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Di un soldato valoroso (45)
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La caricatura umana (47)
A Boccaccio, i cinquanta fiorini che gli aveva lasciato Petrarca fecero un comodo birbone. Era
finito male, povero, solo e malato. E fra le sue afflizioni, oltre a un eczema
che gli divorava il corpo, c’erano anche quelle dello spirito.
Si considerava un fallito.
E si vergognava di aver scritto il Decamerone.
Era nato sessant’anni prima a Parigi, frutto di una relazione illegittima fra un mercante fiorentino
andato lassù a vendere stoffe e una donna di cui non è dubbio soltanto il nome,
ma anche i costumi. Forse questa origine bastarda non è estranea al carattere
dell’uomo e al suo destino. Suo padre tuttavia riconobbe il piccolo Giovanni, e se lo condusse in patria, a Certaldo, dove il ragazzo crebbe
abbastanza malinconicamente sotto le scarse attenzioni di una matrigna.
All’età di quindici anni - ed era il 1328 - lo mandarono a Napoli a far pratica di contabilità commerciale presso una succursale dei banchieri fiorentini Bardi, con cui messer Boccaccio era in rapporti di affari. Giovanni prese la computisteria e i libri mastri nella stessa uggia in cui Petrarca aveva tenuto il Diritto e i codici. Ma Napoli gli piacque e ne serbò sempre la nostalgia. Quella città rumorosa, colorata e gaia era congeniale al suo temperamento estroverso, disordinato e sensuale.
Per fortuna, a tenerlo un po’ in briglia, c’era la
vocazione letteraria, che gli si rivelò subito. Perse la testa per Ovidio. Per leggerlo in lingua
originale, studiò il latino. Trascorse le notti a declamare a memoria le Metamorfosi. E la mattina arrivava in
ufficio così assonnato e intontito che alla fine dovettero licenziarlo. Suo
padre si arrese all’evidenza e rinunziando all’idea di ricavare da quel
rampollo un banchiere o un mercante, gli garantì l’assegno mensile a patto che
s’iscrivesse alla facoltà di diritto canonico. Giovanni promise e seguitò a fornicare con Ovidio e la letteratura.
Alla messa del Sabato Santo del 1331 (o 1336), cioè nelle stesse circostanze in cui quattro anni prima Laura era apparsa a Petrarca, vide per la prima volta Fiammetta e ne rimase incenerito. Ecco un’altra identità difficile da accertare e di cui tuttora si discute. Ma pare che si trattasse di una certa Maria, figlia naturale di Re Roberto, andata sposa a un Conte d’Aquino. Boccaccio, povero ragazzo, si provò a guardarla con gli stessi occhi con cui Dante aveva guardato Beatrice.
Il velo di Iside fa’ la sua segreta comparsa…
(I.
Montanelli)
Si è appena detto che i natali (di Giovanni) sono da stabilirsi a Parigi, e Paris non è para ma Paria Iside: a questa scoperta Jean Tristan, signore di Saint-Amant (1644) giunge basandosi sulle medaglie di Elena, sposa di Giuliano che fu per cinque anni governatore della Gallia e risiedette a Lutezia nel 358 e nel 359. Essa appare ritratta nei panni della dea, con un sistro in mano e la dicitura Isis Paria o Isis Faria. Secondo una diffusa opinione l’epiteto Paria, Pharia o Faria deriverebbe dal Faro di Alessandria, ma per il numismatico il processo è inverso: nel suo secondo libro ‘Ad nationes’ Tertulliano non dice forse che Pharia era la figlia di Farao o Faraone, re d’Egitto?
Il dottore della Chiesa narra inoltre che il
monarca l’aveva data in sposa a Giuseppe, il quale aveva salvato il popolo
egizio dalla carestia ed era stato soprannominato Serapide per l’acconciatura che gli adornava il capo. Ma Serapide era lo sposo di Iside; quello che compare sia nel Pharos alessandrino sia nella capitale
francese è dunque il vero, l’antico nome della dea, in cui Pharia deriva da Faraone: ‘I Parigini [Parisiens] avevano preso nome da PARIA ISIS, a causa
del culto di questa Dea che essi avevano introdotto tanto in Illiria quanto in
Gallia, nella regione vicina al fiume Senna e a Lutezia, chiamata per questo
Lutezia dei Parisini o Farisini’.
In un frammento di sant’Ilario, che parla del sinodo di Rimini, la città di Parigi viene chiamata Farisea civitas. Era quindi naturale che Parigi, città faraonica, prendesse come stemma la nave sacra, l’Isidis Navigium venerato nella valle del Nilo, nella terra degli svevi e a Roma. A Parigi, però, il rito era celebrato più religiosamente e più particolarmente che in altri luoghi…
Giuliano scelse quindi questa città come capitale non tanto per la
salubrità del clima quanto per il culto di Isis
Faria, che vi aveva trovato saldamente radicato e di cui era anch’egli
adepto: Questa Dea, infatti, era la principale divinità adorata dai Parigini…
(J.
