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AMBIENTI DIVINI
In
conclusione, i dati sperimentali indicano che l’immagine corporea della Sindone
verosimilmente si formò in seguito alla liberazione di un’energia di tipo
elettrico breve quanto a durata (forse soltanto qualche frazione di secondo),
ma molto intensa: l’effetto corona può rispondere a questi requisiti.
Dal punto
di vista strettamente scientifico, è stata proposta qualche idea su come possa
essersi verificato l’effetto corona nel Santo Sepolcro. Le varie ipotesi si
basano però su eventi poco probabili: un fulmine globulare (ma non è immediato
spiegare come questo possa essere entrato in un sepolcro scavato nella roccia e
per di più chiuso esternamente da una grande pietra), effetti piezoelettrici
connessi a terremoti (ma non risultano strati quarziferi nel sottosuolo di
Gerusalemme in grado di provocare questi effetti), ionizzazione causata da
radon (ma non è facile spiegare come questo gas radioattivo possa generare
campi elettrici così elevati da produrre l’effetto corona).
A questo punto occorre porsi alcune domande essenziali: è davvero necessario spiegare tutto con la sola scienza, che di per sé è circoscritta, in quanto basata sul limitato sapere umano?
È
sufficiente limitare il ragionamento a uno stretto positivismo razionalista,
oppure è più opportuno in certi casi – là dove non si riesce a spiegare quello
che si tocca con mano – ampliare il ragionamento a considerazioni più
metafisiche?
Ci sono
infatti altre informazioni che non possono essere trascurate per il solo fatto
di non essere ‘scientifiche’.
Per
esempio, i Vangeli riportano una descrizione particolareggiata della passione,
morte e risurrezione di Gesù Cristo che risulta pienamente coerente con tutti i
dettagli che si riscontrano sulla Sindone, anzi questa arricchisce la
narrazione di dettagli scientifici non ritenuti essenziali dagli evangelisti.
In coerenza con i Vangeli, si può supporre che l’immagine si sia formata
durante la risurrezione di Cristo. In altre parole non è difficile supporre che
un sottoprodotto della risurrezione sia stato quell’intenso campo elettrico che
produsse l’effetto corona e quindi la ‘fotografia’ di Gesù Cristo durante quel
preciso istante.
La Sindone
potrebbe addirittura fornirci qualche informazione sul processo legato a tale
evento. Dalle analisi computerizzate risulterebbe che nel sepolcro si formò
improvvisamente un intenso campo elettrico con direzione verticale, causato da
una fonte di energia posta al di sopra del lenzuolo che avvolgeva il cadavere,
cui seguì un insieme più complesso di fenomeni.
Senza
addentrarci in discorsi teologici, sembra comunque interessante una
correlazione di tali fenomeni con il ‘razzo di fuoco’ descritto dalla mistica
Maria Valtorta, costituito di luce che ‘penetra nel Corpo steso sotto le sue
bende funebri’ dopo essere rimasto ‘sospeso nell’aria’ del sepolcro. Tale
meteora potrebbe essere entrata nel sepolcro, per ridare vita al corpo esanime,
agendo dall’alto della cavità, secondo quanto ipotizzato dai modelli
computerizzati basati sull’effetto corona.
Per convincerci che la Sindone avvolse il corpo di Gesù e fu testimone diretta della sua risurrezione, riportandone impressa la ‘fotografia’ scattata in quell’istante, è opportuno a questo punto dilatare la nostra indagine al campo dell’iconografia. Innumerevoli prove documentano infatti che, sin dai primi secoli dell’arte cristiana, il prototipo della raffigurazione del volto e della figura di Cristo si fonda sull’immagine sindonica.
