giuliano

sabato 1 maggio 2021

racconti della Domenica, ovvero: LA NAZIONE DELLE PIANTE (19)

 









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Una superficie di 510 milioni di chilometri quadrati; quasi 1100 miliardi di chilometri cubici di volume; una massa di 5,97 × 1024 chilogrammi: sono queste le dimensioni della nostra casa comune. A prima vista, potrebbe sembrare enorme.

 

Ma non è così.

 

Quando ne confrontiamo le dimensioni con quelle di altri corpi celesti a noi vicini, ad esempio il Sole, il cui volume è oltre 1.300.000 volte più grande di quello della Terra, appare per quello che è realmente, un piccolo pianeta... ma dalle qualità particolari: è, infatti, l’unico posto dell’universo finora conosciuto che abbia sviluppato la vita. Soprattutto, è l’unico su cui la vita sembri prosperare. Non sono le dimensioni, ma è la vita a rendere speciale il nostro pianeta.




L’unicità della Terra, la mancanza di alternative credibili in grado di ospitare la vita – nonostante quanto si sente comunemente dire circa le possibilità di terraformare Marte o altri improbabili corpi celesti – fa sì che l’intero pianeta dovrebbe essere considerato un bene comune, intangibile, curato e custodito come si conviene all’unica casa possibile per la vita. Una casa, peraltro, molto fragile: limitata ad uno statarello superficiale che, all’incirca, va da 10.000 m sotto il livello del mare a 10.000 al di sopra di esso; 20 km totali che racchiudono l’unico luogo dell’universo – per quanto ci riguarda – all’interno del quale la vita esiste.

 

In molti sono convinti che l’universo sia pieno di vita; serissimi calcoli ci raccontano di un universo più affollato della metropolitana di Tokyo nell’ora di punta. Può darsi. Io non ci scommetterei.

 

L’ossessione per la vita aliena non è, ad oggi, supportata da una singola evidenza, mentre la famosa domanda di Fermi, dove sono tutti?, continua ad essere più valida che mai. Questo continuo discutere di pianeti simili alla Terra dove la vita già potrebbe esistere o dove, in ogni caso, potrebbe tranquillamente attecchire, credo rappresenti una specie di rassicurazione per i disastri che stiamo combinando.




Un’assicurazione che il nostro futuro, comunque vada, anche se finiremo le risorse di questo pianeta, da qualche parte potrà continuare. Nonostante non esista una sola evidenza dell’esistenza di vita al di fuori della Terra, provate a parlarne con chiunque si interessi al problema e inizierà a fare calcoli che partendo dai milioni di miliardi di galassie dell’universo e passando dal numero di probabili pianeti abitabili, escludendo quelli che non hanno temperature compatibili con la vita, quelli troppo giovani, quelli troppo vecchi, quelli che ci stanno antipatici ecc., arriverà alla fine ad indicarci un numero altissimo, non di pianeti che ospitano la semplice vita, ma di civiltà intelligenti ed evolute almeno quanto la nostra.

 

La madre di tutte queste equazioni, giusto per farvi capire come funziona il ragionamento, è la famosissima equazione formulata negli anni ’60 dall’astronomo Frank Drake: N = R × fp × ne × fl × fi × fc × L.




 Questa equazione afferma che il numero di civiltà (N) nella nostra galassia che potremmo riuscire a contattare può essere determinato moltiplicando il tasso medio di formazione stellare nella nostra galassia (R), la frazione di quelle stelle che hanno pianeti (fp), il numero di pianeti che possono effettivamente supportare la vita (ne), il numero di pianeti su cui si è effettivamente sviluppata la vita (fl), la frazione di pianeti che ha sviluppato la vita intelligente (fi), il numero di civiltà che svilupperebbero delle tecnologie di trasmissione (fc) e, infine, la stima della durata di queste civiltà evolute (L). Ovviamente, in funzione dei valori che si attribuiranno ai diversi parametri si potranno ottenere galassie brulicanti di vita intelligente o, al contrario, probabilità prossime allo zero che essa esista1.

 

Allora mettiamo da parte i calcoli.

 

Negli ultimi decenni la conoscenza dei nostri vicini spaziali si è accresciuta esponenzialmente. E tuttavia, mai nessuna prova dell’esistenza di vita. Nell’estate del 2015 la sonda spaziale della nasa New Horizons arrivava a soli 12.500 km da Plutone, il più distante dei pianeti2, rimandandoci indietro, a coronazione di una lunga serie di esplorazioni, le prime informazioni dirette e foto ravvicinate di questo nostro distante parente planetario. Una sonda è atterrata sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko; Juno è entrata in orbita intorno a Giove; i due rover Opportunity e Curiosity da anni ci trasmettono dati sulla composizione del suolo marziano e sono stati, da poco, raggiunti da un terzo veicolo: Insight, che studierà il sottosuolo di Marte.




