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L'armonia della 'materia' (21/1)
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Imbarbarimento del Sapere (23)
Eppure la
formula di Filolao è letteralmente
vera. Ogni analisi serrata e rigorosa della percezione, dell’illusione, della
fantasticheria, del sogno, degli stati più o meno prossimi all’allucinazione,
mostra che la percezione del mondo reale differisce dagli errori che le
somigliano solo perché implica un contatto con una necessità. La necessità ci
appare sempre come un insieme di leggi di variazione, determinate da rapporti
fissi e invarianti. La realtà per lo
spirito umano non è altra cosa che il contatto con la necessità. Vi è in ciò
una contraddizione, perché la necessità è intelligibile, non tangibile. Così il
sentimento della realtà costituisce un’armonia e un mistero.
Ci si persuade
della realtà di un oggetto facendone il giro, operazione che produce
successivamente apparenze variate, determinate dalla fissità di una forma
diversa da tutte le apparenze ed esteriore ad esse, trascendente rispetto ad
esse. Grazie a questa operazione noi conosciamo che l’oggetto è una cosa, non
un fantasma, che ha un corpo.
I rapporti
di quantità che sostengono la parte di gnomone costituiscono dunque proprio il
corpo dell’oggetto. Lagneau, che d’altronde ignorava senza dubbio la formula di
Filolao, faceva questa analisi per mezzo di una scatola cubica. Nessuna delle
apparenze della scatola ha la forma di un cubo, ma per chi gira attorno alla
scatola, la forma del cubo è ciò che determina la variazione della forma
apparente. Questa determinazione costituisce così bene per noi il corpo stesso
dell’oggetto, che guardando la scatola noi crediamo di vedere un cubo, ciò che
invece non si verifica mai. Il rapporto del cubo, che a parlare esattamente non
è mai visto, con le apparenze prodotte dalla prospettiva è come il rapporto
dell’asta del quadrante solare con le ombre. L’esempio del cubo è forse anche
più bello. L’una e l’altra relazione possono, grazie a una trasposizione
analogica, fornire la chiave di ogni conoscenza umana.
È utile
meditarle indefinitamente.
La realtà dell’universo per noi non è altra cosa
che la necessità, la cui struttura è quella del gnomone, sostenuta da qualche
cosa. Le
occorre un sostegno, perché la necessità in sé stessa è essenzialmente
condizionale. Senza sostegno, essa non è che astrazione. Su un sostegno, essa
costituisce la realtà stessa della creazione. Quanto al sostegno, noi non
possiamo averne alcuna concezione. È ciò
che i Greci chiamavano con una parola (apeiron) che vuol dire insieme
illimitato e indeterminato. È ciò che Platone chiamava il ricettacolo, la
matrice, il porta impronte, l’essenza che è madre di tutte le cose, e allo
stesso tempo sempre intatta, sempre vergine.
L’acqua ne
è la migliore immagine, perché non ha né forma né colore, benché sia visibile e
tangibile. È impossibile a questo
proposito non rilevare che le parole materia, madre, mare, Maria si somigliano
al punto da essere quasi identiche. Questo carattere dell’acqua rende conto
del suo uso simbolico nel battesimo, più che il suo potere di lavare.
Per noi la materia è semplicemente ciò che è
sottoposto alla necessità. Non ne sappiamo altro. La necessità è
costituita per noi da leggi quantitative di variazione nelle apparenze. Là dove
non c’è quantità propriamente detta, vi è qualcosa di analogo. Una legge
quantitativa di variazione è una funzione. La funzione è ciò che i Greci
chiamavano numero o rapporto, arithmos o logos, ed è essa, ancora, a
costituirne il limite. L’immagine più chiara della funzione è fornita dalla
serie continua dei triangoli aventi gli stessi angoli. È una proporzione. È la
geometria che fa apparire la nozione di funzione.
La
necessità è una nemica per l’uomo finché egli pensa in prima persona. A dire il
vero egli non ha con essa le tre specie di rapporti che ha con gli uomini.