L’ECOSISTEMA
Nell’ambito
del progetto di ricerca dell’università di Padova, una particolare attenzione è
stata rivolta all’indagine sistematica, mediante il microscopio elettronico SEM
(Scanning electron microscope), delle polveri aspirate dalla Sindone, quelle
fra cui, come abbiamo visto, sono state individuate molte fibre di tessuto
sindonico. La borsista Caterina Canovaro ha accuratamente analizzato numerose
microparticelle di origine animale, vegetale e minerale, con un diametro
compreso fra 3 e 30 millesimi di millimetro circa, con l’obiettivo di
effettuarne una classificazione e di trovare un possibile riferimento ad
ambienti nei quali le informazioni storiche documentano l’esposizione della
Sindone.
Le polveri analizzate provengono dai filtri di aspirazione utilizzati sulla Sindone nel 1978 e nel 1988. Nel primo caso, una sonda dalla particolare bocchetta venne inserita nell’intercapedine fra il retro del lenzuolo e il tessuto d’Olanda di rinforzo, aspirando dalla reliquia polveri corrispondenti a diverse aree dell’immagine corporea (mani, volto, glutei e piedi dell’immagine dorsale); nella seconda circostanza si prelevarono polveri dalla zona dell’angolo di tessuto scelto per l’esame al carbonio.
Le polveri sono state poi prelevate dai filtri con uno speciale nastro adesivo al carbonio e sono state successivamente metallizzate con oro per proteggerle dal fascio di elettroni proveniente dal SEM. Dato che la procedura di metallizzazione è invasiva, alcuni campioni sono stati lasciati sul nastro adesivo per essere invece analizzati con il microscopio ESEM (Environmental scanning electron microscope), che ha il pregio di analizzare direttamente il campione, ma il difetto di produrre immagini a risoluzione inferiore a quella del SEM. Durante le analisi è stato inoltre utilizzato un particolare spettroscopio EDS (Energy dispersive X-ray spectroscopy), in grado di fornire utili informazioni sulla composizione chimica elementare della particella analizzata, per poter accertare se essa sia di origine organica o inorganica.
Le particelle analizzate sono state studiate a differenti ingrandimenti (superiori anche a 6000 volte), in modo da poter riconoscere la morfologia dettagliata del campione in esame. È stato così possibile riconoscere alcuni granuli di polline, granuli corrispondenti a spore, funghi e muffe (moltissimi, a dimostrazione di un pesante attacco biologico alle fibre di lino nel corso dei millenni), innumerevoli granuli di origine minerale e numerose particelle di origine vegetale. Notevole è stato il ritrovamento di qualche raro campione di origine umana, forse anche attribuibile al contatto dei fedeli.
Nelle
polveri sono state trovate anche particelle rosso-brunastre di origine organica
che possono essere ricondotte a fluidi corporei, prevalentemente sangue. Date
le loro dimensioni di pochi millesimi di millimetro, non è facile
classificarle.
L’analisi
del materiale vegetale è stata svolta amplificando specifiche sequenze geniche
e intergeniche tipiche del genoma plastidiale (cloroplasti) e nucleare
(cromosomi) per l’identificazione delle specie di appartenenza. I frammenti di
Dna sono stati moltiplicati mediante una tecnica molto diffusa nei laboratori
di genetica, chiamata ‘reazione a catena della polimerasi’, utilizzata per
copiare ripetutamente e rapidamente molecole di Dna. Quindi sono stati
sottoposti a sequenziamento per acquisirne la struttura nucleotidica e infine
impiegati per l’interrogazione delle principali banche dati mondiali di geni e
genomi.
‘Fondamentalmente’ spiega il professor Barcaccia ‘l’approccio seguito per il riconoscimento degli organismi che hanno lasciato il proprio Dna nella Sindone si potrebbe riassumere con la battuta: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”; cioè: “Sequenza di Dna, svelami a quale gene sei più simile e ti dirò a quale specie o genere appartieni!” ’. In effetti, dalle analisi di laboratorio è stato possibile ottenere un centinaio di campioni amplificati e per circa sessanta di questi si è ricostruita la sequenza nucleotidica, identificandone l’appartenenza alle ventiquattro specie vegetali riportate nella tabella che segue.
