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Una
superficie di 510 milioni di chilometri quadrati; quasi 1100 miliardi di
chilometri cubici di volume; una massa di 5,97 × 1024 chilogrammi: sono queste
le dimensioni della nostra casa comune. A prima vista, potrebbe sembrare
enorme.
Ma non è
così.
Quando ne
confrontiamo le dimensioni con quelle di altri corpi celesti a noi vicini, ad
esempio il Sole, il cui volume è oltre 1.300.000 volte più grande di quello
della Terra, appare per quello che è realmente, un piccolo pianeta... ma dalle
qualità particolari: è, infatti, l’unico posto dell’universo finora conosciuto
che abbia sviluppato la vita. Soprattutto, è l’unico su cui la vita sembri
prosperare. Non sono le dimensioni, ma è la vita a rendere speciale il nostro
pianeta.
L’unicità della Terra, la mancanza di alternative credibili in grado di ospitare la vita – nonostante quanto si sente comunemente dire circa le possibilità di terraformare Marte o altri improbabili corpi celesti – fa sì che l’intero pianeta dovrebbe essere considerato un bene comune, intangibile, curato e custodito come si conviene all’unica casa possibile per la vita. Una casa, peraltro, molto fragile: limitata ad uno statarello superficiale che, all’incirca, va da 10.000 m sotto il livello del mare a 10.000 al di sopra di esso; 20 km totali che racchiudono l’unico luogo dell’universo – per quanto ci riguarda – all’interno del quale la vita esiste.
In molti
sono convinti che l’universo sia pieno di vita; serissimi calcoli ci raccontano
di un universo più affollato della metropolitana di Tokyo nell’ora di punta.
Può darsi. Io non ci scommetterei.
L’ossessione
per la vita aliena non è, ad oggi, supportata da una singola evidenza, mentre
la famosa domanda di Fermi, dove sono
tutti?, continua ad essere più valida che mai. Questo continuo discutere di
pianeti simili alla Terra dove la vita già potrebbe esistere o dove, in ogni
caso, potrebbe tranquillamente attecchire, credo rappresenti una specie di
rassicurazione per i disastri che stiamo combinando.
Un’assicurazione che il nostro futuro, comunque vada, anche se finiremo le risorse di questo pianeta, da qualche parte potrà continuare. Nonostante non esista una sola evidenza dell’esistenza di vita al di fuori della Terra, provate a parlarne con chiunque si interessi al problema e inizierà a fare calcoli che partendo dai milioni di miliardi di galassie dell’universo e passando dal numero di probabili pianeti abitabili, escludendo quelli che non hanno temperature compatibili con la vita, quelli troppo giovani, quelli troppo vecchi, quelli che ci stanno antipatici ecc., arriverà alla fine ad indicarci un numero altissimo, non di pianeti che ospitano la semplice vita, ma di civiltà intelligenti ed evolute almeno quanto la nostra.
La madre di
tutte queste equazioni, giusto per farvi capire come funziona il ragionamento,
è la famosissima equazione formulata negli anni ’60 dall’astronomo Frank Drake:
N = R × fp × ne × fl × fi × fc × L.
Allora
mettiamo da parte i calcoli.
Negli
ultimi decenni la conoscenza dei nostri vicini spaziali si è accresciuta
esponenzialmente. E tuttavia, mai nessuna prova dell’esistenza di vita.
Nell’estate del 2015 la sonda spaziale della nasa New Horizons arrivava a soli
12.500 km da Plutone, il più distante dei pianeti2, rimandandoci indietro, a
coronazione di una lunga serie di esplorazioni, le prime informazioni dirette e
foto ravvicinate di questo nostro distante parente planetario. Una sonda è
atterrata sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko; Juno è entrata in orbita
intorno a Giove; i due rover Opportunity e Curiosity da anni ci trasmettono
dati sulla composizione del suolo marziano e sono stati, da poco, raggiunti da
un terzo veicolo: Insight, che studierà il sottosuolo di Marte.
Il risultato, per me, più interessante di questa incessante esplorazione del sistema solare è che la composizione di ognuno dei luoghi visitati appaia sempre molto più semplice di quella della Terra. La complessità del nostro pianeta è data dalla vita. Gli esseri viventi sono talmente connessi con la trama della Terra che provare a immaginarla sterile, al di fuori di qualche apocalittico romanzo di fantascienza, è impossibile. Se fosse priva di vita, la Terra assomiglierebbe a qualcosa a metà tra Venere e Marte.
