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La sfera della morte (3/1)
Prosegue in:
Il modo giusto di sbagliare 1891-1981 (5)
1911
Owein
attraversa successivamente un prato nero, quattro campi, un posto occupato da
un’immensa ruota di fuoco…
Ed eccoci
d’incanto in altro secolo affranto…
Mi sono
chiesto spesso cosa avrebbe fatto il babbo se avesse saputo che proprio in
quell’anno avevo anche bevuto il mio primo sorso di whisky. Era successo
durante le nostre vacanze estive a Muskegon. Mi avevano dato dei piccoli sorsi
di birra anche da bambino. Molte persone in quegli anni pensavano che la birra
fosse una bevanda sana, a metà tra un tonico e una medicina. Le attribuivano
persino una integrità morale, parlando di un’onesto boccale di birra.
Ma per il
whisky era diverso.
Come ci
dicevano i preti e gli editoriali dei giornali, il whisky era il male in
persona, e sembrava che venisse distillato all’inferno.
Il mio
primo bicchiere me lo feci con un amico di Bluffton, Lex Neal. A quei tempi aveva 19 anni, due più di
me, poi diventò un autore di testi di canzoni, e scrisse anche le gag per me.
Era stato appena lasciato dalla bellezza locale, ed ero indignato più io che
lui. Ma non mi ricordo più il suo nome. Mi ricordo che era la figlia del
Commissario per gli Acquedotti della Contea di Muskegon. ‘Ti proverò che sono
un amico vero’, gli dissi, ‘non facendoti ubriacare da solo. Mi ubriacherò
anche io’.
Sembrava
un giorno perfetto.
Oltre
alla tragedia amorosa di Lex, la nostra squadra di baseball aveva perso l’ennesima
partita. Né io né Lex avevamo il coraggio di chiedere una bottiglia di whisky
nell’unico bar di Bluffton, la Pasco's Tavern. Chiedemmo al signor Feeney, il
proprietario di un campeggio per turisti, di comprarla per noi. L’impresa
presentava però una difficoltà, perché il campeggio - che poi erano baracche e
tende per chi voleva fare dei picnic - era su un rialzo del terreno alto venti
metri. Si arrivava al campeggio di Feeney salendo una traballante scala a
pioli. Quando il gentile Feeney tornò con il whisky, io e Lex bevemmo tutta la
bottiglia in due scambiandoci riflessioni filosofiche sulla perfida natura
delle donne. Ci promettemmo anche reciprocamente di non sposarci mai, per quanto
fossero belle le ragazze che volevano intrappolarci.
Al calar
della sera io ero cotto. Ma Lex, forse perché aveva avuto qualche altra
esperienza con il whisky, era in condizioni un po’ migliori delle mie. Fece del
suo meglio per aiutarmi a scendere dalla scala a pioli di Feeney. Ma era una
notte senza luna, e dopo uno scalino o due caddi giù senza farmi male, perché
la sabbia era soffice e coperta da erba molto folta. La mia caduta fece capire
a Lex che non ero in grado di andare a casa.
Mi portò
a casa sua dove la madre, una vecchia fragile donna del Sud che fumava con una
pipa di tutolo, mi mise a letto e mi aiutò, il mattino dopo, a superare i
postumi della terribile sbornia. Dopo quell’esperienza non ho bevuto mai più il
whisky fino a quando, anni dopo, non andai soldato nella Prima guerra mondiale.
Per circa
dieci anni la mia vita seguì lo stesso andamento, fatto di estati di sogno a
Booth Tarkington e di inverni passati a fare il clown in giro per la nazione.
Mi è sempre piaciuto esibirmi. Ma era un lavoro duro, e c’erano dei momenti in
cui non era molto divertente. Per esempio capitò, era una mattina di lunedì,
che dovemmo allungare a un’ora e mezza il nostro show di 17 minuti mentre lo
spettacolo che veniva dopo di noi sistemava l’attrezzatura dietro le quinte.
Quell’attrezzatura era difficile da montare, lo show era una acrobazia
motociclistica chiamata ‘Il Giro della Morte del dottor Clark’.
Era un’immensa
sfera fatta di strisce (di spirituale forza) di acciaio poste a poca distanza l’una
dall’altra. Un ‘motociclista’ vi entrava dentro, cominciava andando piano nella
parte inferiore della sfera, poi accelerava e saliva sempre più in alto. L’apice
dello spettacolo veniva quando cominciava a fare il giro della morte, a testa
in giù, dentro la sfera… Dopo un po’ il direttore ci fece segno che erano
arrivate le sezioni della Sfera della Morte. Potevamo sentire i macchinisti che
la montavano dietro le quinte. Ma ci sarebbe voluto un sacco di tempo. Quando
non riuscimmo a pensare ad altro, il babbo urlò:
‘Tirate
su il sipario!’.
