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IL LUOGO. Il Padre delle Acque, il
Mississippi, il fiume più vasto del mondo, fu il degno teatro di
quell’impareggiabile canaglia. (lo scoprì Álvarez de Pineda, e il primo a
esplorarlo fu il capitano Hernando de Soto, antico conquistatore del Perù, che lenì
i mesi di prigionia dell’inca Atahualpa insegnandogli il gioco degli scacchi. Alla
sua morte, gli diedero sepoltura in quelle acque).
Il
Mississippi è fiume dall’ampio petto; è un infinito e scuro fratello del Paraná,
dell’Uruguay, del Rio delle Amazzoni e dell’Orinoco. È un fiume dalle acque
mulatte; oltre quattrocento milioni di tonnellate di fango insultano annualmente
il Golfo del Messico, in cui si riversano. Tanta immondizia venerabile e antica
ha formato un delta, dove i giganteschi cipressi dei pantani si nutrono delle
spoglie di un continente in perpetua dissoluzione e dove labirinti di fango, di
pesci morti e di giunchi dilatano le frontiere e la pace del suo fetido impero.
Più a monte,
all’altezza dell’Arkansas e dell’Ohio, si estendono altre terre basse.
Le abita
una stirpe giallastra di uomini sparuti, inclini alle febbri, che guardano con
avidità le pietre e il ferro, perché fra di loro non c’è altro che sabbia e
legna e acqua torbida.
GLI UOMINI. Agli inizi del diciannovesimo secolo (il periodo che ci interessa), nelle vaste piantagioni di cotone di quelle rive i negri lavoravano dall’alba al tramonto. Dormivano in baracche di legno, sulla nuda terra. A parte il rapporto madre-figlio, le parentele erano convenzionali e torbide. Avevano un nome, ma potevano prescindere dai cognomi. Non sapevano leggere. La loro voce in falsetto cantilenava intenerita un inglese dalle lente vocali.
Lavoravano
in fila, curvi sotto lo staffile del caposquadra. Fuggivano, e uomini dalla
lunga barba saltavano su bei cavalli e forti cani da presa li braccavano.
A un
sedimento di speranze bestiali e di paure africane avevano sovrapposto le
parole della Scrittura: la loro fede era dunque quella di Cristo. Cantavano con
tono profondo e in gruppo: Go Down Moses. Il Mississippi offriva loro una magnifica
immagine del sordido Giordano. I proprietari di quella terra laboriosa e di
quella massa di negri erano oziosi e avidi gentiluomini dalla lunga chioma, che
abitavano grandi dimore affacciate sul fiume – tutte con un porticato
pseudogreco di pino bianco.
Un buono
schiavo costava loro mille dollari e non durava molto. Alcuni erano tanto
ingrati da ammalarsi e morire. Bisognava ottenere da quegli infidi il maggior
rendimento possibile. Per questo li tenevano nei campi dal sorgere al calar del
sole; per questo esigevano dai loro possedimenti un raccolto annuale di cotone
o tabacco o zucchero.
La terra, fiaccata e malmenata da quella coltura impaziente, diventava in pochi anni sterile: il deserto confuso e melmoso invadeva le piantagioni. Nei poderi abbandonati, nei sobborghi, nei canneti folti e nelle fangaie abiette vivevano i poor whites, la feccia bianca. Erano pescatori, cacciatori vagabondi, banditi. Mendicavano dai negri avanzi di cibo rubato, e nella loro degradazione conservavano un orgoglio: quello del sangue senza fuliggine, senza mescolanza.
Lazarus
Morell fu uno di questi.
L’UOMO. I dagherrotipi di Morell
che compaiono sulle riviste americane non sono autentici. Questa carenza di
genuine effigi di un uomo tanto memorabile e famoso non può essere casuale. È
lecito supporre che Morell si sia negato alla lastra fotografica;
essenzialmente per non lasciare inutili tracce, ma anche per alimentare il suo
mistero...
Sappiamo
tuttavia che in gioventù non fu attraente e che gli occhi troppo vicini e le
labbra sottili non predisponevano in suo favore. In seguito gli anni gli
conferirono la peculiare maestà delle canaglie incanutite, dei criminali fortunati
e impuniti.
Malgrado
l’infanzia miserabile e la vita ignominiosa, era un vecchio gentiluomo del Sud.
Non ignorava le Scritture e predicava con singolare convinzione.
Lazarus Morell io l’ho visto sul pulpito,
…annota il
proprietario di una casa da gioco di Baton Rouge, Louisiana…
e ho ascoltato le sue parole edificanti e ho
visto i suoi occhi riempirsi di lacrime. Sapevo che era un adultero, un ladro
di negri e un assassino al cospetto del Signore, ma anche i miei occhi hanno
pianto.
Un’altra preziosa
testimonianza di quelle sante effusioni è fornita dallo stesso Morell.