‘Il primo
dato rilevante’ prosegue Barcaccia a commento di tali risultati ‘è che circa
due terzi delle specie vegetali identificate a partire dalle sequenze di Dna
isolate dai reperti della Sindone sono di origine e/o diffusione asiatica,
africana ed europea. Se è vero che la specie quantitativamente più abbondante è
l’abete (specie del genere Picea), pianta tipicamente diffusa nelle regioni
temperate e boreali dell’emisfero nord del nostro pianeta, è altrettanto vero
che sono state identificate diverse specie molto diffuse nei Paesi del bacino
del Mediterraneo, inclusa la Palestina, come il
trifoglio (Trifolium repens e
Trifolium fragiferum) e il loglio (Lolium multiflorum).
Delle venti sequenze di Dna attribuite al genere Picea, ben diciotto sono riconducibili all’abete rosso (Picea abies). Il Dna di abete rosso è pertanto quello più comune rivenuto nella Sindone.
Rilevante è
anche la presenza di alcune specie il cui luogo di origine è rappresentato
dall’Asia centrale, Cina in particolare, come una forma di pero (genere Pyrus) e una di
susino (genere
Prunus) aventi un’area di diffusione molto ampia che va dal Sudest
europeo al Medio Oriente.
Per questi
generi della famiglia delle Rosaceae, le sequenze di Dna appartenenti a Pyrus
identificate nella Sindone sono, con alta probabilità, riconducibili alle
specie Pyrus cossonii, un piccolo albero nativo dell’Algeria, e Pyrus syriaca,
un albero di pero diffuso in Turchia, Siria, Iran e nelle regioni del Caucaso.
Particolarmente interessante è una specie descritta come nativa della Palestina, la piantaggine (Plantago lanceolata), rinvenibile in una forma simile e geneticamente indistinguibile (Plantago argentea) pure nella regione dei Balcani e nell’area circumalpina. Inoltre, sono emerse anche specie usate a fini alimentari, come la cicoria (Cichorium intybus), il luppolo (Humulus lupulus), il cetriolo (Cucumis sativus) e la vite (Vitis vinifera), da secoli coltivate in molti Paesi.
Varie sono
anche le specie riconducibili ad alberi forestali, come carpino o betulla (genere Carpinus), noce
(genere Juglans)
e salice (genere Salix), i cui centri di origine sono
collocabili principalmente in Asia centrale e orientale e la cui diffusione è
ormai da secoli ampia ed estesa anche in Europa’.
Un fattore comune a buona parte di queste specie, sia erbacee che arboree e forestali, è la loro origine e diffusione nelle regioni temperate e tropicali dell’Asia mediorientale e dell’Africa settentrionale.
Sulla base
di questi interessanti risultati, Barcaccia sottolinea: ‘Si può dunque ritenere
che la Sindone sia stata esposta a molti ambienti di diverso tipo. La
variabilità di forme vegetali (erbacee e arboree, di interesse agrario e
forestale, di uso alimentare e ornamentale…) è compatibile con zone geografiche
fortemente diversificate, che possono variare dalle pianure coltivate alle
montagne incontaminate.
Analogamente,
sulla base delle epoche conosciute di introduzione di alcune specie dalle
Americhe e dall’Asia orientale, si può affermare che la Sindone nel tempo abbia
seguito un percorso estremamente variabile.
Infatti, alcune specie hanno il loro centro di origine e diversificazione nelle aree attorno al bacino del Mediterraneo, inclusa l’Africa del Nord, e molte di queste specie sono ampiamente diffuse in tutta l’Europa da prima di Cristo. Altre specie fra quelle identificate sono invece state introdotte in Europa soltanto nel XVI secolo, dopo la scoperta dell’America (per esempio l’acacia e la melanzana). Infine alcune specie, come quelle dei generi Prunus e Pyrus, provengono dall’Asia centrale e mediorientale e verosimilmente sono state introdotte nei Paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo non prima del XIV secolo’.
