E un nome qual turpe destino (1)
& taluni Fotogrammi
Si dice che una rondine non fa primavera; ma
perché una rondine non fa primavera, dovrà essa, che la primavera presenta, non
volare, dovrà essa aspettare?
Allora ogni Elemento della Natura e con lui ogni
filo d’erba dovrebbe aspettare, e così la primavera non verrebbe mai!
E con lei ogni Stagione del vero Creato!
Non vuol essere né una risposta né una
affermazione lapidaria, semmai una speranza per ogni Stagione maturata
nell’ideale della Democrazia, là ove regna fallace imperialismo mascherato da
patriottismo.
Una risposta a coloro che rimproverano ai ‘rivoluzionari’,
quando ‘rivoluzione’ e ‘rivoluzionario’ vogliono dire giustizia e sano intendimento
del più alto Ideale difeso dimenticato ed abdicato ad un falso principio
mascherato per patriottismo, sovvertendo il vero Ideale incarnato da cui esilio
e veleno, confine e dolore, gulag e disperazione, calunnia e persecuzione…, e
di cui il Rivoluzionario, così come ogni Cristo e profeta braccato ed ucciso in
nome d’un più profondo Principio affine sia alla dovuta Ragione che al suo
corretto intendimento specchio della Patria per ogni uomo libero in essa; ogni Patria,
e non solo la propria Terra; ogni Terra Nazione e Comunità la quale
correttamente intende ed interpreta l’Ideale e non più ‘demagogica Rivoluzione’,
riflettendo e smascherando i termini ‘discorsivi’ in cui costretti Ragione e
Rivoluzione, Patria e Governo, Legge e Diritto, vilipesi in nome e per conto
d’un falso patriottismo.
La Verità ‘discorsiva’, si trova nella corretta interpretazione e relativo svolgimento entro gli stessi canoni che corrono fra un ‘Governo anarchico’ e le proprie ‘fallaci istituzioni’ (nel nostro caso - ed in ogni caso - ove la Verità viene piegata alle urgenze del Potere o meglio della dittatura), ed il Tempo necessario per evidenziarla e riporla nella originaria e più consona funzionalità all’interno di ugual medesimo discorso ‘grammaticalmente corretto’ tanto dalla Ragione che della relativa ‘grammatica’ con cui intenderne la Storia (nel Tempo numerata), sia umana non meno della Natura da cui l’uomo appartiene e che al meglio esplicita ed intende regola e sovrintende Legge e Diritto (e non solo del più forte), e con loro il Libero Arbitrio…
Per ogni Stagione persa…
Da ciò che ne deriva, o dovrebbe, nella
differenza fra un esule avvelenato, un giornalista braccato e ugualmente
imprigionato, un attivista ogni attivista perseguitato, e l’anarchico governo
che manifesta la propria urgenza di potere incolpandolo del proprio (auto)avvelenamento
nella lucida Verità sottratta al più vasto Regno del Diritto dell’Essere ed
appartenere alla medesima Terra, con la grammatica con cui scritto cotal
unanime avvenire, dacché potremmo trarne ancora le dovute conclusioni: Principi
e Motivi circa il Tempo unanimemente vissuto da cui le Stagioni della Natura
irrimediabilmente avvelenata e da cui, e non per ultimo, l’uomo e la rondine
per la primavera d’ogni Stagione e con Lei la dovuta Ragione irrimediabilmente
persa…
RISPOSTA AD UN FILOSOFO
È assolutamente possibile che la Russia
possa conoscere di nuovo il feudalesimo, o perfino una società in cui viga la
schiavitù, o magari l’emersione di una società comunista o primordiale. Coloro
che si burlano di queste ipotesi sono prigionieri della modernità ipnotica.
Riconoscendo la reversibilità del tempo storico-politico, siamo approdati a un
nuovo punto di vista pluralistico per la scienza politica, e abbiamo raggiunto
la prospettiva avanzata necessaria per una nuova costruzione ideologica.
(A. Dugin)
Le Sante Scritture riconoscevano dei padroni e degli schiavi, è sempre stato così; ed ecco che i vostri ‘scrittori’ vogliono cambiare il mondo!,
Si diceva
della schiavitù.