Aprii a caso la Bibbia, mi imbattei in un
versetto di san Paolo che veniva a proposito e predicai per un’ora e venti
minuti. Anche Crenshaw e i compagni non persero tempo, perché rubarono tutti i
cavalli dell’uditorio. Li vendemmo nello Stato dell’Arkansas, tranne un baio
molto vivace che riservai al mio uso personale. Piaceva pure a Crenshaw, ma io
gli dimostrai che non gli serviva.
IL METODO. I cavalli rubati in uno Stato e venduti in un
altro furono solo una digressione nella carriera criminale di Morell, ma
prefigurarono il metodo che ora gli assicura un degno posto in una Storia Universale dell’Infamia.
Metodo unico non solo per le circostanze sui generis che lo determinarono, ma anche per l’abiezione che richiede, per il funesto sfruttamento della speranza e per l’evolversi graduale, simile all’atroce dipanarsi di un incubo.
Al Capone e
Bugs Moran agiscono con illustri capitali e con mitra servili in una grande
città, ma il loro operato è volgare.
Si
contendono un monopolio, tutto qui...
Quanto a uomini
(i fedeli SEGUGI), Morell arrivò a comandarne un
migliaio, tutti vincolati da giuramento. Duecento di loro componevano il Gran
Consiglio, e gli altri ottocento eseguivano gli ordini che questo promulgava.
Il rischio toccava ai subalterni. In caso di ribellione venivano consegnati
alla giustizia o gettati nel fiume impetuoso di grevi acque, con una pietra
assicurata ai piedi.
Spesso
erano mulatti.
Percorrevano
– con qualche effimero lusso di anelli, per incutere rispetto – le vaste
piantagioni del Sud. Individuavano un negro disperato e gli offrivano la libertà
e una illusoria parvenza di civile addomesticamento. Gli dicevano di fuggire
dal suo padrone, così che loro potessero venderlo una seconda volta in qualche
tenuta lontana. Allora gli avrebbero dato una percentuale sul prezzo della
vendita e l’avrebbero aiutato a evadere di nuovo.
Poi lo
avrebbero portato in uno Stato libero (ovvero, lo avrebbe allevato e/o
addomesticato ancora…).
Denaro e
libertà, sonanti dollari d’argento e insieme la libertà: quale più forte
tentazione?
Il
bestiale schiavo azzardava la prima fuga.
La via
naturale era il fiume. Una canoa, la stiva di un battello a vapore, una scialuppa,
una zattera vasta come un cielo con un capanno a un’estremità o alte tende di
iuta; non aveva importanza il luogo, ma il sapersi in movimento, al sicuro
sull’infaticabile fiume...
Lo
vendevano in un’altra piantagione.
Di nuovo fuggiva nei canneti e nelle forre. Allora i terribili benefattori (di cui cominciava ormai a diffidare) adducevano vaghe spese e sostenevano di doverlo vendere un’ultima volta. A quel punto gli avrebbero dato la percentuale sulle due vendite e la libertà. L’uomo si lasciava vendere, lavorava per qualche tempo e nell’ultima fuga sfidava il pericolo dei cani da presa e delle frustate.
Ritornava pieno
di sangue, sudore, disperazione e sonno.
LA LIBERTÀ FINALE. Resta da considerare l’aspetto
giuridico di questi fatti. Il negro (la bestia) non veniva messo in vendita dai
sicari di Morell sino a quando il padrone originario non aveva denunciato la
fuga e offerto una ricompensa a chi l’avesse trovato.
Allora chiunque
poteva tenerselo, e la sua ulteriore vendita era un abuso di fiducia, non un
furto. Ricorrere alla giustizia civile era una spesa inutile, perché i danni
non venivano mai pagati. Tutto ciò era quanto mai rassicurante, ma non
all’infinito.
Il negro imbestalito poteva parlare; il negro, semplicemente per riconoscenza o sventatezza, era capace di parlare. Qualche pinta di whisky di segala nel postribolo di El Cairo, Illinois, dove quel figlio di cagna nato schiavo sarebbe andato a scialacquare quei soldi che non avevano alcuna ragione di dargli, e avrebbe rivelato il segreto.
In quegli anni,
un Partito abolizionista agitava il Nord, una schiera di pazzi pericolosi che negavano
la proprietà e predicavano la libertà dei negri incitandoli a fuggire. Morell
non si sarebbe lasciato confondere con quegli anarchici. Non era uno yankee,
era un uomo bianco del Sud figlio e nipote di bianchi che amavano la caccia e i
suoi segreti appresi fin da giovani, e sperava di potersi ritirare dagli affari
e vivere come un gentiluomo e avere i suoi acri di campi di cotone e le sue
curve file di schiavi, ed andare anche lui alla caccia alla volpe!