Il risultato, per me, più interessante di questa incessante esplorazione del sistema solare è che la composizione di ognuno dei luoghi visitati appaia sempre molto più semplice di quella della Terra. La complessità del nostro pianeta è data dalla vita. Gli esseri viventi sono talmente connessi con la trama della Terra che provare a immaginarla sterile, al di fuori di qualche apocalittico romanzo di fantascienza, è impossibile. Se fosse priva di vita, la Terra assomiglierebbe a qualcosa a metà tra Venere e Marte.

 

Sarebbe sempre azzurra?

 

Sembra di no.

 

Di sicuro non sarebbe verde.

 

Che effetto avrebbe sul pianeta la completa assenza di ossigeno libero? L’ossigeno che respiriamo, infatti, è prodotto interamente dagli esseri viventi. A voler essere precisi, da quelli in grado di effettuare la fotosintesi. La mancanza di ossigeno che effetto avrebbe sull’acqua, sulle rocce, sul suolo del nostro pianeta? Nessuno è in grado di rispondere a questa domanda.




La verità è che molto di ciò che vediamo sulla Terra è il risultato dell’azione di organismi viventi. I fiumi, le coste, le montagne stesse sono disegnati dall’azione della vita: le bianche scogliere di Dover, così come molte delle falesie continentali, sono formate dall’accumulo sedimentario degli scheletri di innumerevoli coccolitofori (alghe unicellulari ricoperte da scaglie di carbonato di calcio); molto, se non tutto il travertino si è formato attraverso l’azione delle alghe; pirite e marcasite nelle rocce sedimentarie derivano dalla riduzione del solfato batterico. Insomma, chiamare il nostro pianeta Gaia e considerarlo un unico essere vivente non è affatto una teoria piuttosto naïf, come è stata percepita da molti in passato, quanto un serissimo modo di interpretare l’importanza e la funzione della vita per la Terra.

 

Nel 2013 – su New Scientist 3 – Bob Holmes descrisse sulla base di solide informazioni scientifiche un possibile scenario sul futuro della Terra, qualora la vita dovesse estinguersi. Senza piante e altri organismi fotosintetizzanti la produzione di ossigeno si esaurirebbe rapidamente e nell’atmosfera si accumulerebbero quantità crescenti di co2. Le temperature crescenti farebbero sciogliere le calotte polari; il suolo si riverserebbe nei mari per mancanza di struttura, lasciando una superficie di roccia nuda e di sabbia molto simile alle foto della superficie di Marte che ci mandano i rover. Su intervalli di tempo di alcune decine di milioni di anni, Holmes ipotizza un pianeta sottoposto ad un effetto serra fuori controllo con condizioni così estreme, simili a quelle di Venere, da rendere la Terra permanentemente inabitabile.




Bene, ma allora, pongo di nuovo la domanda di Fermi: dove sono tutti? Pensare che la vita sia così comune nell’universo immagino sia anche la conseguenza della scarsa considerazione che, in fondo, abbiamo per il nostro meraviglioso pianeta. Paradossalmente, poiché ci viviamo, pensiamo che debba essere qualcosa di comune.

 

Conoscete la teoria della bolla di filtraggio?

 

Non si parlò d’altro da quando Trump vinse le elezioni. Sei rimasto stordito dal fatto che Trump sia diventato presidente degli Stati Uniti? Vuol dire che vivi in una bolla che non ti fa percepire correttamente la realtà.

 

Nella sua formulazione originale, la teoria della bolla è stata formulata per la prima volta nel 2011 da Eli Pariser nel suo libro The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You. In estrema sintesi, la tesi di Pariser è che da quando le nostre opinioni si formano su internet corriamo il rischio di essere isolati da informazioni che non sono vicine al nostro mondo culturale o ideologico (la nostra bolla).




Utilizzando le informazioni provenienti dalle ricerche passate, dai nostri contatti, dagli indirizzi visitati ecc. le intelligenze artificiali che amministrano molti dei principali siti internet ci propongono soltanto quello che ritengono possa piacerci o interessarci, isolandoci di fatto da ogni esposizione a idee nuove o lontane dal nostro modo di vedere il mondo e modificando così la nostra percezione della realtà. Una teoria valida, ma che non limiterei a internet.