I filosofi,
i saggi della terra hanno riconosciuto unanimemente la legittimità, la santità
della guerra e noi crederemo che la guerra sia inutile?
Si dice
oggi della guerra, ma la coscienza cresce sempre più si afferma; e il numero
degli uomini che riconoscono la verità nuova aumenta ogni giorno; e l’ironia e
il disprezzo fanno posto all’astuzia e all’impostura.
Si sostiene
l’errore, ma senza fingere di ignorare; non si nega più l’assurdità, la
crudeltà delle istituzioni che si difendono, ma si allega che l’abolizione è
ancora impossibile e che bisogna rimetterla a un’epoca indeterminata.
Senza
dubbio, la schiavitù è un male; ma l’umanità non è matura per la libertà, e la
liberazione degli schiavi produrrà terribili disgrazie, si diceva della
schiavitù quarant’anni fa.
Senza
dubbio, la guerra è un male, ma finché gli uomini saranno simili alle bestie
feroci, la soppressione degli eserciti produrrebbe mali maggiori, si dice della
guerra oggi.
Tuttavia
l’idea fa strada; essa cresce, brucia la menzogna; ed è per giungere il tempo
in cui l’assurdità, la follia, il danno e l’immortalità dell’errore saranno
così evidenti che nessuno oserà difenderle.
È avvenuto così della schiavitù, in sessant’anni in Russia e in America, e oggi è similmente della guerra. Allora si era schiavisti senza osare di giustificare la schiavitù, oggi non si tenta più di giustificare né la guerra né l’esercito; si tace, si conta sulla forza dell’inerzia che li mantengono ancora; ma si sa benissimo che tutta questa crudele e immorale organizzazione non ha che un’apparenza di solidità e può crollare da un momento all’altro per non mai più risorgere.
Che una
goccia di acqua si infiltri in una diga, che una sola pietra cada da un
colossale edificio, che una sola maglia si rompa della rete la più resistente,
e la diga è trasportata via, l’edificio crolla, la rete si lacera.
Imposto da
motivi comuni all’umanità intera, il rifiuto di obbedienza di Van der Veer può
essere, secondo me, questa goccia d’acqua, questa pietra, questa maglia rotta. Il
rifiuto di obbedienza di Van der Veer sarà forzatamente seguito da rifiuti
consimili, e sempre più frequenti. Appena il numero di questi rifiuti sarà
considerevole, gli uomini che, ieri ancora, pretendevano che la vita è
impossibile senza la guerra, gli stessi uomini, e sono legione, diranno che,
già da lungo tempo, essi proclamano la follia e l’immoralità della guerra e
consigliano di agire come ha fatto Van der Veer.
E allora,
della guerra e dell’esercito, sotto la forma che essi hanno attualmente, non
resterà che il ricordo. E questi tempi sono vicini.
Van der Veer rifiuta di servire non secondo il comandamento ‘Voi non ucciderete’, non perché è cristiano, ma perché crede che l’omicidio contrario alla ragione dell’uomo. Egli scrive che odia ogni omicidio e a un tal punto che è divenuto vegetariano per non farsi complice del massacro degli animali, e soprattutto aggiunge che rifiuta di servire perché considera l’omicidio per ordine, vale a dire l’obbligo di uccidere quelli che vi si ordina di uccidere, come un atto incompatibile con la dignità umana.
All’obiezione
corrente: ‘Se voi non servite e altri imitano il vostro esempio, l’ordine
attuale sarà distrutto’, risponde che, precisamente, egli non vuole mantenere
l’ordine attuale, perché quest’ordine dà ai ricchi il potere sul povero e
questo non dev’essere.
Quantunque
avesse egli avuto qualche dubbio sul carattere di obbligazione o non al
servizio militare, il solo pensiero che, soldato egli diveniva per la violenza
e la minaccia l’appoggio del ricco oppressore contro il povero oppresso,
avrebbe fatto di lui un refrattario.
Se Van der
Veer avesse dato, come motivo del suo rifiuto disobbedienza, la sua qualità di
membro di una delle confessioni cristiane, gli uomini che debbono entrare al
servizio avrebbero potuto dire: ‘Io non sono di alcuna setta, non riconosco la
religione cristiana, e per conseguenza, non mi credo tenuto ad agire come lui’.