Nella fantasticheria e nell'esercizio del potere sociale essa sembra sua
schiava. Nelle contrarietà, nelle privazioni, nelle pene, nelle sofferenze, ma
soprattutto nella sventura essa appare come un padrone assoluto e brutale. Nell’azione
metodica c’è un punto di equilibrio in cui la necessità, per il suo carattere
condizionale, presenta nello stesso tempo all’uomo degli ostacoli e dei mezzi
in rapporto con i fini parziali che egli persegue, e nel quale c’è una specie
di eguaglianza fra il volere di un uomo e la necessità universale. Questo punto
di equilibrio sta ai rapporti dell’uomo con il mondo come la giustizia naturale
sta ai rapporti fra gli uomini; nell’organizzazione del lavoro, della tecnica e
di tutta l'attività umana bisogna sforzarsi di ottenerlo il più spesso
possibile.
Perché il
compito proprio del legislatore è di suscitare nella vita sociale le immagini
naturali delle virtù soprannaturali in tutta la misura del possibile. Questo
equilibrio attivo fra l’uomo e la necessità universale, unito all’equilibrio
delle forze e dei bisogni fra gli uomini, costituirebbe, se una cosa simile
potesse sussistere a lungo, la felicità naturale. L’aspirazione alla felicità
naturale è buona, sana e preziosa, così come per la salute di un bambino è bene
che egli sia attirato verso gli alimenti dal loro sapore, sebbene la
costituzione chimica e non il sapore ne costituisca la virtù.
L’esperienza
e il desiderio delle gioie soprannaturali non distruggono nell’anima l’aspirazione
alla felicità naturale, ma le conferiscono una pienezza di significato. La
felicità naturale ha un valore autentico solo quando una gioia perfettamente
pura vi si aggiunge grazie al sentimento della bellezza. Il delitto e la
sventura, al contrario, ciascuno in modo diverso, ma con eguale efficacia,
distruggono per sempre l’aspirazione alla felicità naturale.
L’equilibrio
fra il volere umano e la necessità nell’azione metodica è soltanto un’immagine;
se lo si prende per una realtà è una menzogna. In particolare, quelli che l’uomo
prende per fini, sono sempre semplicemente dei mezzi. La stanchezza costringe
ad accorgersi dell’illusione. Nello stato di stanchezza intensa l’uomo cessa di
aderire alla propria azione e persino al proprio volere; egli si percepisce
come una cosa che ne spinge altre perché spinta essa stessa da una violenza.
Effettivamente la volontà umana, per quanto un certo sentimento di scelta vi
sia irriducibilmente legato, è semplicemente un fenomeno tra tutti quelli che
sono sottoposti alla necessità. Prova ne sia che essa comporta dei limiti.
Solo l’infinito è fuori del dominio della
necessità.
Nell’universo,
l’uomo non prova la necessità se non, contemporaneamente, come un ostacolo e
una condizione di compimento per il suo volere; di conseguenza questa prova non
è mai interamente pura dalle illusioni irriducibilmente legate all’esercizio
della volontà. Per pensare la necessità in modo puro bisogna staccarla dalla
materia che la sostiene e concepirla come un tessuto di condizioni legate le
une alle altre. Questa necessità pura e condizionale non è altro che l’oggetto
stesso della matematica e di certe operazioni del pensiero analoghe alla
matematica, teoriche, pure e rigorose come quella, ma alle quali non si dà nome
perché non si discernono. Contrariamente a un pregiudizio oggi abbastanza
diffuso, la matematica è prima di tutto una scienza della natura; o piuttosto
essa è la scienza della natura per eccellenza, la sola. Ogni altra scienza è
semplicemente un’applicazione particolare della matematica.
Nella
necessità, pensata così come condizionale, l’uomo non è presente a nessun
titolo; non ha alcuna parte in essa al di fuori dell’operazione stessa con la
quale la pensa. La facoltà da cui procede questa operazione è beninteso per
essenza sottratta alla necessità, sottratta al limite e al numero. La
concatenazione puramente condizionale della necessità è la concatenazione della
dimostrazione stessa. Considerata in tal modo, la necessità non è più per l’uomo
né un nemico né un padrone. Tuttavia essa è qualcosa di estraneo e che si
impone.
