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Circa i 'Trionfi'... (43)
Prosegue con il...:
Soldato valoroso di Marte (45)
Cagionando andiamo dello
male sì che come una medaglia oppur sennon peggio vil moneta del bifronte Giano
coniata, da qual lato la giri investi incidi inforchi baratti confondi e
corrompi con il fuoco della comunal zecca, lo male impone l’atroce dottrina
sulla Natura intera…
Seppur cambia di mano la
trista sorte muovendo dalla fortuna alla sfortuna, e di rimando, al contrario,
movendo e confondendo tempo e destino umano della giostra della morte, dalla
sfortuna alla fortuna senza sorte alcuna, la morte sua eterna amica, parla et
ulula istessa identica lingua, senza alcuna poesia!
Non distinguiamo l’antico bene in siffatta corrotta economia, solo la fiera scalcia ulula e divora nel folto della selva una città intera, un bosco una Regione senza cagione né sentimento, divorato intero fino allo midollo.
Il male impone la propria vil dottrina, Giano s’appresta a rimembrarne le sparse ceneri per ogni rogo dell’antica biblioteca; ogni prezioso Frammento d’ogni epoca smarrita piange la propria Laura non scordando Beatrice in nome della Ragion persa, al solfureo fuoco della nuova moneta…
O quanti gran palagi!
Quante belle case!
Quanti nobili abituri per
addietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante
rimaser voti!
O quante memorabili
schiatte!
Quante amplissime eredità!
Quante famose ricchezze si
videro senza successor debito rimanere!
Quanti valorosi uomini , quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galeno, Ippocrate, o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono coi loro parenti compagni ed amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenarono colli loro passati.
Un orribile contagio imperversò, correndo l’anno 1348; rese deserte le vie e le campagne, spopolò le città e fece dire agli istorici che dopo il diluvio non si trova menzione di un flagello sì universale e mortifero, e che le pestilenze che travagliarono i regni di Faraone, di Davide, di Ezechia, ed il pontificato di Gregorio, sono un nulla aspetto di questa, che devastò l’intero universo. Alcuni fenomeni naturali e precedettero ed accompagnarono la pestifera mortalità; ma nel descriverli non è sì agevol cosa lo sceverare i racconti popolari che la superstizione , risvegliata dal timore, rendea più degni di fede, dai veri fatti e dalle calamità spaventose che veramente afflissero l’uman genere.
Giovanni Villani, che giacque vittima della
epidemia, narra che essa ebbe la sua origine nell’Asia; che nei regno di Casan
un fuoco, ossia che fosse uscito di sotterra, ossia che fosse sceso dal cielo,
consumò uomini, bestie, case, alberi e le pietre e la terra, e vennesi
stendendo più di 15 giornate attorno con tanta molestia, che chi non si fuggì
fu consumato, e gli uomini che scamparono dal fuoco, di pestilenza morivano. E
alla Tana e a Trebisonda e per tutti quei paesi non rimase per la peste de’
cinque l’uno e molte terre vi sobbissarono per tremuoti orrendi e folgori.
A Sebastia piovve grandissima quantità di vermini lunghi uno sommesso con otto gambe tutti neri e coduti, e vivi e morti che appuzzarono tutta la contrada, spaventevoli a vedere, velenosi nel mordere. E in Soldania, in una terra chiamata Alidia, non rimasero se non femmine; e quelle per rabbia manicarono l’una l’altra. Da questi paesi la mortalità si stese infino in Turchia ed in Grecia, avendo prima cerco tutto il Levante, la Mesopotatnia, Siria, Caldea, Seria, Cipro, Creta, Rodi, e tutte le isole dell’Arcipelago.
A chiunque usciva il sangue del naso era manifesto
segno di inevitabile morte; né valeva alcun senno od umano rovvedimento. Dall’Asia
il malore passò nell’Affrica, come parrà la Cronaca Bolognese del 1348. Il re di Bellamarina,
nominato Albochesen, signore di quasi tutta la Barberia, faceva fare una strada
nel deserto di Babilonia per poter passare in India. Essendo il detto re andato
per vedere quel lavoriero, un suo messaggio andò a lui dicendo: “Che grande
mortalità era cominciata nel suo reame; e che già erano morte ottanta delle sue
mogli; e molti dei suoi baroni”. Il re pensando che questa pestilenza gli fosse
mandata da Dio perché non era cristiano, mandò il suo ammiraglio per le sue
città, notificando a tutti che il re voleva essere fatto cristiano.