 

La verità è che ognuno di noi, internet o meno, vive dentro una sua bolla, frequentando persone che la pensano in maniera simile, con gusti conformi e attitudini compatibili con le nostre. Vivendo nelle nostre bolle riteniamo che ciò che noi percepiamo come normale e condiviso rappresenti l’intera realtà.

 

Bene, ora che abbiamo capito cosa è una bolla, ampliamone il significato a tutta la comunità degli umani. Noi tutti viviamo in una bolla di vita. Noi uomini siamo vivi, le piante sono vive, gli insetti, i pesci, gli uccelli, i microbi sono vivi; non esiste luogo della Terra in cui non ci siano miriadi di forme di vita. La nostra bolla è talmente immersa nella vita da farci ritenere che questa sia la condizione normale nell’universo. Non riusciamo ad immaginarci come i depositari di una sorte unica e fortunata. E, invece, potremmo benissimo essere dentro una bolla formata dai beneficiari di un enorme, incommensurabile, colpo di fortuna. La sola bolla formata da esseri viventi nell’universo. L’unica bolla, in altre parole.




Lo so, soltanto a dirlo sembra impossibile. È un po’ come se ci annunciassero che abbiamo appena vinto il primo premio da un fantastiliardo della lotteria galattica: nessuno dotato di buon senso ci crederebbe. Come Maria Antonietta che non capiva perché il popolo non si nutrisse di brioche. Errori di percezione che possono costare la testa.

 

Fatta chiarezza sull’immensa fortuna di cui siamo depositari, si tratta di capire a chi appartenga. Chi è il responsabile di questa casa comune? In altre parole, a chi appartiene la sua sovranità? La nostra più ovvia risposta è che la Terra appartiene all’uomo. Ossia che l’Homo sapiens è l’unica specie titolata a disporre del pianeta in funzione delle sue necessità. L’affermazione è talmente banale che non avrebbe bisogno di ulteriori prove a supporto. Quando mai il destino delle altre specie ha rappresentato un limite alle nostre azioni? Ci siamo sempre definiti i Signori della Terra e, anche se magari i più progressisti fra di noi potrebbero provare un certo pudore a considerarsi Signori di qualche cosa, questa è comunque la nostra intima convinzione. Vedrete.

 

La Terra è cosa nostra. Ne abbiamo diviso la superficie in Stati e ne abbiamo assegnato la sovranità ai diversi gruppi umani, che a loro volta l’hanno affidata a un limitatissimo numero di persone. Sono queste, pertanto, che detengono la reale sovranità della Terra.




Poche persone sono responsabili della sovranità dell’unico pianeta dell’universo sul quale la vita esiste. Non so quanto l’assurdità della faccenda vi colpisca, perché a me, talvolta, a pensarci, mi prende come un capogiro e mi sento come se fossi stato dislocato in uno di quegli infiniti universi paralleli in cui la logica non funziona nel modo cui siamo abituati. Un universo governato da regole pazzesche, anche se meno affascinanti di quelle del Paese delle Meraviglie di Alice.

 

Innanzitutto, da dove proviene questa investitura che ci rende Signori del Pianeta?

 

Lo siamo per nascita o per diritto divino?




O forse per manifesta superiorità sulle altre specie, alle cui carenze intellettuali dobbiamo supplire come bravi tutori?

 

O magari è semplicemente una sana questione di democrazia e dipende dal nostro numero?

 

Lasciando da parte diritto di nascita e diritto divino, sui quali non si può esercitare alcuna verifica logica, rimangono essenzialmente due possibilità. La prima: siamo i Signori della Terra perché siamo la specie più numerosa. Chiamiamola opzione democratica. La seconda: siamo i Signori della Terra perché siamo migliori di ogni altra specie vivente del pianeta. Chiamiamola opzione aristocratica (che mi rendo conto include, per la felicità dei più nostalgici, anche il diritto di nascita e il diritto divino).




Iniziamo dall’opzione democratica, anche se sono certo che la maggior parte dei miei colti lettori ha già chiaro che non può essere questa la soluzione. L’uomo, con i suoi oltre sette miliardi e mezzo di esemplari, rappresenta una quantità di biomassa (ossia massa vivente) pari ad un diecimillesimo dell’intera biomassa del pianeta.

 

Dei 550 gigatoni (un gigatone è pari ad un miliardo di tonnellate) di biomassa carboniosa sulla Terra4, gli animali costituiscono circa 2 gigatoni, con gli insetti che ne formano circa la metà e i pesci che contano per altri 0,7 gigatoni. Tutto il resto, che include mammiferi, uccelli, nematodi e molluschi consiste in 0,3 gigatoni. I funghi, da soli, hanno una biomassa sei volte superiore a quella degli animali (12 gigatoni). Le piante (450 gigatoni) rappresentano oltre l’80% della biomassa della Terra, mentre gli uomini, con i loro 0,06 gigatoni, contano per lo 0,01%.