La
conoscenza dei fenomeni sensibili consiste unicamente nel riconoscere in essi
qualche cosa di analogo a questa necessità puramente condizionale. È così anche
dei fenomeni psicologici e sociali. Li si conosce in quanto vi si riconosce in modo
concreto e preciso, ad ogni occasione, la presenza di una necessità analoga
alla necessità matematica. Per questo i Pitagorici dicevano che non si conosce
che il numero. Essi chiamavano la necessità matematica «numero» o «rapporto»
(logos o logismos).
La
necessità matematica è mediatrice tra tutta la parte naturale dell’uomo, che è
materia corporale psichica, e la particella infinitesimale di lui che non
appartiene a questo mondo. L’uomo, benché si sforzi, ma spesso vanamente, di
alimentare in se stesso l’illusione contraria, è quaggiù lo schiavo delle forze
della natura che lo superano infinitamente. Quella forza che governa il mondo e
fa obbedire ogni uomo, come un padrone armato di una frusta fa obbedire
infallibilmente uno schiavo, quella forza è la stessa cosa che lo spirito umano
concepisce con il nome di necessità.
Il rapporto
tra la necessità e l’intelligenza non è più il rapporto tra il padrone e lo
schiavo. Non è neppure il rapporto inverso, né il rapporto tra due uomini
liberi. È il rapporto tra l’oggetto contemplato e lo sguardo. La facoltà che
nell’uomo guarda la forza più brutale come si guarda un quadro, chiamandola
necessità, quella facoltà non è ciò che nell’uomo appartiene all’altro mondo. Essa è alla intersezione dei due mondi.
La facoltà che non appartiene a questo mondo è quella del consenso. L’uomo è
libero di consentire o no alla necessità. Questa libertà non è attuale in lui
se non quando egli concepisca la forza come necessità, vale a dire quando la
contempli. Egli non è libero di consentire alla forza come tale. Lo schiavo che
vede la frusta levarsi su di lui non consente. Non rifiuta il suo consenso,
trema. Eppure sotto il nome di necessità, proprio alla forza brutale consente l’uomo
quando consente, proprio alla frusta. Nessun movente, nessun motivo può essere
sufficiente per un tale consenso. Questo consenso è una follia, la follia
propria dell’uomo, come la Creazione, l’Incarnazione, la Passione costituiscono
insieme la follia propria di Dio.
Le due
follie si rispondono.
Non è
sorprendente che questo mondo sia per eccellenza il luogo della sventura,
perché senza la sventura perpetuamente sospesa, nessuna follia da parte
dell'uomo potrebbe fare eco a quella di Dio, che è già contenuta tutta intera
nell’atto di creare. Perché, creando, Dio rinuncia a essere tutto, abbandona un
po’ di essere a ciò che è altro da lui. La creazione è rinuncia per amore. La
vera risposta all’eccesso dell’amore divino non consiste nell’infliggersi
volontariamente delle sofferenze, perché la sofferenza che si infligge a se
stessi, per quanto intensa, lunga, violenta, non è distruttrice. Non è in
potere di un essere distruggere se stesso. La vera risposta consiste soltanto
nell’accettare la possibilità di essere distrutto, vale a dire la possibilità della
sventura, sia che questa si produca effettivamente o no. Non ci si infligge mai
la sventura, né per amore né per perversità. Tutt'al più si può, sotto l’una o
l’altra ispirazione, fare distrattamente e come a propria insaputa due o tre
passi che portano al punto sdrucciolevole, dove si diviene preda della forza di
gravità, e da dove si cade su pietre che spezzano le reni.
Il consenso
alla necessità è puro amore ed anche, in qualche modo, eccesso d’amore. Questo
amore non ha per oggetto la necessità in sé, né il mondo visibile di cui essa
costituisce la stoffa. Non è in potere dell’uomo amare la materia come tale.
Quando un uomo ama un oggetto è perché vi colloca con il pensiero una porzione
della sua vita passata, talora anche un futuro desiderato, oppure perché questo
oggetto ha rapporto con un altro essere umano. Si ama un oggetto che è il
ricordo di un essere amato, un’opera d’arte che è il lavoro di un uomo di
genio.
L’universo è per noi un ricordo; ricordo di quale
essere amato?
L’universo
è un’opera d’arte; quale artista ne è l’autore?
