giuliano

domenica 3 novembre 2019

L'ARMONIA DELLA MATERIA (22)



















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Imbarbarimento del Sapere (23)














Eppure la formula di Filolao è letteralmente vera. Ogni analisi serrata e rigorosa della percezione, dell’illusione, della fantasticheria, del sogno, degli stati più o meno prossimi all’allucinazione, mostra che la percezione del mondo reale differisce dagli errori che le somigliano solo perché implica un contatto con una necessità. La necessità ci appare sempre come un insieme di leggi di variazione, determinate da rapporti fissi e invarianti. La realtà per lo spirito umano non è altra cosa che il contatto con la necessità. Vi è in ciò una contraddizione, perché la necessità è intelligibile, non tangibile. Così il sentimento della realtà costituisce un’armonia e un mistero.

Ci si persuade della realtà di un oggetto facendone il giro, operazione che produce successivamente apparenze variate, determinate dalla fissità di una forma diversa da tutte le apparenze ed esteriore ad esse, trascendente rispetto ad esse. Grazie a questa operazione noi conosciamo che l’oggetto è una cosa, non un fantasma, che ha un corpo.




I rapporti di quantità che sostengono la parte di gnomone costituiscono dunque proprio il corpo dell’oggetto. Lagneau, che d’altronde ignorava senza dubbio la formula di Filolao, faceva questa analisi per mezzo di una scatola cubica. Nessuna delle apparenze della scatola ha la forma di un cubo, ma per chi gira attorno alla scatola, la forma del cubo è ciò che determina la variazione della forma apparente. Questa determinazione costituisce così bene per noi il corpo stesso dell’oggetto, che guardando la scatola noi crediamo di vedere un cubo, ciò che invece non si verifica mai. Il rapporto del cubo, che a parlare esattamente non è mai visto, con le apparenze prodotte dalla prospettiva è come il rapporto dell’asta del quadrante solare con le ombre. L’esempio del cubo è forse anche più bello. L’una e l’altra relazione possono, grazie a una trasposizione analogica, fornire la chiave di ogni conoscenza umana.

È utile meditarle indefinitamente.




La realtà dell’universo per noi non è altra cosa che la necessità, la cui struttura è quella del gnomone, sostenuta da qualche cosa. Le occorre un sostegno, perché la necessità in sé stessa è essenzialmente condizionale. Senza sostegno, essa non è che astrazione. Su un sostegno, essa costituisce la realtà stessa della creazione. Quanto al sostegno, noi non possiamo averne alcuna concezione. È ciò che i Greci chiamavano con una parola (apeiron) che vuol dire insieme illimitato e indeterminato. È ciò che Platone chiamava il ricettacolo, la matrice, il porta impronte, l’essenza che è madre di tutte le cose, e allo stesso tempo sempre intatta, sempre vergine.

L’acqua ne è la migliore immagine, perché non ha né forma né colore, benché sia visibile e tangibile. È impossibile a questo proposito non rilevare che le parole materia, madre, mare, Maria si somigliano al punto da essere quasi identiche. Questo carattere dell’acqua rende conto del suo uso simbolico nel battesimo, più che il suo potere di lavare.




Per noi la materia è semplicemente ciò che è sottoposto alla necessità. Non ne sappiamo altro. La necessità è costituita per noi da leggi quantitative di variazione nelle apparenze. Là dove non c’è quantità propriamente detta, vi è qualcosa di analogo. Una legge quantitativa di variazione è una funzione. La funzione è ciò che i Greci chiamavano numero o rapporto, arithmos o logos, ed è essa, ancora, a costituirne il limite. L’immagine più chiara della funzione è fornita dalla serie continua dei triangoli aventi gli stessi angoli. È una proporzione. È la geometria che fa apparire la nozione di funzione.

La necessità è una nemica per l’uomo finché egli pensa in prima persona. A dire il vero egli non ha con essa le tre specie di rapporti che ha con gli uomini. Nella fantasticheria e nell'esercizio del potere sociale essa sembra sua schiava. Nelle contrarietà, nelle privazioni, nelle pene, nelle sofferenze, ma soprattutto nella sventura essa appare come un padrone assoluto e brutale. Nell’azione metodica c’è un punto di equilibrio in cui la necessità, per il suo carattere condizionale, presenta nello stesso tempo all’uomo degli ostacoli e dei mezzi in rapporto con i fini parziali che egli persegue, e nel quale c’è una specie di eguaglianza fra il volere di un uomo e la necessità universale. Questo punto di equilibrio sta ai rapporti dell’uomo con il mondo come la giustizia naturale sta ai rapporti fra gli uomini; nell’organizzazione del lavoro, della tecnica e di tutta l'attività umana bisogna sforzarsi di ottenerlo il più spesso possibile.




