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Il ritorno del folle... Simeone (Eretici 5)
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Gnosi Pagana (12) (Eretici 7)
... Dell’anima non consiste nella sua resurrezione con il corpo, ma nella
sua resurrezione dal corpo’.
Nell’abbandono di ogni rigido dualismo tra spirito e materia – e nella
conseguente forte interdipendenza di anima e corpo tale da garantire anche a
quest’ultimo, a prezzo di severissime privazioni, la beatitudine promessa –
consisteva l’originalità del monachesimo cristiano così come nella sintesi
operata tra pratiche spirituali filosofiche e motivi penitenziali di tradizione
ebraica, rivissuti in forme nuove sia per il soccorso che essi presumevano
della grazia divina, indispensabile alla crescita spirituale, sia per il
potente valore salvifico loro attribuito.
Una salvezza da non intendersi limitata ai singoli anacoreti, ma che
acquistava un più ampio e profondo significato sociale di testimonianza
cristiana proficua a sé e agli altri, in cui si prefigurava, a ben vedere, una
possibile ripresa di relazioni tra i solitari monaci del deserto e quelle città
e campagne, sedi del male e del peccato, da dove erano fuggiti.
A ciò si aggiunga che ad alcuni eletti il modello anacoretico non parve
corrispondere abbastanza alla loro ansia di ascesi: solitudine e rinuncia ai
beni mondani, tanto più se accompagnate dall’ammirazione del mondo cristiano,
non sembravano sufficienti; per un più alto grado di santità occorrevano riso e
disprezzo altrui nei loro riguardi. Donde la scelta assoluta di recitare la
parte del ‘folle’ con il conseguente abbandono dell’eremitismo e il ritorno
nella società, intenzionati – come affermava Simeone il Folle – ‘a prendersi
gioco del mondo’ per liberarsi dell’ultima debolezza umana, la ‘vanagloria’.
Per molti cristiani la vita monastica divenne la via maestra verso la
perfezione, tanto più auspicabile in quanto la Chiesa istituzionale appariva
lacerata da contrasti, incline a compromettersi col secolo e bisognosa più che
mai di intercessori di benedizione e di perdono, pronti a bilanciare con il
rigore della propria penitenza, preghiere e digiuni un flusso di conversioni
sovente superficiali.
Ma l’ascesi solitaria non fu la sola forma di monachesimo sperimentata
in Egitto. Accanto a questo, per opera di Pacomio si affermò a partire dagli
anni Venti del secolo IV, e con un successo immediato, un modello di vita
cenobitica basato sull’abbandono della libertà individuale propria degli
anacoreti a favore di un’organizzazione di tipo comunitario sotto la stretta
obbedienza ad un abate che secondo rigide regole ne disciplinava minuziosamente
l’esistenza spirituale e materiale.
Da allora i cenobi si moltiplicarono per tutto l’Egitto così come in
Palestina, in Siria – sebbene in quest’ultima regione continuasse a prevalere
l’anacoresi vissuta spesso con estremo rigore – e infine in Asia Minore dove,
sotto l’impulso di Basilio di Cesarea, si accentuò il significato del vivere in
comunione concepito come quadro normale dell’esperienza monastica.
Suo presupposto principale fu che il monachesimo dovesse combinare la
rinuncia ascetica con l’esercizio della carità evangelica, donde l’opportunità
di sostituire alla vocazione eremitica, pericolosa per i tanti eccessi ed
errori in cui il monaco poteva incorrere, il modello cenobitico in cui più
fedelmente si rispecchiava l’ideale della primitiva comunità di Gerusalemme,
quale erra presentata dagli ‘Atti degli Apostoli’, generosamente aperta verso i
fratelli.
Attraverso un’ampia serie di riflessioni e insegnamenti elaborati per
garantire la ‘quiete’ esteriore e interiore dei monaci, Basilio si propose così
di propugnare un equilibrio ideale di purificazione e di perfezione da
raggiungere in cenobi di modeste dimensioni, grazie ad una vita rafforzata
dalla preghiera e dall’umile accettazione delle attività manuali e arricchita
dall’interesse per i classici della…. Filosofia Antica…..
(M. Gallina, potere e società a Bisanzio; Fotografie di Alvaro Sanchez-Montanes)
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