Sarebbe
sempre azzurra?
Sembra di
no.
Di sicuro non sarebbe verde.
Che effetto
avrebbe sul pianeta la completa assenza di ossigeno libero? L’ossigeno che
respiriamo, infatti, è prodotto interamente dagli esseri viventi. A voler
essere precisi, da quelli in grado di effettuare la fotosintesi. La mancanza di
ossigeno che effetto avrebbe sull’acqua, sulle rocce, sul suolo del nostro
pianeta? Nessuno è in grado di rispondere a questa domanda.
La verità è che molto di ciò che vediamo sulla Terra è il risultato dell’azione di organismi viventi. I fiumi, le coste, le montagne stesse sono disegnati dall’azione della vita: le bianche scogliere di Dover, così come molte delle falesie continentali, sono formate dall’accumulo sedimentario degli scheletri di innumerevoli coccolitofori (alghe unicellulari ricoperte da scaglie di carbonato di calcio); molto, se non tutto il travertino si è formato attraverso l’azione delle alghe; pirite e marcasite nelle rocce sedimentarie derivano dalla riduzione del solfato batterico. Insomma, chiamare il nostro pianeta Gaia e considerarlo un unico essere vivente non è affatto una teoria piuttosto naïf, come è stata percepita da molti in passato, quanto un serissimo modo di interpretare l’importanza e la funzione della vita per la Terra.
Nel 2013 –
su New Scientist 3 – Bob Holmes
descrisse sulla base di solide informazioni scientifiche un possibile scenario
sul futuro della Terra, qualora la vita dovesse estinguersi. Senza piante e
altri organismi fotosintetizzanti la produzione di ossigeno si esaurirebbe
rapidamente e nell’atmosfera si accumulerebbero quantità crescenti di co2. Le
temperature crescenti farebbero sciogliere le calotte polari; il suolo si
riverserebbe nei mari per mancanza di struttura, lasciando una superficie di
roccia nuda e di sabbia molto simile alle foto della superficie di Marte che ci
mandano i rover. Su intervalli di tempo di alcune decine di milioni di anni,
Holmes ipotizza un pianeta sottoposto ad un effetto serra fuori controllo con
condizioni così estreme, simili a quelle di Venere, da rendere la Terra
permanentemente inabitabile.
Bene, ma allora, pongo di nuovo la domanda di Fermi: dove sono tutti? Pensare che la vita sia così comune nell’universo immagino sia anche la conseguenza della scarsa considerazione che, in fondo, abbiamo per il nostro meraviglioso pianeta. Paradossalmente, poiché ci viviamo, pensiamo che debba essere qualcosa di comune.
Conoscete
la teoria della bolla di filtraggio?
Non si parlò
d’altro da quando Trump vinse le elezioni. Sei rimasto stordito dal fatto che
Trump sia diventato presidente degli Stati Uniti? Vuol dire che vivi in una
bolla che non ti fa percepire correttamente la realtà.
Nella
sua formulazione originale, la teoria della bolla è stata formulata per la
prima volta nel 2011 da Eli Pariser nel suo libro The Filter Bubble: What the
Internet Is Hiding from You. In estrema sintesi, la tesi di Pariser è che da
quando le nostre opinioni si formano su internet corriamo il rischio di essere
isolati da informazioni che non sono vicine al nostro mondo culturale o
ideologico (la nostra bolla).
Utilizzando le informazioni provenienti dalle ricerche passate, dai nostri contatti, dagli indirizzi visitati ecc. le intelligenze artificiali che amministrano molti dei principali siti internet ci propongono soltanto quello che ritengono possa piacerci o interessarci, isolandoci di fatto da ogni esposizione a idee nuove o lontane dal nostro modo di vedere il mondo e modificando così la nostra percezione della realtà. Una teoria valida, ma che non limiterei a internet.
La
verità è che ognuno di noi, internet o meno, vive dentro una sua bolla,
frequentando persone che la pensano in maniera simile, con gusti conformi e
attitudini compatibili con le nostre. Vivendo nelle nostre bolle riteniamo che
ciò che noi percepiamo come normale e condiviso rappresenti l’intera realtà.