Ma le ragioni allegate da Van der Veer sono così semplici, così chiare, così comuni a tutti, che è impossibile non farle proprie. D’ora innanzi ogni uomo che non vorrà disconoscere per se stesso il carattere di obbligazione dovrà dire: ‘Io amo uccidere, sono pronto a uccidere, non solo i miei nemici, ma pure i miei disgraziati compatrioti oppressi, e non trovo niente di male nell’impegno che prendo di uccidere, sull’ordine del primo venuto dei miei capi, tutti quelli che quest’ordine indicherà di uccidere’.
La cosa è
ben semplice.
Si è
insegnato a un giovane qualunque, in qualunque luogo, in qualunque famiglia, in
qualunque confessione sia egli cresciuto, che bisogna essere buoni, che è male
battere o uccidere, non solo i propri simili, ma pure gli animali, che l’uomo
deve essere geloso della sua dignità, e che la dignità consiste nell’agire
secondo la propria coscienza.
Questi
principi di educazione sono dovunque gli stessi, fra i lamaisti tibetani, fra i
discepoli di Confucio, come fra i giapponesi scintoisti o buddisti.
Ed ecco
che, tutto penetrato dall’insegnamento ricevuto, questo giovane entra nel servizio
militare dove si esige da lui proprio il contrario di quel che gli si è
insegnato: gli si comanda di prepararsi a ferire e a uccidere non degli animali
ma degli uomini; gli si comanda di sottomettersi per eseguire quest’opera di
morte, a degli estranei che non conosce che non ha mai visti.
A simili
ingiunzioni che può rispondere un giovane del nostro tempo?
Evidentemente una sola cosa: ‘Io non voglio, no, io non voglio’.
È precisamente
ciò che ha fatto Van der Veer!
Il
patriottismo – non quello che alcuni si compiacciono di immaginare, ma il
patriottismo vero, che noi tutti conosciamo, e sotto l’azione del quale si
trova la maggior parte degli uomini del Tempo e di cui soffre così crudelmente
l’umanità – è quel sentimento assai netto che ci fa preferire a tutti gli altri
il popolo o il paese al quale ‘apparteniamo e ci spinge a desiderare per esso
tanto benessere e potenza quanto potrà acquistarne coi mezzi ordinari, e cioè a
danno del benessere e della potenza delle altre nazioni.
Si vede
chiaramente che il patriottismo, cattivo e dannoso come sentimento, è stupido
come dottrina, perché è evidente che, se ogni popolo od ogni paese si crede
superiore a tutti gli altri, il mondo intero precipiterà in un errore funesto e
grossolano.
Per ogni individuo e per ogni gruppo vi son sempre le idee del passato, le idee decrepite e divenute come straniere, alle quali gli uomini non possono più ritornare…
Se non con la Fantasia di poter sovvertire e rivoluzionare le condizioni del Tempo e riportarlo alla Fisica d’un diverso principio regolatore ristabilendo torti e nefandezze, ridonando la Pace per ogni Anima e Spirito calato ingiustamente nella fossa comune della Storia… Ma tutto ciò a più a che fare con la metafisica d’una Eresia affine, oltre che alla Letteratura, anche al Dio così pregato e consumato nel fallace pensiero interpretativo umano, e porlo all’Infinito Tempo (ri)Creato, lo sforzo o l’avversione iniziale cioè, del Tempo e della Materia, da quando il Primo Dio negato al suo stesso immateriale Universo ‘discorsivo’ senza Parola alcuna, ed avverso, di conseguenza, al Secolare e più noto principio ‘discorsivo’ di cui anche il noto Filosofo accennava circa i motivi della Verità dedotta… perdonando Cartesio e mantenendo il moto cogitante dell’intero Universo da cui Dio Natura e Uomo…
Tali sono, ad esempio, nel nostro mondo cristiano, le Idee che rendevano possibile l’antropofagia, il ratto delle donne, il saccheggio pubblicamente accettato e altri costumi di cui non rimane che il ricordo.