Perché il compito proprio del legislatore è di suscitare nella vita sociale le immagini naturali delle virtù soprannaturali in tutta la misura del possibile. Questo equilibrio attivo fra l’uomo e la necessità universale, unito all’equilibrio delle forze e dei bisogni fra gli uomini, costituirebbe, se una cosa simile potesse sussistere a lungo, la felicità naturale. L’aspirazione alla felicità naturale è buona, sana e preziosa, così come per la salute di un bambino è bene che egli sia attirato verso gli alimenti dal loro sapore, sebbene la costituzione chimica e non il sapore ne costituisca la virtù.

L’esperienza e il desiderio delle gioie soprannaturali non distruggono nell’anima l’aspirazione alla felicità naturale, ma le conferiscono una pienezza di significato. La felicità naturale ha un valore autentico solo quando una gioia perfettamente pura vi si aggiunge grazie al sentimento della bellezza. Il delitto e la sventura, al contrario, ciascuno in modo diverso, ma con eguale efficacia, distruggono per sempre l’aspirazione alla felicità naturale.




L’equilibrio fra il volere umano e la necessità nell’azione metodica è soltanto un’immagine; se lo si prende per una realtà è una menzogna. In particolare, quelli che l’uomo prende per fini, sono sempre semplicemente dei mezzi. La stanchezza costringe ad accorgersi dell’illusione. Nello stato di stanchezza intensa l’uomo cessa di aderire alla propria azione e persino al proprio volere; egli si percepisce come una cosa che ne spinge altre perché spinta essa stessa da una violenza. Effettivamente la volontà umana, per quanto un certo sentimento di scelta vi sia irriducibilmente legato, è semplicemente un fenomeno tra tutti quelli che sono sottoposti alla necessità. Prova ne sia che essa comporta dei limiti.

Solo l’infinito è fuori del dominio della necessità.




Nell’universo, l’uomo non prova la necessità se non, contemporaneamente, come un ostacolo e una condizione di compimento per il suo volere; di conseguenza questa prova non è mai interamente pura dalle illusioni irriducibilmente legate all’esercizio della volontà. Per pensare la necessità in modo puro bisogna staccarla dalla materia che la sostiene e concepirla come un tessuto di condizioni legate le une alle altre. Questa necessità pura e condizionale non è altro che l’oggetto stesso della matematica e di certe operazioni del pensiero analoghe alla matematica, teoriche, pure e rigorose come quella, ma alle quali non si dà nome perché non si discernono. Contrariamente a un pregiudizio oggi abbastanza diffuso, la matematica è prima di tutto una scienza della natura; o piuttosto essa è la scienza della natura per eccellenza, la sola. Ogni altra scienza è semplicemente un’applicazione particolare della matematica.




Nella necessità, pensata così come condizionale, l’uomo non è presente a nessun titolo; non ha alcuna parte in essa al di fuori dell’operazione stessa con la quale la pensa. La facoltà da cui procede questa operazione è beninteso per essenza sottratta alla necessità, sottratta al limite e al numero. La concatenazione puramente condizionale della necessità è la concatenazione della dimostrazione stessa. Considerata in tal modo, la necessità non è più per l’uomo né un nemico né un padrone. Tuttavia essa è qualcosa di estraneo e che si impone.

La conoscenza dei fenomeni sensibili consiste unicamente nel riconoscere in essi qualche cosa di analogo a questa necessità puramente condizionale. È così anche dei fenomeni psicologici e sociali. Li si conosce in quanto vi si riconosce in modo concreto e preciso, ad ogni occasione, la presenza di una necessità analoga alla necessità matematica. Per questo i Pitagorici dicevano che non si conosce che il numero. Essi chiamavano la necessità matematica «numero» o «rapporto» (logos o logismos).




La necessità matematica è mediatrice tra tutta la parte naturale dell’uomo, che è materia corporale psichica, e la particella infinitesimale di lui che non appartiene a questo mondo. L’uomo, benché si sforzi, ma spesso vanamente, di alimentare in se stesso l’illusione contraria, è quaggiù lo schiavo delle forze della natura che lo superano infinitamente. Quella forza che governa il mondo e fa obbedire ogni uomo, come un padrone armato di una frusta fa obbedire infallibilmente uno schiavo, quella forza è la stessa cosa che lo spirito umano concepisce con il nome di necessità.