Bene, ora
che abbiamo capito cosa è una bolla, ampliamone il significato a tutta la
comunità degli umani. Noi tutti viviamo in una bolla di vita. Noi uomini siamo
vivi, le piante sono vive, gli insetti, i pesci, gli uccelli, i microbi sono
vivi; non esiste luogo della Terra in cui non ci siano miriadi di forme di
vita. La nostra bolla è talmente immersa nella vita da farci ritenere che
questa sia la condizione normale nell’universo. Non riusciamo ad immaginarci
come i depositari di una sorte unica e fortunata. E, invece, potremmo benissimo
essere dentro una bolla formata dai beneficiari di un enorme, incommensurabile,
colpo di fortuna. La sola bolla formata da esseri viventi nell’universo.
L’unica bolla, in altre parole.
Lo so, soltanto a dirlo sembra impossibile. È un po’ come se ci annunciassero che abbiamo appena vinto il primo premio da un fantastiliardo della lotteria galattica: nessuno dotato di buon senso ci crederebbe. Come Maria Antonietta che non capiva perché il popolo non si nutrisse di brioche. Errori di percezione che possono costare la testa.
Fatta
chiarezza sull’immensa fortuna di cui siamo depositari, si tratta di capire a
chi appartenga. Chi è il responsabile di questa casa comune? In altre parole, a
chi appartiene la sua sovranità? La nostra più ovvia risposta è che la Terra
appartiene all’uomo. Ossia che l’Homo sapiens è l’unica specie titolata a
disporre del pianeta in funzione delle sue necessità. L’affermazione è talmente
banale che non avrebbe bisogno di ulteriori prove a supporto. Quando mai il
destino delle altre specie ha rappresentato un limite alle nostre azioni? Ci
siamo sempre definiti i Signori della Terra e, anche se magari i più
progressisti fra di noi potrebbero provare un certo pudore a considerarsi
Signori di qualche cosa, questa è comunque la nostra intima convinzione.
Vedrete.
La Terra è
cosa nostra. Ne abbiamo diviso la superficie in Stati e ne abbiamo assegnato la
sovranità ai diversi gruppi umani, che a loro volta l’hanno affidata a un
limitatissimo numero di persone. Sono queste, pertanto, che detengono la reale
sovranità della Terra.
Poche persone sono responsabili della sovranità dell’unico pianeta dell’universo sul quale la vita esiste. Non so quanto l’assurdità della faccenda vi colpisca, perché a me, talvolta, a pensarci, mi prende come un capogiro e mi sento come se fossi stato dislocato in uno di quegli infiniti universi paralleli in cui la logica non funziona nel modo cui siamo abituati. Un universo governato da regole pazzesche, anche se meno affascinanti di quelle del Paese delle Meraviglie di Alice.
Innanzitutto,
da dove proviene questa investitura che ci rende Signori del Pianeta?
Lo siamo
per nascita o per diritto divino?
O forse per manifesta superiorità sulle altre specie, alle cui carenze intellettuali dobbiamo supplire come bravi tutori?
O magari è
semplicemente una sana questione di democrazia e dipende dal nostro numero?
Lasciando
da parte diritto di nascita e diritto divino, sui quali non si può esercitare
alcuna verifica logica, rimangono essenzialmente due possibilità. La prima:
siamo i Signori della Terra perché siamo la specie più numerosa. Chiamiamola opzione democratica. La seconda: siamo i
Signori della Terra perché siamo migliori di ogni altra specie vivente del
pianeta. Chiamiamola opzione aristocratica (che
mi rendo conto include, per la felicità dei più nostalgici, anche il diritto di
nascita e il diritto divino).
Iniziamo dall’opzione democratica, anche se sono certo che la maggior parte dei miei colti lettori ha già chiaro che non può essere questa la soluzione. L’uomo, con i suoi oltre sette miliardi e mezzo di esemplari, rappresenta una quantità di biomassa (ossia massa vivente) pari ad un diecimillesimo dell’intera biomassa del pianeta.
Dei 550
gigatoni (un gigatone è pari ad un miliardo di tonnellate) di biomassa
carboniosa sulla Terra4, gli animali costituiscono circa 2 gigatoni, con gli
insetti che ne formano circa la metà e i pesci che contano per altri 0,7
gigatoni. Tutto il resto, che include mammiferi, uccelli, nematodi e molluschi
consiste in 0,3 gigatoni. I funghi, da soli, hanno una biomassa sei volte
superiore a quella degli animali (12 gigatoni). Le piante (450 gigatoni)
rappresentano oltre l’80% della biomassa della Terra, mentre gli uomini, con i
loro 0,06 gigatoni, contano per lo 0,01%.