Vi sono le
Idee dell’oggi che dirigono la vita degli uomini e che questi ricevono
dall’educazione, dall’esempio dello spettacolo di tutta l’attività che li
circonda. Citerò, per la nostra epoca, le idee relative alla proprietà,
all’organizzazione dello Stato, al commercio, all’utilizzazione degli animali
domestici, eccetera…
Vi sono
infine le Idee dell’Avvenire, di cui alcune, prossime ad essere tradotte in
realtà, costringono gli uomini a modificare la loro vita, a lottare colle
vecchie forme. Ai giorni nostri sono queste le Idee che si riferiscono
all’emancipazione delle donne e del proletariato, alla soppressione della carne
nell’alimentazione eccetera…
Bisogna
pure riferire a questo gruppo altre Idee che occupano già le menti, ma non sono
ancora entrate in lotta colle vecchie forme della vita; esse costituiscono quel
che gli uomini chiamano Ideale; l’Ideale, oggi, è l’abolizione della violenza,
la comunanza dei beni, l’unità religiosa del mondo, la fratellanza universale.
Così ogni
individuo od ogni gruppo, qualunque sia il gradino cui è giunto, scorge sempre
al di sotto di sé le Idee morte, i ricordi del passato, al di sopra di sé
l’Ideale, le Idee dell’avvenire, del vero ‘progresso’; e la sua coscienza è
teatro di una lotta incessante tra le Idee del presente che invecchiano e
stanno per morire, e quelle dell’avvenire che nascono non solo dalla Vita, ma
dalla Natura, dall’Universo, da Dio…
Poiché ordinariamente accade che una Idea, altra volta utile e anche necessaria alla umanità, divenga alla fine superflua; allora, dopo una lotta più o meno lunga, essa cede il posto ad una nuova Idea che esce dall’Ideale per essere un’Idea del presente.
Ma
accade pure talvolta che alcune persone, le quali malgrado il loro piccolo
numero compiono una funzione assai importante nella società, abbiano interesse
a dare un sembiante di vita a una idea che è già morta (nella concezione della
Storia…), in realtà, o sostituita nella
coscienza degli uomini da una Idea di essenza superiore.
Si vede
allora che questa idea morta, benché sia in contraddizione colle forme nuove
della vita e la sua naturale evoluzione (e non solo in seno al progresso),
continua ad agire sugli uomini e a dirigerne gli atti (come sta succedendo sia
in Russia che dalla parte opposta in terra d’America per poi unirsi in un coito
di orgia inusuale per la più discreta e consona forma di Natura per come la
conosciamo e vorremmo conoscere ancora, da cui la Primavera e poi l’Autunno,
entrambe avversate nell’involuta patria senza più Ragione alcuna…).
Questo
fatto, per verità, anormale, è costante nella Storia delle Idee e non solo
religiose. Nel tempo delle Idee sociali noi vediamo che vien fatto uno sforzo
per illuderci intorno alla vitalità dell’Idea di patria, perché sopra di essa
si appoggia ogni governo politico (autoritario di fatto o mancato nell’autorità
medesima incaricata cui falsamente ed incessantemente… si appella alla patria o
allo scorretto intendimento della stessa, giacché abbiamo potuto constatare
nella Storia recente non meno dell’attuale per non accennare agli orrori della
remota, circa false attestazioni di patriottismo reclamare invisibile governo
al cospetto d’una fallace e corrotta economia al servizio della perenne e
duratura guerra…).
L’interesse spinge alcuni uomini a ricorrere ad artifizi per conservare una apparenza di vita a questa idea che oggi però più non ha senso né ragion d’essere. Il compito loro è agevole poiché essi dispongono dei mezzi d’azione più efficaci sugli uomini. Così mi spiego la contraddizione che è facile scoprire fra l’idea di patriottismo, idea morta a dispetto delle apparenze, e le Idee, tutte inconciliabili colla prima, il cui insieme costituisce il pensiero moderno, ed inoltre la coscienza del mondo cristiano contemporaneo…
MARAT IL DESTINO D’UN NOME!
