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Insoliti Viaggi Onirici (20/1)
...Quella pianura o meglio quel deserto di ghiaccio, era però affatto
spopolato. Non si vedeva, su quella candida superficie, alcuna macchia oscura
che indicasse la presenza di qualche foca o di qualsiasi altro animale.
Solamente in aria volavano pochi Aenops aura, puzzolenti uccelli che cadendo
vomitavano una tale quantità di sterco, da infettare l’aria per parecchio
tempo.
- Ebbene amici, cosa dite di questo viaggio? chiese Willkye ai due
velocipedesti.
- Che se non sopraggiungono delle disgrazie, noi vedremo ben presto il
polo, disse Peruschi.
- Ed io dico che non ho mai
viaggiato così comodamente, disse Blunt.
Un viaggio di 3000 miglia sui
ghiacci! …..Tenterebbe molte persone, signor Wilkye.
(E. Salgari)
…Cenando a un piccolo albergo
ebbi l’occasione di trovarmi a tavola di fronte a un simpatico giovane,
biondo e paccherotto, uno studente tedesco che parlava abbastanza bene il
francese. Che piacere poter scambiare in una lingua che
conoscevo anch’io una chiacchierata dopo tanto tempo di quasi
assoluto silenzio!
Pensate che i miei compagni fonditori non parlavano fra loro neppure
il tedesco, ma un dialettaccio detto ‘platt’, incomprensibile per me
quanto il cinese. Il mio tedesco era venuto a Lubecca anche lui per vedere la
gelata del mare e l’indomani mattina, mi disse, sarebbe andato a Travemunde con una bicicletta presa a nolo. Idea
ottima, era una fortuna, perché avrei fatto altrettanto anch’io accompagnandomi
a lui.
Così andammo subito a cercare un noleggio e trovammo tosto le macchine
di quel tempo. Non ridete: 20 chili di peso e gomme tubolari. Voi sapete forse
sì e forse no cosa siano le tubolari. Le gomme pneumatiche, così confortevoli per
la loro elasticità, sono venute solo dopo quelle più piccole, formate da un
anello di gomma piuttosto spessa, con un foro del diametro di 2 cm. nel mezzo,
in guisa di anima vuota, per dar loro un po’ di elasticità. Queste gomme non si
sgonfiano coi chiodi, ma in compenso ammaccavano per bene in giù dalla schiena.
La strada gelata, con ormaie profonde e dure come roccia, per fortuna
quasi senza neve, mise a prova i nostri garretti. Quei 23 km. furono un record
di equilibrio e di pazienza, ma non certo di velocità, vi mettemmo forse un’ora
e mezza. Non c’è niente da ridere: il cammino era pessimo ed anche non
bisognava sconquassare le macchine che ci erano state concesse solo contro una
garanzia in buoni marchi. Avevamo lunga strada fatta una gran mangiata di un
delizioso pane ancora caldo, appena sfornato: il mio tedescone vi aveva già
bevuto su un krug di birra con due wursten aggiungendovi, come giaculatoria di
soddisfazione: Ach Gott, ja!
E’ incredibile la massa di roba che ingurgitano i tedeschi. Noi
italiani - ditelo pure a fronte alta a inglesi, francesi e tedeschi senza paura
di smentita - noi italiani siamo molto più parchi.
Tosto arrivammo al porto e al mare. impressione fu un po’ così così. Il mare
ghiacciato non è punto maestoso. Ha l’aria casalinga di una gran distesa
di campagna senz’alberi, coperta di neve sfatta e poi ricongelata. Nessun
candore, nessun scintillio. Una pianura grigiastra, monotona, senza
grandiosità, che si perdeva in distanza nelle brume. All’orizzonte rompeva
il cerchio un filo di fumo, come se un accampamento disperso vi fosse un fuoco
acceso. A pochi passi dal porto si alzava la torre rotonda di un piccolo faro
con la lanterna a cupola sopra un terrazzo. Salimmo: il fanalista ci diede un
cannocchiale.
Guardammo il fumo. Oh, sorpresa!
Era di un piroscafo – e lo seppi dopo – russo, carico di grano, in rotta forse per
l’Inghilterra, arrestato dall’improvvisa gelata e che ora si sforzava, nel modo
che vi racconterò più avanti, di riparare nel piccolo porto di Travemunde, ove
sarebbe stato obbligato a rimanere fino a primavera.
…..Fatta la provvista di cibarie scendemmo alla spiaggia, attraversammo
in qualche modo, macchina a mano, i primi 20 metri di ghiaccio disordinato, poi
in sella.
Non era poi il diavolo, perbacco!