È chiaro che non è in virtù del nostro
numero che esercitiamo la sovranità sul pianeta. Per numero e rilevanza la
sovranità della Terra dovrebbe appartenere alle piante.
Scartata
l’opzione democratica per ovvia inconsistenza, rimane
in vita quella aristocratica.
Dal greco
άριστος, àristos, “migliore”, e κράτος, cràtos, “potere”, noi uomini siamo i
Signori della Terra perché siamo migliori di qualunque altra specie mai
esistita. Sono certo che l’opzione aristocratica appaia molto più convincente e
robusta. Chi mai fra noi uomini non è intimamente convinto di essere migliore
di qualunque altra specie vivente?
Non
scherziamo.
Possiamo essere ambientalisti, fricchettoni, verdi, mistici, materialisti, religiosi, atei, anarchici o realisti, ma su una cosa siamo tutti d’accordo: siamo migliori di scimmie, mucche, albicocchi, felci, batteri e muffe. Anche in questo caso, l’affermazione sembra così evidente da non aver bisogno di essere ulteriormente sostanziata. Noi uomini siamo migliori di qualunque altra specie vivente, c’è poco da discutere. Siamo migliori, perché il nostro grande cervello ci permette di fare cose che sono impossibili a chiunque altro. Grazie al nostro possente encefalo, non abbiamo forse dipinto la Cappella Sistina, scolpito la Venere di Milo, ideato la teoria della relatività, scritto la Divina Commedia, costruito le piramidi, ragionato sulla nostra esistenza? Quale altro essere vivente sarebbe in grado di fare qualcosa di simile? Quale altra specie potrebbe mai chiedersi a chi appartenga la sovranità del pianeta? Non ci possono essere dubbi a riguardo: l’uomo è migliore di qualunque altro organismo vivente!
È
in virtù di questa assoluta prevalenza che possediamo la Signoria del Pianeta.
Eppure,
proviamo per un attimo a spostare lo sguardo dal fulgore della nostra unicità.
Non più abbagliati dalle meravigliose conquiste umane, proviamo a ragionare su
cosa voglia dire esattamente essere migliori. Il concetto di “migliore”,
inevitabilmente, richiede un obiettivo. In una gara di velocità sui cento metri,
chi impiega dieci secondi a percorrerli è migliore di chi ce ne mette undici.
In una gara di salto in alto, chi salta due metri è migliore di chi ne salta
uno e novanta. Federer è indiscutibilmente migliore di qualunque altro
tennista. Dostoevskij è migliore di quasi tutto il resto. Ma nella storia della
vita, cosa vuol dire “migliore”? Anzi: il concetto di “migliore” ha senso nella
storia dell’evoluzione della vita?
Poiché deve
esistere un obiettivo perché abbia un senso, quale è l’obiettivo della vita?
Sembra una di quelle terribili questioni esistenziali dalle quali non si cavano più le gambe e, invece, la risposta è semplicissima: l’obiettivo della vita è la sopravvivenza della specie. Darwin ci dice che l’evoluzione premia il più adatto a sopravvivere. L’organismo migliore, quindi, è il più adatto a sopravvivere.
Abbiamo
fatto un bel passo avanti. Ora che sappiamo qual è l’obiettivo, dovrebbe essere
facile continuare nella dimostrazione di una nostra eventuale superiorità.
Chiunque di noi, infatti, ritiene che possedere un cervello così sviluppato sia
sicuramente un vantaggio nella lotta per la sopravvivenza.
Ma ne siamo certi?
Perché
siamo così incrollabili in questa sicurezza della nostra superiorità? Non è che
stiamo cadendo in un’altra di queste molte distorsioni cognitive, tipo la bolla
di filtraggio di poco prima, che sembrano affliggere il nostro glorificato
cervello? Ad esempio, esiste una disfunzione cognitiva chiamata effetto
Dunning-Kruger5 che induce negli individui poco esperti di un argomento una
netta sopravvalutazione delle proprie competenze in quello stesso campo. Per
carità, non è che prima di Dunning e Kruger nessuno se ne fosse accorto. Da
Socrate in poi è un susseguirsi di so di
non sapere, ma evidentemente ricordarlo non è mai superfluo. In ogni caso,
meglio sempre affidarsi a dei dati oggettivi piuttosto che autodichiararsi
superiori, rischiando di cadere anche noi nell’effetto Dunning-Kruger.