L’abete,
dettaglia il professore, merita una discussione a sé, poiché il Dna di questa
specie è quello di cui la Sindone è più ricca:
‘Questo
albero occupa zone di alta collina e di montagna, ad altitudini comprese tra i
400 e i 2100 metri sul livello del mare: il suo areale europeo è ampio ma
frazionato, caratterizzato da quattro sub-areali più o meno collegati tra loro,
situati rispettivamente sui rilievi della Germania centro-meridionale, nei
Carpazi, sulle catene montuose centro-settentrionali dei Balcani e lungo la
catena delle Alpi, soprattutto orientali. In particolare, la sequenza,
identificata nelle banche dati, più simile a quelle ricavate dal Dna della
Sindone appartiene a un albero di abete rosso proveniente dalle Alpi svizzere.
Tali sequenze, che a livello nucleotidico differiscono in modo inequivocabile da quelle di abete rosso depositate nelle banche dati e annotate con la provenienza centro-nord europea (per esempio Romania e Polonia) e nord-est asiatica (per esempio Cina e Giappone), hanno accumulato mutazioni puntiformi che farebbero pensare a una loro antica origine’.
L’analisi
al microscopio ottico e al microscopio elettronico ha poi rilevato la presenza
di diverse particelle di origine organica del diametro di pochi millesimi di
millimetro che non sembrano di origine vegetale e che potrebbero essere
riconducibili a particelle di pelle umana. È interessante sottolineare che non
sono stati trovati risultati di Dna riconducibili ad animali, segno quindi che
la Sindone non dovrebbe esservi entrata in contatto.
Sono state raccolte invece evidenze sperimentali che dimostrano la presenza di Dna umano. Così chiarisce il professor Barcaccia: ‘Le informazioni acquisite mediante procedure di sequenziamento di ultima generazione hanno permesso di identificare con certezza tracce di Dna appartenente a più individui geneticamente differenziati. L’analisi dell’aplotipo [la combinazione di varianti, nella sequenza del Dna su un particolare cromosoma, che tende a essere trasmessa in blocco, N.d.A.] e dell’aplogruppo [un gruppo di aplotipi tra loro differenti, ma originati da un medesimo aplotipo ancestrale, N.d.A.] di appartenenza per ognuna delle sequenze rinvenute nella Sindone potrà rivelarsi utile per definire le popolazioni genetiche e per formulare ipotesi sulle loro origini etniche’.
Fra i
principali obiettivi dell’analisi delle polveri sindoniche c’è stata la
verifica della presenza di polline e in particolare di granuli tipici della
flora che vive in zone coerenti con il cammino storico della Sindone. Negli
anni Settanta suscitarono infatti opinioni contrastanti le dichiarazioni fatte
dal famoso palinologo svizzero Max Frei che spiegò di avere trovato,
analizzando campioni di polvere prelevati nel 1973 e nel 1978 con nastri
adesivi posti a contatto con il telo, la conferma del percorso della Sindone da
Gerusalemme fino in Francia e poi a Torino.
Purtroppo Frei morì nel 1983, prima di concludere questi studi, lasciando senza risposta alcuni dubbi sul metodo da lui utilizzato per identificare genere e specie dei vari granuli pollinici rinvenuti sui suoi nastri adesivi. Inoltre, fu accusato di avere pubblicato fotografie al SEM di granuli pollinici che non provenivano dalla Sindone. Questa accusa trova però risposta nel fatto che in quegli anni era comune l’uso di pubblicare un rapporto scientifico con foto di granuli pollinici rappresentativi di quelli studiati, migliori come qualità rispetto a quelli rinvenuti nel corso della ricerca, deteriorati dalla procedura di estrazione dal collante del nastro adesivo.