Si camminava adagio, è vero, ad un passetto di 8 km. all’ora, ma sicuri
e trionfanti su una superficie non molto diversa, in fondo, da quella di un
campo di neve sciolta dal sole e rigelata di notte. E tuttavia l’emozione
nostra era grande. Avevamo sotto bensì un pavimento che non sembrava
preoccuparsi del nostro peso, ma a noi pareva di essere così insignificanti. Insomma,
si andava avanti senza sprofondare. Il giovane tedescone sbocconcellava del
pane addentando di tanto in tanto una salsiccia e brontolava con una
sorta di allegria concentrata: Ach Gott, ja; ach Gott, ja!
Ma, dopo 3 o 4 km., quando già ci pareva di dover vedere
il vapore di momento in momento, le cose cambiarono malamente. La superficie
del mare si fece tutta rugosa di piccole conche profonde 8-10 centimetri, larghe
30 o 40, come certi nevai alpini alla fine d’estate. Con miracoli d’equilibrio
si poteva restare in sella, ma la ruota davanti o quella di dietro sdrucciolavano
di continuo a destra o a sinistra sul fondo della concavità.
Ach Gott, nein! espettorava quasi con violenza il mio tedesco che non
poteva più rosicchiare a sua posta. Ma tenevamo duro tutti e due. Benedette le
biciclette pesanti e forti: che strappi ai manubri! Però guai a fermarsi, non
era facile rimettersi in sella. Quel tratto di mare si era probabilmente
congelato prima di acquetarsi del tutto, e mi faceva pensare con sospetto a
come sarebbe stato più avanti. Più avanti s’incominciò invece ad andar benino……
(Luigi Vittorio Bertarelli)
Passata la prima tremarella, quel dondolìo ci parve poi la cosa più naturale. Del resto anche quel
ghiaccio era naturale a suo modo. Battendovi il piede, l’orma si imprimeva per
un paio di centimetri e s’empieva di acqua. A fianco del vapore, uno di
qua e uno di là, due altri rompighiaccio guizzavano senza posa innanzi e
indietro vietando ai lastroni di rinsaldarsi.
Saltando dall’uno all’altro, come vedevamo fare gli uomini, arrivammo
alla scaletta e salimmo sulla nave. Mentre eravamo così a bordo giunse da terra
un fotografo in slitta tirata da quattro cani; piantò la sua macchina a un
centinaio di metri; io mi arrampicai sul sartiame e così rimasi nella
fotografia che poi, per la tenue moneta di 3 marchi, mi fu mandata a Milano. Intanto
il sole stava per calare. Mezz’ora dopo, senza essere ancora tramontato, s’era completamente
spento nelle brume dell’orizzonte. Allora si produsse in noi, che eravamo ridiscesi
sul ghiaccio, un’impressione improvvisa di freddo e solitudine.
Cessati i riflessi dell’astro, una tinta plumbea si diffuse su ogni
cosa. Nel vapore si erano accese luci di lampade che si scorgevano nelle
finestre dei fianchi. Aveva ora i fuochi di posizione: il fanale bianco fra la
prora e il trinchetto, quello rosso di babordo sul fianco destro, il verde di
tribordo ci restava nascosto. I rompighiaccio continuavano con sordo
rumore l’opera loro, bassi e striscianti, quasi nell’ombra.
A casa, a casa presto!
Troppo ci eravamo attardati.
Sentimmo che quel naviglio ci era estraneo, che eravamo soli e non
dovevamo perdere tempo. Ci colpì come cosa impensata il ricordo delle
biciclette abbandonate là, nella sterminata accozzaglia di rottami ove dovevamo
ritrovarle, prestissimo, prima che le tracce se ne perdessero nel crepuscolo.
Presto, presto!
Filammo, con le ali ai piedi e per verità il cammino, col quale ci
eravamo famigliarizzati, senza più le distrazioni della venuta né i dubbi, ci
parve e fu ben più breve. In venti minuti fummo alla barriera e Ach Gott, ja,
ja! ci trovammo proprio davanti a noi, per un vero miracolo, dormenti sul
loro piedistallo le nostre biciclette.
E come fu?
Quel tratto a buche, che ci era apparso quasi impraticabile, ora, nella
febbre del ritorno, ci sembrò tutt’altro: molto più facile. Ah, l’esperienza
che maestra! Si accesero nella penombra della costa i due fari di Travemunde. Ach
Gott, ja, che comodità! Uno basso, rosso, fisso; l’altro più alto, ammiccava a
eclissi, mezzo minuto scintillante, mezzo minuto spento.
E ci chiamavano a sicura meta.
Noi volavamo – relativamente – vale a dire che ormai sul ghiaccio buono
andavamo a forse 15 km.
Ah, quando fu finita!
Bello il mare gelato in bicicletta… quando si mette piede a
terra.
(Luigi Vittorio Bertarelli)
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