Il giorno
dopo, quando Chadži-Murat fu introdotto dal principe, la sala d’aspetto era
piena di gente…
C’era il
rosso generale coi baffi a spazzola, in alta uniforme carica di decorazioni,
venuto a prender commiato; c’era un colonnello accusato di malversazione
nell’approvvigionamento del reggimento; c’era un riccone armeno, protetto del
dottor Andrèevskij, che aveva l’appalto dell’acquavite e ora brigava per il
rinnovo del contratto; c’era, tutta vestita di nero, la vedova di un ufficiale
morto in guerra venuta a chiedere la pensione o la sistemazione dei figli in un
istituto a spese dello stato; c’era un principe georgiano andato in rovina, nel
suo stupendo costume georgiano, che brigava per ottenere un possedimento
ecclesiastico confiscato; c’era il commissario di polizia con un grande rotolo
nel quale era steso il progetto di un nuovo piano per assoggettare il Caucaso.
E c’era un Khan venuto soltanto per poter poi raccontare ai suoi che era stato
dal principe. Tutti attendevano il loro turno e venivano man mano introdotti
nello studio dal giovane e bell’aiutante.
Appena
entrò Chadži-Murat con passo spigliato, solo zoppicando leggermente, tutti gli
occhi si posarono su di lui, ed egli udì sussurrare qua e là il suo nome.
Chadži-Murat
indossava la sua circassa lunga e bianca, sopra il bešmet marrone con il
colletto finemente gallonato d’argento. Portava pantaloni neri e neri
stivaletti che aderivano ai piedi come guanti. In testa aveva lo stesso
turbante per il quale era stato arrestato dal generale Klugenau, su delazione
di Achmet-Khan, causa della sua prima defezione. Chadži-Murat procedette rapido
nella sala d’aspetto ondeggiando leggermente in tutta la sua snella persona,
perché aveva una gamba un poco più corta dell’altra. I suoi occhi distanziati
guardavano avanti tranquilli, come se non vedessero nessuno.
Il bell’aiutante, salutando Chadži-Murat, lo pregò di sedersi: intanto sarebbe andato ad annunciarlo al principe.
Ma
Chadži-Murat rifiutò l’invito e, appoggiandosi su una gamba, posò la mano sul
pugnale e osservò sprezzante tutti i presenti.
L’interprete,
il principe Tarchànov, s’avvicinò a Chadži-Murat e cominciò a conversare con
lui. Questo rispondeva a tratti, di malavoglia. Uscì dallo studio un principe
del kunzà, che era venuto a lamentarsi di un commissario di polizia, seguito
dall’aiutante, che chiamò Chadži-Murat, lo accompagnò fino alla porta e lo
introdusse nello studio.
Voroncòv
ricevette Chadži-Murat, in piedi, accanto al tavolo. La vecchia faccia bianca
del comandante supremo non era più sorridente come il giorno avanti, ma severa
e solenne.
Avanzando
nello stanzone dalle grandi finestre con le persiane verdi, dove troneggiava un
enorme tavolo, Chadži-Murat si portò le mani abbronzate al petto, nel punto in
cui s’incrociava la circassa bianca e disse lentamente, con voce chiara e in
tono molto rispettoso, abbassando gli occhi, nella lingua del kumà che
conosceva bene:
‘Mi affido all’alta protezione del grande zar e
di sua eccellenza. Prometto di servire fedelmente, fino all’ultima goccia di
sangue, lo zar bianco e spero di rendermi utile nella guerra contro Šamil, mio
e vostro nemico’.
Ascoltata
la traduzione dell’interprete, Voroncòv guardò negli occhi Chadži-Murat e
Chadži-Murat guardò negli occhi Voroncòv. Lo sguardo dei due, incrociandosi,
diceva reciprocamente molte cose intraducibili a parole e diverse da quelle che
esprimeva l’interprete. Senza parole si comunicarono il loro pensiero reale.
Gli occhi di Voroncòv dicevano chiaro che lui non credeva a una sola parola di
Chadži-Murat, che lo sapeva nemico di tutto ciò che era russo, che sarebbe
sempre rimasto tale e ora si sottometteva solo perché si sentiva costretto.
E Chadži-Murat, capiva e tuttavia voleva convincerlo della sua fedeltà. Gli occhi di Chadži-Murat dicevano che il vecchio doveva pensare alla morte e non alla guerra; ma, sebbene carico di anni, era scaltro, e lui avrebbe dovuto stare bene in guardia. Anche Voroncòv coglieva benissimo il pensiero di Chadži-Murat, e tuttavia gli diceva ciò che riteneva necessario al successo militare.