Non
possediamo risposte a queste domande. Ma quando l’amore da cui procede il
consenso alla necessità esiste in noi, possediamo la prova sperimentale che c’è
una risposta. Perché non per amore degli altri uomini noi consentiamo alla
necessità. L’amore degli altri uomini è in un certo senso un ostacolo a questo
consenso, poiché la necessità schiaccia gli altri come noi stessi. È per amore
di qualcosa che non è una persona umana, e che tuttavia è qualcosa come una
persona. Perché ciò che non è qualcosa come una persona non è oggetto d’amore.
Qualunque sia la credenza professata a proposito delle cose religiose, compreso
l’ateismo, là ove il consenso alla necessità è completo, autentico e
incondizionato, vi è la pienezza dell’amore di Dio; e in nessun altro luogo.
Questo consenso costituisce la partecipazione alla croce del Cristo…
…L’ordine è
equilibrio e immobilità.
L’universo sottoposto al tempo è in perpetuo
divenire.
L’energia
che lo muove è principio di rottura di equilibrio. Ma tuttavia questo divenire,
composto di rotture di equilibrio, è in realtà un equilibrio per il fatto che
le rotture di equilibrio vi si compensano. Questo divenire è un equilibrio
rifratto nel tempo. Questo esprime la
prodigiosa formula di Anassimandro, formula di una profondità insondabile:
«Proprio a
partire dall’indeterminazione si compie la nascita delle cose, proprio per un
ritorno all’indeterminazione si opera la loro distruzione conformemente alla
necessità; poiché esse subiscono un castigo e un’espiazione le une da parte
delle altre, causa la loro ingiustizia, secondo l’ordine del tempo».
Considerato in sé stesso, ogni cambiamento, e di
conseguenza ogni fenomeno, per quanto piccolo sia, contiene il principio della
distruzione dell’ordine universale. Al contrario, considerato nella sua
connessione con tutti i fenomeni contenuti nella totalità dello spazio e del
tempo, connessione che gli impone un limite e lo pone in rapporto con una
rottura di equilibrio eguale e inversa, ogni fenomeno contiene in sé stesso la
presenza totale dell’ordine del mondo.
Poiché la
necessità è mediatrice fra la materia e Dio, noi concepiamo la volontà di Dio
come avente due rapporti differenti con la necessità e con la materia. Questa
differenza è espressa, per l’immaginazione umana, in maniera irrimediabilmente
difettosa, con il mito del caos primitivo, nel quale Dio stabilisce un ordine,
mito che si è a torto rimproverato alla saggezza antica, e che si trova
indicato anche nel Genesi. Un’altra maniera di indicare questa differenza è di
riferire particolarmente la necessità alla seconda Persona della Trinità
considerata sia come ordinatrice sia come Anima del mondo. L’Anima del mondo non è altra cosa che l’ordine del mondo concepito
come una persona…
Di fatto,
il mondo è bello. Quando siamo soli in piena natura e disposti all’attenzione,
qualcosa ci porta ad amare ciò che ci circonda, e che pure non è fatto che di
materia bruta, inerte, muta e sorda. E la bellezza ci tocca tanto più vivamente
quanto più la necessità vi appare in maniera manifesta, per esempio nelle
pieghe che la forza di gravità imprime alle montagne o ai flutti del mare, nel
corso degli astri. Anche nella matematica pura la necessità risplende di
bellezza. Senza dubbio l’essenza stessa del sentimento della bellezza è il
sentimento che questa necessità, di cui una delle facce è costrizione brutale,
ha per altra faccia l’obbedienza a Dio. Per effetto di una misericordia
provvidenziale questa verità è resa sensibile alla parte carnale della nostra
anima, ed anche in qualche modo al nostro corpo.
Questo
insieme di meraviglie è perfezionato dalla presenza, nelle connessioni
necessarie che compongono l’ordine universale, delle verità divine espresse
simbolicamente. Qui è la meraviglia delle meraviglie, come la firma segreta
dell’artista.
Si fa
doppiamente torto alla matematica quando la si considera soltanto come una
speculazione razionale e astratta. Lo è, ma è anche la scienza propria della
natura, una scienza del tutto concreta, ed è anche una mistica. Le tre cose
insieme e inseparabilmente…
(S. Weil)
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