In quel mezzo una nave de’ cristiani arrivò in Barberia. Il re addimandò dello stato e della condizione de’ cristiani e que’ risposero che in cristianità era una grande mortalità. Il re predetto udendo che eziandio i cristiani morivano di pestilenza come facevano i Saracini, non volle più essere cristiano. E quella pestilenza fu generale per tutto il mondo. La mortifera peste nelle parti orientali incominciata, avendole private di innumerabile quantità di viventi, continuandosi d’un luogo in un altro senza ristare, si ampliò miserabilmente nelle parti occidentali.
Scese prima, dice il Villani, in Sicilia ed in
Sardegna, ed in Corsica ed all’Elba, e per simile modo in tutte le marine e
riviere de’ nostri mari: ed otto galee di Genovesi che erano iti nel mare
Maggiore, morendo la maggior parte, non ne tornarono che quattro galee piene di
infermi; morendo al continuo; e quelli che giunsero a Genova tutti quasi
morirono, e corruppero l’aria dove arrivavano, che chiunque si trovava con
loro, poco appresso moriva. Dalle riviere e dalle isole del Mediterraneo il
malore si diffuse in quasi tutte le contrade della Italia, nella Provenza,
nella Savoia , nel Delfinato, nella Borgogna, nella Catalogna, e ne’ seguenti
anni desolò tutta la Francia, tutte le Spagne, l’Inghilterra, la Svizzera, l’Alemagna, la Danimarca, la
Russia, l’Ungheria.
Boccaccio nella famosa introduzione alle sue Cento
Novelle ci lasciò una evidente descrizione di questo contagio, descrizione che
gli meritò i più sinceri elogi del Petrarca; il quale gli disse che avea
descritto propriamente, e con molta copia ed eleganza lo stato della patria al
tempo della pestifera mortalità. Nascevano (così il Boccaccio ci dà contezza
dei segni della medesima) nel cominciamento di essa a’ maschi ed alle femmine
parimente o nell’anguinaia, o sotto le ditella certe enfiature, delle quali
alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, ed alcune più, ed
alcune altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli.
Infra breve spazio questo segno mortifero cominciò
indifferentemente in ogni parte del corpo a nascere ed a venire, e d’appresso
si permutò in macchie nere o livide, le quali per le braccia e per le coscie,
ed in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade,
ed a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato, ed
ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a
cui venieno. A cura delle quali infermità né consiglio di medico, né virtù di
medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto; onde non solamente pochi
ne guarivano, anzi quasi tutti infra il terzo giorno dalla apparizione de’
sopraddetti segni, chi più tosto, e chi meno, ed i più senza alcuna febbre o
altro accidente morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza, perciocché
essa dagli infermi per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani non altrimenti
che faccia il fuoco alle cose secche o unte, quando molto gli sono avvicinate.
E più avanti ancora ebbe di male che non solamente il parlare e l’usare con gli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte; ma ancora il toccare panni, o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata, pareva seco quella infermità nel toccator trasportare. Maravigliosa cosa è ad udire, che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenza narrata nello appiccarsi da uno ad altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’nomo, non solamente della infermità il contaminasse, ma quello infra brevissimo spazio uccidesse.