Dietro
stavano ancora cercando di mettere insieme la ‘Sfera della Morte’. Io e il
babbo ci mettemmo a lavorare di buzzo buono, aiutando i macchinisti, in realtà
intralciandoli, facendoci inchiodare i pantaloni e altri pezzi di vestiario
alla grande sfera. Nonostante il nostro aiuto alla fine riuscirono a mettere
insieme quell’affare, che era puntellato da tutte le parti da travi d’acciaio.
A questo punto eravamo stati sul palcoscenico per un’ora e 35 minuti...
Per certe
ragioni il babbo si trovava meglio a fare a botte con più di un uomo alla
volta. Penso che lo considerasse più divertente per gli avversari. Di certo la
sua capacità di combattere con i piedi lo aiutò un sabato quando entrò al
Considine’s Metropole, il posto in cui si ritrovavano le personalità dello
sport a New York. Il babbo era solo. La mamma giocava a carte alla Ehric House,
e io osservavo il gioco.
Tre
universitari entrarono ed esplosero in pazze risate alla vista di un omino
barbuto al bar.
‘Vieni
qui, ebreuccio’, disse uno di loro. ‘Vieni a far festa con noi’. Poi
cominciarono a prenderlo in giro e a dargli noia, raggiungendo il massimo del
divertimento quando gli abbassarono il cappello sugli occhi.
‘Lasciatelo
stare’, disse mio padre.
‘Allora
devi essere ebreo anche tu’, disse uno dei ragazzi.
‘Vi ho
detto di lasciarlo stare’, urlò mio padre quando gli altri due cominciarono a
spingere l’uomo.
Il terzo
disse a mio padre: ‘Ti ho fatto una domanda. Sei ebreo?’
‘Certo’,
annunciò il babbo, facendo rimanere a bocca aperta il barista, che lo conosceva
da anni come irlandese. Gli universitari andarono verso di lui. Uno tirò un
pugno. Il babbo lo evitò, sistemò uno di loro con i piedi, e con un montante
destro fece volare il terzo attraverso la vetrina di Considine’s.
Il
barista e il piccolo ebreo guardarono stupiti i vetri e i due giovani aitanti a
terra.
‘Bene,
cosa ordina signor Keaton?’, disse il barista. Joe si massaggiò le nocche della
mano destra mentre pensava, poi disse: ‘Una birra’. Disse poi che stava per
offrirne una al piccolo ebreo, ma decise che aveva già fatto abbastanza per
lui.
Nel
frattempo mentre si beveva la sua birra, uno dei camerieri uscì dal bar e
chiamò il grasso poliziotto che era di ronda. Andando con il babbo alla
stazione di polizia, il poliziotto chiese: ‘Perché non sei scappato?’.
Un
sorriso si allargò sulla faccia di Joe: ‘Ora è troppo tardi?’.
‘Sì’, disse
tristemente lui, ‘Ora è troppo tardi. Il sergente sa già tutto’.
Io e la
mamma lo venimmo a sapere quando George Howard, degli Howard Brothers, un
grande gruppo di suonatori di banjo, irruppe nella sala in cui si giocava a
carte. Era il momento sbagliato: la mamma aveva appena puntato 350 dollari a
picche, e picche vale doppio. ‘Myra’, esclamò George, ‘Joe è nella stazione di
polizia della 47sima ovest. Ha steso tre ragazzi da Considine’s. La cauzione è
250 dollari’.
La mamma
che doveva mettere dei guanciali per sedere allo stesso livello degli altri al
tavolo, guardò fissi gli altri due giocatori. ‘Apro di 350’, disse con tono aggressivo.
George
pensò che la mamma non avesse sentito.
‘Myra, ho
detto che Joe è in prigione e...’.
La mamma
gli fece segno di stare zitto.
Quando
nessuno rispose alla puntata, mise giù la sua scala, giocò la mano e vinse
facilmente. Si girò verso George solo dopo aver raccolto la somma vinta e
chiese: ‘Di quanto ha bisogno Joe per la cauzione?’.
‘Due e
cinquanta. 250 dollari, cioè’.
La mamma
si piegò verso la sua borsetta, tirò fuori i soldi, li dette a George Howard,
facendogli segno di andare, e disse: ‘Va bene, date le carte..’.
(J. Le Goff &
G. Rossetti & Buster Keaton, Memorie a rotta di collo)
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