Baltrusaitis)
Prima che venisse elaborata l’idea di natura s’immaginava che solo gli dèi avessero accesso al funzionamento segreto delle cose visibili e invisibili - un segreto che veniva nascosto agli uomini. Già nell’Odissea; quando Ermete insegna a Ulisse come riconoscere la physis, l’aspetto dell’ erba di vita, gli dice:
Non senza sforzo i mortali lo strappano; mentre gli dèi possono
tutto.
Come deplorava Alcmeone di Crotone, nel VI o V
secolo a.C.:
Delle cose visibili e invisibili soltanto gli dèi hanno conoscenza
certa; gli uomini possono soltanto congetturare.
Non si tratta solo di conoscenza teorica, ma anche di un sapere concernente quanto vi è di più necessario alla vita. Gli dèi, in Omero, possiedono la sophia, ossia il saper fare, l’abilità nella costruzione degli oggetti che permettono all’uomo di migliorare la propria condizione, tipo imbarcazioni, o strumenti musicali, o prodotti in metallo. Mentre gli dèi, grazie al loro sapere, hanno vita facile gli uomini, ignoranti, conducono un’esistenza dura. Come dice Esiodo, è grazie a Prometeo che gli uomini hanno potuto strappare agli dèi alcuni dei loro segreti:
Gli dèi hanno celato ciò che fa vivere gli uomini; altrimenti,
senza sforzo, ti basterebbe lavorare un giorno per raccogliere di che vivere
tutto l’anno, senza fare nulla[ ... ]. Ma Zeus l’ha nascosto il giorno in cui,
con l’animo corrucciato, si vide ingannato da Prometeo dal pensiero subdolo. Da
quel giorno, egli riservò una triste sorte agli uomini. Nascose loro il fuoco.
E fu ancora il coraggioso figlio di Giapeto a rubarlo al saggio Zeus.
Anche per Platone il segreto dei processi naturali è inaccessibile all’uomo, che non possiede mezzi tecnici per scoprirlo. Parlando dei colori, egli dichiara:
Se qualcuno, esaminando queste cose, volesse farne la riprova coi
fatti, dimostrerebbe di ignorare la differenza che è tra la natura umana e la
divina, per ciò che solo un dio ha ad un tempo scienza e potere in grado
sufficiente per mescolare i molti in uno e di nuovo da uno scioglierli in
molti, mentre degli uomini non ce n’è ora nessuno che sia capace dell’una o
dell’altra di queste cose, né ci sarà mai in avvenire.
Dopo la comparsa dell’idea filosofica di natura,
non si parlerà più di segreti divini, ma di segreti della natura. A poco a poco
la Natura personificata diverrà essa stessa la detentrice di questi segreti. A
seguito della personificazione della Natura, s’immaginerà che la difficoltà di
conoscere la natura si spieghi in qualche modo col comportamento personale
della natura che cerca di dissimularsi ed è gelosa dei propri segreti. Così
diverrà possibile una nuova interpretazione dell’aforisma 123 di Eraclito: ‘La Natura ama nascondersi’.
[…] Prima di spiegare in che modo gli antichi e i moderni si sono sforzati di svelare e scoprire i segreti della natura, è utile chiedersi ancora che ne è stato della famosa sentenza nella tradizione antica. Ci sono voluti ben cinque secoli perché apparisse una citazione, esplicitamente attribuita al suo autore, di quest’aforisma di Eraclito. Come abbiamo accennato nelle pagine che precedono, l’evoluzione dell’idea di physis e la comparsa della metafora dei ‘segreti della natura’ hanno indotto i filosofi a pensare che l’aforisma di Eraclito significasse: ‘La Natura ama nascondersi’.
Dato che la metafora dei ‘segreti della natura’ era assai diffusa al tempo, ci si sarebbe potuti aspettare che il nostro aforisma fosse citato per illustrare le difficoltà che l’uomo incontra nel conoscere i fenomeni naturali e nel costruire la parte ‘fisica’ della filosofia. Eppure, nulla di tutto ciò. Quando la sentenza è citata da Filone di Alessandria, all’inizio dell’era cristiana, oppure da Porfirio, da Giuliano, da Temistio nel III e IV secolo, benché essa abbia per soggetto il termine ‘Natura’, è sempre applicata al divino, agli dèi e al discorso sugli dèi, vale a dire alla teologia.
Ad esempio, Giuliano parla, in proposito, di
teologia mistagogica. Si può spiegare il fatto in due modi: mentre
per noi la parola ‘teologia’ porta subito alla mente ragionamenti metafisici
basati sui dogmi di una religione o sui testi sacri, le cose andavano
diversamente per i Greci...
[Prosegue con il capitolo completo]
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