‘Digli’
disse
Voroncòv all’interprete (egli dava del tu a tutti i giovani ufficiali)
‘che il nostro zar è tanto generoso quanto
potente e probabilmente, alla mia richiesta, lo perdonerà e lo accoglierà al
suo servizio. Hai riferito?’
chiese,
guardando Chadži-Murat.
‘Fin che non avrò ricevuto la generosa decisione
del mio sovrano, digli che m’impegno a ospitarlo e a rendergli piacevole il suo
soggiorno da noi’.
Chadži-Murat
si portò di nuovo le mani sul petto e si mise a parlare vivacemente.
Diceva, a
quanto tradusse l’interprete, che ai tempi in cui governava sull’Avarija,
intorno al ’39, era stato fedele ai russi e non li avrebbe mai traditi se il
suo nemico Achmet-Khan, che voleva rovinarlo, non lo avesse calunniato di
fronte al generale Klugenau.
‘Lo so, lo so’
…disse
Voroncòv, sebbene avesse dimenticato da un pezzo tutta questa faccenda che pure
gli era nota.
‘Lo so’
…ripeté, sedendosi e indicando a Chadži-Murat la tachtà addossata alla parete.
Ma
Chadži-Murat non si sedette e si strinse nelle spalle come per significare che
non osava stare seduto davanti a un uomo così importante.
‘Achmet-Khan e Šamil sono entrambi miei nemici’
…continuò
rivolgendosi all’interprete.
‘Di’ al principe: Achmet-Khan è morto e non posso
vendicarmi di lui, ma Šamil è vivo e io non morirò prima d’avere sistemato i
conti con lui’
….disse
aggrottando le sopracciglia e serrando forte le mandibole.
‘Sì, sì’
…rispose
tranquillamente Voroncòv.
‘E in che modo vorrebbe sistemare i conti, con
Šamil? E digli che può sedersi’.
Chadži-Murat
rifiutò ancora di sedersi e spiegò che era appunto passato ai russi per
aiutarli ad annientare Šamil.
‘Bene, bene’
….commentò
Voroncòv.
‘Ma cosa intenderebbe fare di preciso? Siediti,
siediti...’
Chadži-Murat
si sedette ed espose il suo piano. Se lo avessero mandato sul fronte dei
lezghinij e gli avessero affidato delle truppe, egli s’impegnava a sollevare
tutto il Dagestan e Šamil non avrebbe potuto resistere.
‘Bene, bene. Si potrebbe fare’,
…replicò Voroncòv
‘ci penseremo’.
L’interprete
riferì a Chadži-Murat le parole di Voroncòv ed egli si fece pensieroso.
‘Di’ al sardar’,
…soggiunse,
‘che la mia famiglia è nelle mani del mio nemico;
finché la mia famiglia è in montagna sono legato e non posso prendere servizio.
Quello ammazzerebbe mia madre, mia moglie, i miei figli, se lo affrontassi
apertamente. Basterebbe che il principe liberasse la mia famiglia, la
riscattasse con uno scambio di prigionieri, e allora, o morirò, o annienterò
Šamil’.
‘Bene, bene’,
…fece
Voroncòv
‘ci penseremo. Ora vada dal comandante di stato
maggiore e gli esponga esattamente la sua situazione, le sue intenzioni, i suoi
desideri’.
Così si
concluse il primo colloquio di Chadži-Murat con Voroncòv.
Quella sera
stessa, nel nuovo teatro in stile orientale, si rappresentava un’opera
italiana. Voroncòv era nel suo palco e, in platea, comparve la singolare figura
lievemente claudicante di Chadži-Murat, in turbante. Era accompagnato
dall’aiutante Lorìs-Mèlikov, assegnatogli da Voroncòv, e prese posto in prima
fila. Dopo essersi trattenuto per tutto il primo atto in un atteggiamento di
dignità orientale, musulmana, senza che un’ombra di stupore passasse sul suo
viso imperturbabile, Chadži-Murat si alzò e, osservando tranquillamente gli
spettatori e attirando su di sé tutti gli sguardi, uscì.
INTANTO (ALL’OPERA) TAGLIANO IL PIU’ FIERO BOSCO
‘Non lo so, davvero, ma questo Caucaso mi dispiace tremendamente’,
…m’interruppe
egli.