 

È chiaro che non è in virtù del nostro numero che esercitiamo la sovranità sul pianeta. Per numero e rilevanza la sovranità della Terra dovrebbe appartenere alle piante.

 

Scartata l’opzione democratica per ovvia inconsistenza, rimane in vita quella aristocratica.

 

Dal greco άριστος, àristos, “migliore”, e κράτος, cràtos, “potere”, noi uomini siamo i Signori della Terra perché siamo migliori di qualunque altra specie mai esistita. Sono certo che l’opzione aristocratica appaia molto più convincente e robusta. Chi mai fra noi uomini non è intimamente convinto di essere migliore di qualunque altra specie vivente?

 

Non scherziamo.




Possiamo essere ambientalisti, fricchettoni, verdi, mistici, materialisti, religiosi, atei, anarchici o realisti, ma su una cosa siamo tutti d’accordo: siamo migliori di scimmie, mucche, albicocchi, felci, batteri e muffe. Anche in questo caso, l’affermazione sembra così evidente da non aver bisogno di essere ulteriormente sostanziata. Noi uomini siamo migliori di qualunque altra specie vivente, c’è poco da discutere. Siamo migliori, perché il nostro grande cervello ci permette di fare cose che sono impossibili a chiunque altro. Grazie al nostro possente encefalo, non abbiamo forse dipinto la Cappella Sistina, scolpito la Venere di Milo, ideato la teoria della relatività, scritto la Divina Commedia, costruito le piramidi, ragionato sulla nostra esistenza? Quale altro essere vivente sarebbe in grado di fare qualcosa di simile? Quale altra specie potrebbe mai chiedersi a chi appartenga la sovranità del pianeta? Non ci possono essere dubbi a riguardo: l’uomo è migliore di qualunque altro organismo vivente!

 

È in virtù di questa assoluta prevalenza che possediamo la Signoria del Pianeta.

 

Eppure, proviamo per un attimo a spostare lo sguardo dal fulgore della nostra unicità. Non più abbagliati dalle meravigliose conquiste umane, proviamo a ragionare su cosa voglia dire esattamente essere migliori. Il concetto di “migliore”, inevitabilmente, richiede un obiettivo. In una gara di velocità sui cento metri, chi impiega dieci secondi a percorrerli è migliore di chi ce ne mette undici. In una gara di salto in alto, chi salta due metri è migliore di chi ne salta uno e novanta. Federer è indiscutibilmente migliore di qualunque altro tennista. Dostoevskij è migliore di quasi tutto il resto. Ma nella storia della vita, cosa vuol dire “migliore”? Anzi: il concetto di “migliore” ha senso nella storia dell’evoluzione della vita?

 

Poiché deve esistere un obiettivo perché abbia un senso, quale è l’obiettivo della vita?




Sembra una di quelle terribili questioni esistenziali dalle quali non si cavano più le gambe e, invece, la risposta è semplicissima: l’obiettivo della vita è la sopravvivenza della specie. Darwin ci dice che l’evoluzione premia il più adatto a sopravvivere. L’organismo migliore, quindi, è il più adatto a sopravvivere.

 

Abbiamo fatto un bel passo avanti. Ora che sappiamo qual è l’obiettivo, dovrebbe essere facile continuare nella dimostrazione di una nostra eventuale superiorità. Chiunque di noi, infatti, ritiene che possedere un cervello così sviluppato sia sicuramente un vantaggio nella lotta per la sopravvivenza.

 

Ma ne siamo certi?

 

Perché siamo così incrollabili in questa sicurezza della nostra superiorità? Non è che stiamo cadendo in un’altra di queste molte distorsioni cognitive, tipo la bolla di filtraggio di poco prima, che sembrano affliggere il nostro glorificato cervello? Ad esempio, esiste una disfunzione cognitiva chiamata effetto Dunning-Kruger5 che induce negli individui poco esperti di un argomento una netta sopravvalutazione delle proprie competenze in quello stesso campo. Per carità, non è che prima di Dunning e Kruger nessuno se ne fosse accorto. Da Socrate in poi è un susseguirsi di so di non sapere, ma evidentemente ricordarlo non è mai superfluo. In ogni caso, meglio sempre affidarsi a dei dati oggettivi piuttosto che autodichiararsi superiori, rischiando di cadere anche noi nell’effetto Dunning-Kruger.