Dalle quali cose, e da assai altre a queste
somiglianti o maggiori, nacquero diverse paure ed immaginazioni in quegli che
rimanevano vivi, e tutti quasi ad un fine tiravano assai crudele; ciò era di
schivare e di fuggire gli infermi, e le lor cose , e così facendo si credeva
ciascuno a se medesimo salute acquistare. Ed erano alcuni i quali avvisavano
che il vivere moderatamente, ed il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a
così fatto accidente resistere; e fitta lor brigata, da ogni altro separati
viveano. Altri in contraria opinion tratti, affermavano il bere assai ed il
godere, e l’andar cantando attorno, e sollazzando, ed il soddisfare d’ogni cosa
allo appetito, che si potesse, e di ciò che avveniva, ridersi e beffarsi,
essere medicina certissima a tanto male; e così, come il dicevano, il mettevano
in opera a lor potere, bevendo e mangiando senza misura così nelle proprie come
nelle altrui case. E ciò potean fare di leggiere, per ciò che ciascuno ( quasi
non più vivere dovesse) aveva, sì come se, le sue cose messe in abbandono; di
che le più delle case erano divenute comuni.
Ed in tanta afflizione e miseria, era la reverenda autorità delle leggi così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, siccome gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi, o sì di famigli rimasi stremi, che ufficio alcuno non potean fare: per la qual cosa era a ciascuno licito quanto a grado gli era di adoperare. Molti altri servavano tra questi due di sopra detti una mezzana via, non stringendosi nelle vivande quanto i primi, né nel bere, e nelle altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi; ma a sufficienza, secondo gli appetiti, le cose usavano, e senza rinchiudersi andavano attorno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere, e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare: con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo dei morti corpi, e delle infermità, e delle medicine compreso e puzzolente.
Alcuni erano di più crudel sentimento (come che
per avventura più fosse sicuro ) dicendo niun’ altra medicina essere contro
alle pestilenze migliore né così buona come il fuggire loro davanti; e da
questo argomento mossi, non curandosi di alcuna cosa se non di sé , assai ed
uomini e donne abbandonarono le proprie città, le proprie case , i lor luoghi
ed i lor parenti , e cercarono l’altrui o almeno il lor contado. E lasciamo
stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’altro
cura, ed i parenti insieme rade volte, o non mai si visitassero e di lontano;
era con siffatto spavento questa tribolazione entrata ne petti degli uomini e
delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la
sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito e che maggior cosa
è, e quasi non credibile , li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non
fossero, di visitare e di servire schifavano.
Per la qual cosa a coloro, de’ quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femmine che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l’avarizia de’ serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti; e quelli cotanti erano uomini e femmine di grosso ingegno, ed i più di tali servigi non usati; onde tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gli infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza era tanta nella città la moltitudine di quelli che di dì e di notte morieno, che uno stupore era ad udir dire; non che a riguardarlo.
Che più si può dire?
Se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e
forse in parte quella degli uomini che
infra il marzo ed il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera
infermità, e per l’esser molti infermi mal serviti, o abbandonati nei loro
bisogni per la paura che aveano i sani, oltre a 100,000 creature umane si crede
per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti,
che forse anzi l’accidente mortifero non si saria estimato tanti avervene
dentro avuti.
O quanti gran palagi! Quante belle case! Quanti nobili abituri per addietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser vóti! O quante memorabili schiatte! Quante amplissime eredità! Quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini , quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galeno, Ippocrate, o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono coi loro parenti compagni ed amici, che poi la sera vegnente appresso nell’altro mondo cenarono colli loro passati.
In Firenze e nelle altre città d’Italia: cento
ventimila persone furono spente in tre soli mesi, come attesta un autore
contemporaneo. Ma la vittima più preziosa e più agognata dalla morte che volle
cogliere il più bel fiore, fu la bella Laura. Il fiero morbo la assalse nel
giorno 3 di aprile; la misera arse, ed alse per tre giorni e per tre notti;
chiese e ricevette i conforti che l’augusta nostra religione porge a’ suoi
seguaci negli estremi istanti; dettò il suo testamento, e francheggiata dalla
buona coscienza e dal sentirsi pura, aspettò tranquillamente la morte. La
stanza di Madonna avea accolte tutte le dame consanguinee ed amiche che
bramavano di vedere se la morte può esser pietosa. Piangeana tutte e
sospiravano amaramente; gli occhi soli di Laura erano asciutti; sola Laura fra
tanti sospiri e pianti si sedea tacita e lieta raccogliendo già il frutto del
suo bel vivere. Ma qui tacer mi debbo; parli per me l’amante istesso di Laura.
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