‘No, per me il Caucaso è bello anche ora, ma
soltanto in modo differente...’
‘Può anche esser bello’
…seguitò
egli con una certa irritazione,
‘ma so soltanto che al Caucaso io non ci sto bene’.
‘E perché?’
…dissi io
per dir qualcosa.
‘Perché, di tutto, esso mi ha ingannato. Tutto ciò di cui io, seguendo la tradizione, volevo sbarazzarmi venendo al Caucaso, è venuto qui con me, con questa sola differenza che prima tutto ciò era su vasta scala e ora su piccola, sudicia scala, su ogni scalino della quale trovo milioni di piccoli fastidi, bassezze, offese; secondo, perché sento che ogni giorno cado moralmente sempre più basso, e principalmente mi riconosco incapace al servizio che si fa qui: io non posso sopportare il pericolo... non sono un uomo ardito, in una parola’.
Si fermò e
mi guardò senza scherzare.
Benché
questa confessione non richiesta mi avesse meravigliato moltissimo, io non
ribattei, come evidentemente avrebbe voluto il mio interlocutore, ma attesi da
lui qualche smentita alle sue parole, come sempre accade in simili casi.
‘Sapete, questa spedizione per me è la prima’,
‘e non potete immaginarvi quel che provai ieri, quando
il sottufficiale portò l’ordine di andare in colonna, diventai bianco come un
cencio e non potevo parlare dall’agitazione. E che notte ho passata, se
sapeste! Se fosse vero che si diventa canuti per lo spavento, io ora dovrei
essere tutto bianco, perché di certo nessun condannato a morte ha sofferto in
una notte quanto me; e anche ora, benché mi senta un poco meglio di stanotte,
ecco che cosa mi succede qui’,
…aggiunse,
agitando il pugno davanti al petto.
‘E quel che c’è di buffo’,
…seguitò,
‘è che qui si svolge un terribile dramma, e
intanto si mangiano costolette con la cipolla e si assicura che si sta molto
allegri. C’è vino, Nikolàjev?’
…aggiunse
poi sbadigliando.
‘Eccolo , fratelli!’
…si udì in
quel momento la voce affannosa di uno dei soldati, e tutti gli occhi si
rivolsero al limite della foresta lontana.
Laggiù si formava e, portata dal vento, si innalzava una nuvola di fumo azzurrino. Quando io capii che era il tiro del nemico contro di noi, tutto ciò che era davanti ai miei occhi in quel momento prese a un tratto un carattere nuovo e solenne. I fasci dei fucili, il fumo dei fuochi, il cielo azzurro, gli affusti verdi, il viso abbronzato e baffuto di Nikolàjev, – tutto ciò pareva dirmi che la palla la quale già volava fuori dal fumo e in quell’istante si librava nello spazio era forse diretta precisamente contro il mio petto.
‘Dove avete preso il vino?’
…domandai negligentemente a Bolchov, mentre nel profondo della mia anima due voci parlavano con la stessa chiarezza: l’una diceva:
Signore,
prendi in pace l’anima mia!
L’ALTRA
Spero
di non curvarmi e di sorridere mentre la palla vola,
– e nello stesso istante sulle nostre teste fischiò qualcosa di terribilmente sgradevole, e la palla cadde a due passi da noi.
‘Ecco, se io fossi Napoleone o Federico’,
…disse in
quel momento Bolchov, rivolgendosi a me perfettamente tranquillo,
‘senza dubbio avrei detto una qualche amenità’.
‘Ma l’avete detta’,
…risposi io
nascondendo a fatica il turbamento cagionato in me dal pericolo corso.
‘Ma che cosa ho detto? nessuno lo scriverà’.
‘Io lo scriverò’.
…aggiunse
egli sorridendo.
‘Accidenti! maledetta!’
…disse in
quel momento dietro a noi Antònov, sputando con dispetto in un canto,
‘per poco non m’è caduta sui piedi!’
Tutti i
miei sforzi per sembrare calmo e tutte le nostre frasi argute mi parvero a un
tratto insopportabilmente stupide dopo quell’esclamazione di un’anima semplice.
(L. Tolstoj)
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