latrato.
Incubi e sudori tutte le sere,
mentre i due lupi vegliano
la strana fede,
nel perimetro di un recinto
di bestie sommesse,
che al belare della preghiera
han fatto la loro promessa…,
di una sicura difesa.
Contro i due diavoli e le loro notti,
contro le tenebre ed oscure promesse.
Strane passioni in strane parole,
che vagano ora alla luce del sole. (60)
Il popolo è pecora nell’ora
dove l’anima cammina
e non più implora.
L’uomo è lupo
con la donna sua sposa,
nella corsa di una lupa,
donna mai morta.
Gli occhi loro fin troppo
belli,
e felici di nuovo.
La lingua fra i denti
non implora perdono.
Parlare della loro storia
e cantarne in silenzio..,
il fuoco mai spento.
Perché un altro Dio
li ha restituiti al vento,
di un’antica eresia…,
…..senza tempo. (61)
Il gregge si unisce…,
così come è suo dovere,
e il buon pastore lo conta
come pecunia
del ricco padrone,
…così come si deve!
Nella notte profonda
che ora diviene
solo tormento,
il pastore comanda
al fedele cane..,
di navigare nello scuro mare.
La sua Terra deve liberare
da chi la vuol azzannare.
Per un lupo che non è più bestia,
ma solo un incubo
che attende vendetta. (62)
Sarà che son io che li ho creati
e poi anche allevati.
I loro racconti mai morti
son diventate rocce nascoste
di tante anime sospese,
sacrificate nel folle momento
di un terremoto figlio
del loro tempo.
Sarà che son io,
che li ho visti parlare,
l’ululato muto è spirato,
soffocato nell’urlo violento
di un intero popolo
che grida contento.
Sarà che son io,
che ho visto quel vile,
sommesso chiuso nell’ovile,
e nel perimetro ristretto
vicino ad un tempio.
Di guardia solo un pastore,
cane fedele a tutte le preghiere,
…a contare i miseri agnelli,
rubati e pascolati
come tanti denari.
Pecunia di Dio
e di un cane pastore,
ora non morde ma conta le ore
mentre veglia la croce. (63)
Mentre i due lupi
mi han ricambiato
la cortesia,
parola appena intuita
dalla pecunia assopita.
Ora restituita alla memoria.
Giammai il perdono
di un peccato mai celebrato,
ma solo la rima
che ridona parola,
ad una vita senza onore e gloria.
Sacrificata sulla piazza
come bestia braccata,
senza nemmeno un’ultima speranza
per la pecora
….che ora avanza.
Muta pecunia che conta l’ora,
sogno di un Dio
…..e la sua parola. (64)
Sarà che son io quel Dio
taciuto,
nell’ultimo disperato urlo.
Secondo al Primo,
perché nella sua gloria,
è convinto del dono della parola.
Sarà che son io la parola negata,
né scritta né dipinta
sulla volta o il pavimento,
di un nuovo convento.
Dove al libro della vita
rubarono perfino la rima,
per un ingorda bugia
che è solo idolatria. (65)
Sarà che son io quel Dio
che ridona l’amore,
ad un uomo che piange
del suo stesso dolore.
La donna così bella
è mutilata
della sua bellezza,
riflessa negli occhi
pieni di terrore.
I due non osano parola
nell’ultima ora,
la grande paura
ha mutilato
perfino l’ingegno.
L’istinto ho mutato in folle
corsa,
in compagnia del vento,
ridona la forza
ad un sogno mai spento.
Il ghiaccio modella i bei
lineamenti,
la neve come allora..,
li fa di nuovo contenti.
L’acqua li disseta,
e la luna gli insegna una nuova
preghiera.
La foresta danza con loro
l’antica poesia,
….una terra promessa…,
per scoprire la vita. (66)
Io ho restituito loro
il sorriso,
e l’ultima smorfia di dolore
è divenuta una rima,
per ogni notte del buon pastore.
Così da contarne le ore…,
per ogni rima
….del loro eterno amore. (67)
Ora il loro pensiero
diviene linguaggio perfetto,
mentre azzanna il petto.
Ventre bianco ricolmo d’interiora,
un’anima che prega
per la sua ora.
Candido e bianco più della neve,
dal collo dove ora sgorga
il vino del loro piacere.
Sangue reale….,
anche se bevuto,
….non fa poi così male. (68)
La pecunia rantola nell’incubo
che avanza,
scalcia nel buio della sua sostanza,
rubata ad una coppia che ora
non più dorme…,
l’eterno sonno della morte.
Forse perché nel freddo di un mondo
che non muore.
Il loro sogno invece,
crepa in lenta e tranquilla agonia,
nel bianco candore
di un belato lungo la via. (69)
I due lupi turbarono le notti
ed i giorni migliori
di troppi pastori,
sacrificano con quelli
i loro cani pastori.
Li trovano morti e sanguinanti,
con gli schioppi stretti fra le mani.
Li trovano legati alla catena,
con la bava che scende dalla bocca.
Gli occhi come chi prega,
l’urlo sommesso
della stessa preghiera.
Il collo squarciato l’orecchio inciso,
da chi ha sofferto uguale tormento,
…ma ora corre libero
nel vento! (70)
Son io che gli ho restituito
memoria,
nell’ultimo desiderio
prima che l’anima fugga
di nuovo nel vento.
Quel rantolo di dolore
ho trasformato in terrore,
chi pensa di aver ucciso
l’amore.
Il grido ho trasformato
in eterno sorriso.
Non è insano tormento,
ma ululato che spezza il vento.
Mi guardano fieri lungo la via,
mi seguono muti fino alla piazza,
mi indicano il posto
e mi insegnano le parole..,
del loro segreto amore.
Io non faccio null’altro
che ricambiare gentil cortesia,
e cantare il dolore oramai muto
di un uomo e una donna,
ora mi fanno eterna compagnia.
Nel segreto di una verità…
che mai sarà mai dottrina,
perché racchiusa nel silenzio
di ogni rima e strofa
nascosta.
Eterna poesia dell’anima mia! (71)
Son io quell’uomo che cammina
senza sera e mattina,
vago pure di notte a vegliar
le porte.
Ogni uscio della falsa dottrina,
mi porta pure a sfidare
la mala sorte,
di ogni ora del giorno e della notte.
Sull’uscio dell’ovile
per scolpire di rosso
il loro dormire.
Son io quell’uomo senza ora,
vago contento…,
senza forma né tempo,
lontano dal perimetro
di una falsa geografia.
Li vuole tutti nel circolo
d’una pia illusione,
inganno imperfetto nominato tempo.
A spasso con l’ora che segna
il nostro destino e l’ultima parola,
…bruciata senza memoria. (72)
Contar i minuti d’un campanile
del suo troppo rumore,
per radunar la folla nel rito,
senza la presenza
di alcun Dio.
Per radunar la gente,
solo per veder morir
un innocente.
La campana annuncia la venuta,
lento sacrificio mai spento,
solo un uomo che urla
nel vento.
Giammai raccolsi pentimento,
in quel grido di rabbia
lasciato al vento.
Giammai vidi peccato
nel suo amore braccato,
ora corre senza lamento…,
libero da ogni tormento. (73)
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