Bene, il
problema è ormai chiaro: basta sapere quanto sopravvive una specie sulla Terra
e, paragonandola all’uomo, dovremmo essere capaci di stilare una graduatoria
delle specie migliori. Non è facile ottenere dati certi sulla vita media delle
specie, tuttavia stime attendibili ci dicono che, fra gli animali, si va dai 10
milioni di anni degli invertebrati a un milione di anni dei mammiferi.
Più complesso è ottenere dati
riguardanti il mondo vegetale, poiché le piante in media sopravvivono molto più
a lungo degli animali. Il Ginkgo biloba ha probabilmente oltre 250 milioni di
anni, gli equiseti erano già diffusi 350 milioni di anni fa. Una felce,
l’Osmunda cinnamomea, è stata ritrovata in rocce fossili di 70 milioni di anni
fa. In generale, si stima che la vita media di una specie, non importa se
animale o vegetale, sia pari a 5 milioni di anni.
Ora che
abbiamo i dati in mano, chiediamoci quanto ancora immaginiamo che l’uomo possa
sopravvivere come specie. Ovviamente, qui i dati non possono venirci in aiuto.
Tuttavia, sono certo che, se chiedessimo alle stesse persone che sono
intimamente convinte della superiorità dell’uomo se credono che sopravvivrà per
altri 100.000 anni, le risposte non sarebbero così ottimistiche.
Come mai?
Perché
percepiamo come improbabile che la nostra specie riesca a sopravvivere anche
soltanto altri 100.000 anni quando per raggiungere la media delle altre specie
viventi ce ne potremmo legittimamente attendere altri 4.700.000?
Credo dipenda dai disastri che siamo riusciti a combinare sul pianeta in un lasso di tempo così incredibilmente breve come gli ultimi 10.000 anni, ossia dal momento in cui l’uomo creando l’agricoltura ha iniziato ad incidere profondamente sull’ambiente in cui vive. Non crediamo che riusciremo a sopravvivere come specie così a lungo perché abbiamo ben presente che il nostro grande cervello, di cui siamo così orgogliosi, è stato in grado di produrre, oltre alla Divina Commedia, anche una serie di innumerevoli pericoli che in qualunque momento potrebbero spazzarci via dal pianeta.
Così le scimmie, le mucche, gli
albicocchi, le felci, i batteri e le muffe di cui parlavamo prima continueranno
ad estinguersi soltanto in coincidenza di catastrofi apocalittiche, la cui
frequenza sulla Terra si misura in milioni di anni, mentre noi rischiamo in
ogni momento di sparire. E se svanissimo domani, fra mille anni o fra
centomila, in altri centomila anni cosa rimarrebbe della Cappella Sistina,
della Venere di Milo, della teoria della relatività, della Divina Commedia,
delle piramidi e di tutti i nostri ragionamenti? Nulla. A chi importerebbe di
queste meraviglie?
È per questo che la molto saggia Nazione
delle Piante, nata centinaia di milioni di anni prima di qualunque nazione
umana, garantisce a tutti gli esseri viventi la sovranità sulla Terra: per
evitare che delle singole specie molto presuntuose possano estinguersi prima
del tempo, dimostrando che il loro grosso cervello non era affatto un
vantaggio, ma uno svantaggio evolutivo.
carta dei diritti delle piante
art.01
La Terra è la casa comune della vita. La sovranità appartiene ad ogni essere vivente
art.02
La Nazione delle Piante riconosce e garantisce i diritti inviolabili delle comunità naturali come società basate sulle relazioni fra gli organismi che le compongono
art.03
La Nazione delle Piante non riconosce le gerarchie animali, fondate su centri di comando e funzioni concentrate, e favorisce democrazie vegetali diffuse e decentralizzate
art.04
La Nazione delle Piante rispetta universalmente i diritti dei viventi attuali e di quelli delle prossime generazioni
art.05
La Nazione delle Piante garantisce il diritto all’acqua, al suolo e all’atmosfera puliti
art.06
Il consumo di qualsiasi risorsa non ricostituibile per le generazioni future dei viventi è vietato
art.07
La Nazione delle Piante non ha confini. Ogni essere vivente è libero di transitarvi, trasferirsi, vivervi senza alcuna limitazione
art.08
La Nazione
delle Piante riconosce e favorisce il mutuo appoggio fra le comunità naturali
di esseri viventi come strumento di convivenza e di progresso
(S. Mancuso)
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