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I tragici
eventi occorsi dal 1929 alla fine del
1931, non furono che il preludio della tragedia che si compì nel giro di
pochi mesi, dall’autunno 1932 alla
primavera dell’anno successivo. Non riuscendo a domare i ribelli contadini
con i più crudi strumenti repressivi, alternati a fasi di relativa tregua, Stalin si risolse ad adottare una misura estrema mai
prima di lui concepita e attuata su scala così vasta: lo sterminio per fame di
una parte della popolazione rurale.
Ancora
prima che la loro terra conquistasse l’indipendenza, gli ucraini all’estero
equipararono ad un vero e proprio genocidio nazionale quello che oggi chiamiamo
holodomor (il termine non esisteva ancora). Dopo il 1991, poi, gli storici e
l’opinione pubblica del nuovo Stato indipendente hanno accolto senza
tentennamenti questa tesi, chiamando talvolta il martirio subìto dal loro
popolo all’inizio degli anni Trenta l’‘olocausto
ucraino’.
È invece
lecito, e perfino doveroso, definire genocidio sociale la carestia terroristica
che, nel 1932-1933, rubò la vita ad
alcuni milioni - da tre a quattro - di agricoltori ucraini. Del resto, sono
molti gli storici, anche russi, che concordano nel considerare un genocidio
sociale la decimazione della popolazione contadina, anche ucraina, decisa da
Stalin per collettivizzare le campagne. Quel che essi negano risolutamente è
che il caso ucraino sia stato diverso da tutti gli altri, che cioè gli
agricoltori di quella terra siano stati crudelmente puniti non solo perché
contadini, ma anche perché appartenenti ad una determinata comunità nazionale.
[…..]
Avanti di
chiudere questa mesta rassegna dei riusciti tentativi di occultare e negare la
verità, converrà ricordare la solitaria battaglia di un intellettuale il quale,
per primo, osò parlare di genocidio. Raphael
Lemkin (1900-1959) proveniva da
una famiglia ebraica della regione di Grodno, che oggi fa parte della
Bielorussia e che era stata una provincia dell’impero russo prima di passare
alla Polonia dopo la grande guerra. Compì gli studi universitari a Leopoli,
dove frequentò la facoltà di giurisprudenza, interessandosi in special modo di
diritto penale internazionale e indagando, tra l’altro, sul massacro degli
armeni durante la prima guerra mondiale.
Dopo
l’invasione tedesca della Polonia, migrò in vari paesi per approdare infine
negli Stati Uniti. Qui scrisse una circostanziata denuncia dei crimini della
Germania nazista nei paesi europei da essa occupati.
Fu lui, durante la guerra, ad usare per primo il termine genocidio, che entrò poi a far parte del lessico ufficiale delle Nazioni Unite.
Finita la
guerra e sconfitto il nazismo, Lemkin concentrò la sua attenzione sulla
politica espansionistica e oppressiva dell’Unione Sovietica nell’Europa
orientale, ravvisandovi una deliberata volontà di cancellare le tradizioni
nazionali e l’identità di quei popoli. Entrato in contatto con la comunità
ucraina degli Stati Uniti, accettò nel
1953 l’invito a commemorare a New York la grande fame di vent’anni prima.
In
quell’occasione pronunciò un intervento di chiara e netta denuncia delle responsabilità
del governo di Mosca.
Il suo Soviet Genocide in Ukraine inseriva la distruzione della nazione ucraina nel più ampio programma di russificazione, perseguito con tenacia dal regime comunista in continuità con la brutale politica dell’impero zarista.
Il
genocidio ucraino non era che la logica prosecuzione, su scala più ampia, della
guerra contro le minoranze nazionali (i tatari di Crimea o gli ebrei) condotta,
prima del 1917, dal regime zarista.
Il caso
ucraino faceva parte di un più ampio progetto criminoso:
‘È parte
essenziale del programma sovietico di espansione, perché offre un modo rapido
di trasformare in unità la diversità delle culture e delle nazioni che
costituiscono l’impero sovietico’.
Eppure, se
il programma sovietico ha completo successo, se l’intellighenzia, i preti e i
contadini possono esser eliminati, l’Ucraina sarà morta come se ogni ucraino
venisse ucciso, perché avrà perduto quella parte di se che ha custodito e
sviluppato la sua cultura, le sue credenze, le sue idee comuni, le quali
l’hanno guidata e le hanno dato un’anima e, insomma, ne hanno fatto una nazione
anziché una massa di gente.
Quella di
Lemkin rimase a lungo la voce solitaria di chi grida nel deserto.
[PROSEGUE CON IL POST COMPLETO]
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