Sui
campioni di Frei si trovano mediamente uno o due granuli per centimetro
quadrato; ma all’inizio del nastro, dove la pressione esercitata durante il
prelievo era maggiore, i granuli sono ovviamente presenti in maggior numero. In
certi casi però le quantità risultano enormi: più di 160 granuli in 2 cm2 su un
nastro prelevato vicino ai rivoli di sangue del braccio sinistro e addirittura
più di 275, sempre su 2 cm2, in un altro proveniente da una zona vicina alla
fronte. La maggiore percentuale di polline in prossimità del volto, rispetto a
quella del resto del lenzuolo, confermerebbe il dato storico secondo cui a
Edessa fu esposta solo l’area del volto.
Dei 58 tipi diversi di polline identificati da Frei, 25 sono di piante che non crescono in Italia e in Francia, mentre sono diffuse in Palestina poiché tipiche di luoghi aridi o sassosi (fra queste l’Anabasis aphylla, la Gundelia tournefortii, l’Haloxylon persicum, l’Haplophyllum tuberculatum Juss., la Suaeda aegyptiaca, la Tamarix nilotica).
Polline di
piante tra le più frequenti attorno al Mar Morto è quello della Prosopis farcta, della Reaumuria hirtella e dello Zygophyllum
dumosum, mentre il polline di Acacia albida e di
Fagonia mollis si riferisce a piante molto diffuse anche nella valle del
Giordano. Quello di Hyoscyamus aureus e di Onosma orientalis
è di piante che fioriscono a Gerusalemme in aprile sulle mura della vecchia
cittadella. Due granuli sono di piante che non esistono né in Europa
occidentale né in Palestina, ma una di esse, l’Atraphaxis
spinosa, esiste a Urfa (Edessa) e l’altra, l’Epimedium
pubigerum, esiste a Istanbul (Costantinopoli), luoghi dove la Sindone
soggiornò nel suo lungo cammino.
Frei sottolineò che i granuli pollinici da lui analizzati derivavano da piante a impollinazione entomofila (trasporto da parte di insetti) e non anemofila (trasporto da parte del vento). Da notare che il 95% della produzione di una pianta si deposita in un raggio di circa cento metri attorno a essa, mentre il restante raggiunge al massimo qualche decina di chilometri, come potrebbe essere stato nel caso della presenza di polline proveniente da regioni desertiche della Palestina quali il Negev e la zona del Mar Morto. Secondo alcuni, invece, questo polline potrebbe essere stato trasportato a Gerusalemme dal vento khamsin, che spira da sud-est in primavera e in autunno, mentre altri pensano che potrebbe essere stato raccolto dalla Sindone durante una sua permanenza nelle aree desertiche vicine a Gerusalemme.
In ogni caso, riguardo alla tesi su una provenienza europea della Sindone, è assai improbabile un trasporto di polline per 2500 chilometri dalla Palestina all’Europa e sarebbe addirittura miracoloso che i venti avessero portato sulla Sindone più polline dal Medio Oriente che dalle circostanti aree europee.
…In
particolare alcune di queste particelle provengono dal deserto del Sahara, i
cui venti investono molte aree della zona mediterranea, fra cui proprio
Gerusalemme…
È degno di nota il fatto che molte di queste particelle provengano dalla sabbia del deserto portata dai venti che soffiano spesso in Palestina, ma che altre particelle siano tipiche della zona geologica che caratterizza Gerusalemme (per esempio calcite, dolomia e gesso). Il ritrovamento di tali polveri è coerente con l’ipotesi che la Sindone sia stata distesa su una pietra tombale di questa città, ovviamente contaminata dalle polveri calcaree della cavità naturale, e con il fatto che il lenzuolo avvolse un uomo sul cui corpo era presente terriccio, dovuto presumibilmente anche a una o più cadute, secondo quanto la tradizione ci riferisce a riguardo della salita di Gesù Cristo sul Calvario.
(Fanti/Gaeta)
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