Con tutta
la sua esperienza, non era disposto a correre rischi inutili. Il fuggiasco
aspettava la libertà. Allora i foschi segugi mulatti di Lazarus Morell si trasmettevano
un ordine che talvolta era solo un cenno e lo liberavano della vista,
dell’udito, del tatto, del giorno, dell’infamia, del tempo, dei benefattori, della
misericordia, dell’aria, dei cani, dell’universo, della speranza, del sudore e di
se stesso.
Una pallottola, una pugnalata a tradimento o un colpo di bastone, e le tartarughe e i barbi del Mississippi sarebbero stati gli unici a sapere.
LA CATASTROFE. In mano a uomini di
fiducia, l’affare era destinato a prosperare. Agli inizi del 1834 una settantina di negri erano già stati
emancipati da Morell, e altri si accingevano a seguire quei fortunati
precursori. La zona delle operazioni si era ampliata ed era necessario
accettare nuovi adepti.
Fra quanti
prestarono giuramento c’era un ragazzo dell’Arkansas, Virgil Stewart, che ben
presto si distinse per la sua crudeltà.
Questo
ragazzo era nipote di un gentiluomo che aveva perso molti schiavi. Nell’agosto del 1834 violò il
giuramento e denunciò Morell e gli altri. La casa di Morell a New Orleans fu
circondata dalla polizia.
Grazie a
un’imprevidenza o a una mazzetta, Morell riuscì a scappare.
Passarono tre giorni. Morell rimase nascosto per tutto il tempo in una vecchia casa, dai cortili pieni di statue e rampicanti, in Toulouse Street. Pare che non mangiasse quasi nulla e che vagasse scalzo per le grandi stanze buie, fumando pensosi sigari. Tramite uno schiavo della casa fece recapitare due lettere alla città di Natchez e un’altra a Red River. Il quarto giorno tre uomini entrarono in casa e si fermarono a discutere con lui fino all’alba. Il quinto, Morell si alzò all’imbrunire, chiese un rasoio e si fece accuratamente la barba.
Si vestì e
uscì.
Attraversò
con lenta serenità i sobborghi a nord, quando fu in aperta campagna, lungo le
terre basse del Mississippi, accelerò il passo. Il suo piano era di un’audacia
da ubriachi. Morell contava di utilizzare gli ultimi uomini che ancora gli
dovevano obbedienza: i servizievoli negri del Sud. Costoro avevano visto
fuggire i loro compagni e non li avevano visti tornare. E dunque li credevano
liberi. Il piano prevedeva la sollevazione generale dei negri, la presa e il
saccheggio di New Orleans e l’occupazione del suo territorio.
Marciai per quattro giorni prima di riuscire a
trovare un cavallo. Il quinto feci una sosta presso un ruscello per rifornirmi
d’acqua e riposare. Ero seduto su un tronco, intento a osservare il percorso
compiuto in quelle ore, quando vidi avvicinarsi un uomo su un cavallo scuro di
buona razza. Non appena lo avvistai, decisi di prendergli il cavallo. Mi alzai,
gli puntai contro una bella pistola a tamburo e gli dissi di scendere. Lui
obbedì e io presi le redini con la sinistra, gli indicai il ruscello e gli
ordinai di camminare dritto davanti a sé. Fece circa duecento passi e si fermò.
Gli ordinai di spogliarsi.
Mi disse:
“Visto che ha già deciso di ammazzarmi, mi lasci
almeno pregare prima di morire”.
Gli risposi che non avevo tempo di ascoltare le
sue preghiere. Cadde in ginocchio e gli piantai una pallottola nella nuca. Gli
squarciai il ventre, gli strappai le viscere e lo gettai nel ruscello. Poi
frugai nelle tasche e trovai quattrocento dollari e trentasette centesimi e un
mucchio di carte che non persi tempo a guardare. I suoi stivali erano nuovi di
zecca e mi andavano bene. I miei, che erano molto logori, li gettai nel
ruscello. Così mi procurai il cavallo che mi occorreva per entrare a Natchez’.
L’INTERRUZIONE. Morell alla guida di folle di negri bestiali o imbestialiti che sognavano di impiccarlo, Morell impiccato da eserciti di imbestialiti negri che sognava di guidare – mi duole confessare che la storia del Mississippi non colse tali magnifiche opportunità. A dispetto di ogni giustizia poetica (o simmetria poetica), neppure il fiume dei suoi crimini fu la sua tomba. Il 2 gennaio del 1835, Lazarus Morell morì di congestione polmonare all’ospedale di Natchez, dove si era fatto ricoverare sotto il nome di Silas Buckley. Un compagno di corsia lo riconobbe. Il 2 e il 4 gennaio gli schiavi di certe piantagioni tentarono una sollevazione, che fu stroncata senza troppo spargimento di sangue.
(J.L. Borges)
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