 Poiché abbiamo detto che l’obiettivo della vita è la sopravvivenza, ne consegue che le specie eventualmente migliori delle altre sono quelle che riescono meglio nel raggiungimento di questo obiettivo.

 

Bene, il problema è ormai chiaro: basta sapere quanto sopravvive una specie sulla Terra e, paragonandola all’uomo, dovremmo essere capaci di stilare una graduatoria delle specie migliori. Non è facile ottenere dati certi sulla vita media delle specie, tuttavia stime attendibili ci dicono che, fra gli animali, si va dai 10 milioni di anni degli invertebrati a un milione di anni dei mammiferi.

 

Più complesso è ottenere dati riguardanti il mondo vegetale, poiché le piante in media sopravvivono molto più a lungo degli animali. Il Ginkgo biloba ha probabilmente oltre 250 milioni di anni, gli equiseti erano già diffusi 350 milioni di anni fa. Una felce, l’Osmunda cinnamomea, è stata ritrovata in rocce fossili di 70 milioni di anni fa. In generale, si stima che la vita media di una specie, non importa se animale o vegetale, sia pari a 5 milioni di anni.

 

Ora che abbiamo i dati in mano, chiediamoci quanto ancora immaginiamo che l’uomo possa sopravvivere come specie. Ovviamente, qui i dati non possono venirci in aiuto. Tuttavia, sono certo che, se chiedessimo alle stesse persone che sono intimamente convinte della superiorità dell’uomo se credono che sopravvivrà per altri 100.000 anni, le risposte non sarebbero così ottimistiche.

 

Come mai?

 

Perché percepiamo come improbabile che la nostra specie riesca a sopravvivere anche soltanto altri 100.000 anni quando per raggiungere la media delle altre specie viventi ce ne potremmo legittimamente attendere altri 4.700.000?




Credo dipenda dai disastri che siamo riusciti a combinare sul pianeta in un lasso di tempo così incredibilmente breve come gli ultimi 10.000 anni, ossia dal momento in cui l’uomo creando l’agricoltura ha iniziato ad incidere profondamente sull’ambiente in cui vive. Non crediamo che riusciremo a sopravvivere come specie così a lungo perché abbiamo ben presente che il nostro grande cervello, di cui siamo così orgogliosi, è stato in grado di produrre, oltre alla Divina Commedia, anche una serie di innumerevoli pericoli che in qualunque momento potrebbero spazzarci via dal pianeta.

 

Così le scimmie, le mucche, gli albicocchi, le felci, i batteri e le muffe di cui parlavamo prima continueranno ad estinguersi soltanto in coincidenza di catastrofi apocalittiche, la cui frequenza sulla Terra si misura in milioni di anni, mentre noi rischiamo in ogni momento di sparire. E se svanissimo domani, fra mille anni o fra centomila, in altri centomila anni cosa rimarrebbe della Cappella Sistina, della Venere di Milo, della teoria della relatività, della Divina Commedia, delle piramidi e di tutti i nostri ragionamenti? Nulla. A chi importerebbe di queste meraviglie?

 

È per questo che la molto saggia Nazione delle Piante, nata centinaia di milioni di anni prima di qualunque nazione umana, garantisce a tutti gli esseri viventi la sovranità sulla Terra: per evitare che delle singole specie molto presuntuose possano estinguersi prima del tempo, dimostrando che il loro grosso cervello non era affatto un vantaggio, ma uno svantaggio evolutivo. 





carta dei diritti delle piante 

 

art.01

 

La Terra è la casa comune della vita. La sovranità appartiene ad ogni essere vivente 

 

art.02

 

La Nazione delle Piante riconosce e garantisce i diritti inviolabili delle comunità naturali come società basate sulle relazioni fra gli organismi che le compongono 

 

art.03

 

La Nazione delle Piante non riconosce le gerarchie animali, fondate su centri di comando e funzioni concentrate, e favorisce democrazie vegetali diffuse e decentralizzate 

 

art.04

 

La Nazione delle Piante rispetta universalmente i diritti dei viventi attuali e di quelli delle prossime generazioni 

 

art.05

 

La Nazione delle Piante garantisce il diritto all’acqua, al suolo e all’atmosfera puliti 

 

art.06

 

Il consumo di qualsiasi risorsa non ricostituibile per le generazioni future dei viventi è vietato 

 

art.07

 

La Nazione delle Piante non ha confini. Ogni essere vivente è libero di transitarvi, trasferirsi, vivervi senza alcuna limitazione 

 

art.08

 

La Nazione delle Piante riconosce e favorisce il mutuo appoggio fra le comunità naturali di esseri viventi come strumento di convivenza e di progresso

 

(S. Mancuso)






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