Il rapporto tra la necessità e l’intelligenza non è più il rapporto tra il padrone e lo schiavo. Non è neppure il rapporto inverso, né il rapporto tra due uomini liberi. È il rapporto tra l’oggetto contemplato e lo sguardo. La facoltà che nell’uomo guarda la forza più brutale come si guarda un quadro, chiamandola necessità, quella facoltà non è ciò che nell’uomo appartiene all’altro mondo. Essa è alla intersezione dei due mondi. La facoltà che non appartiene a questo mondo è quella del consenso. L’uomo è libero di consentire o no alla necessità. Questa libertà non è attuale in lui se non quando egli concepisca la forza come necessità, vale a dire quando la contempli. Egli non è libero di consentire alla forza come tale. Lo schiavo che vede la frusta levarsi su di lui non consente. Non rifiuta il suo consenso, trema. Eppure sotto il nome di necessità, proprio alla forza brutale consente l’uomo quando consente, proprio alla frusta. Nessun movente, nessun motivo può essere sufficiente per un tale consenso. Questo consenso è una follia, la follia propria dell’uomo, come la Creazione, l’Incarnazione, la Passione costituiscono insieme la follia propria di Dio.




Le due follie si rispondono.

Non è sorprendente che questo mondo sia per eccellenza il luogo della sventura, perché senza la sventura perpetuamente sospesa, nessuna follia da parte dell'uomo potrebbe fare eco a quella di Dio, che è già contenuta tutta intera nell’atto di creare. Perché, creando, Dio rinuncia a essere tutto, abbandona un po’ di essere a ciò che è altro da lui. La creazione è rinuncia per amore. La vera risposta all’eccesso dell’amore divino non consiste nell’infliggersi volontariamente delle sofferenze, perché la sofferenza che si infligge a se stessi, per quanto intensa, lunga, violenta, non è distruttrice. Non è in potere di un essere distruggere se stesso. La vera risposta consiste soltanto nell’accettare la possibilità di essere distrutto, vale a dire la possibilità della sventura, sia che questa si produca effettivamente o no. Non ci si infligge mai la sventura, né per amore né per perversità. Tutt'al più si può, sotto l’una o l’altra ispirazione, fare distrattamente e come a propria insaputa due o tre passi che portano al punto sdrucciolevole, dove si diviene preda della forza di gravità, e da dove si cade su pietre che spezzano le reni.




Il consenso alla necessità è puro amore ed anche, in qualche modo, eccesso d’amore. Questo amore non ha per oggetto la necessità in sé, né il mondo visibile di cui essa costituisce la stoffa. Non è in potere dell’uomo amare la materia come tale. Quando un uomo ama un oggetto è perché vi colloca con il pensiero una porzione della sua vita passata, talora anche un futuro desiderato, oppure perché questo oggetto ha rapporto con un altro essere umano. Si ama un oggetto che è il ricordo di un essere amato, un’opera d’arte che è il lavoro di un uomo di genio.

L’universo è per noi un ricordo; ricordo di quale essere amato?

L’universo è un’opera d’arte; quale artista ne è l’autore?




Non possediamo risposte a queste domande. Ma quando l’amore da cui procede il consenso alla necessità esiste in noi, possediamo la prova sperimentale che c’è una risposta. Perché non per amore degli altri uomini noi consentiamo alla necessità. L’amore degli altri uomini è in un certo senso un ostacolo a questo consenso, poiché la necessità schiaccia gli altri come noi stessi. È per amore di qualcosa che non è una persona umana, e che tuttavia è qualcosa come una persona. Perché ciò che non è qualcosa come una persona non è oggetto d’amore. Qualunque sia la credenza professata a proposito delle cose religiose, compreso l’ateismo, là ove il consenso alla necessità è completo, autentico e incondizionato, vi è la pienezza dell’amore di Dio; e in nessun altro luogo. Questo consenso costituisce la partecipazione alla croce del Cristo…

…L’ordine è equilibrio e immobilità.

L’universo sottoposto al tempo è in perpetuo divenire.




L’energia che lo muove è principio di rottura di equilibrio. Ma tuttavia questo divenire, composto di rotture di equilibrio, è in realtà un equilibrio per il fatto che le rotture di equilibrio vi si compensano. Questo divenire è un equilibrio rifratto nel tempo. Questo esprime la prodigiosa formula di Anassimandro, formula di una profondità insondabile:

«Proprio a partire dall’indeterminazione si compie la nascita delle cose, proprio per un ritorno all’indeterminazione si opera la loro distruzione conformemente alla necessità; poiché esse subiscono un castigo e un’espiazione le une da parte delle altre, causa la loro ingiustizia, secondo l’ordine del tempo».

Considerato in sé stesso, ogni cambiamento, e di conseguenza ogni fenomeno, per quanto piccolo sia, contiene il principio della distruzione dell’ordine universale. Al contrario, considerato nella sua connessione con tutti i fenomeni contenuti nella totalità dello spazio e del tempo, connessione che gli impone un limite e lo pone in rapporto con una rottura di equilibrio eguale e inversa, ogni fenomeno contiene in sé stesso la presenza totale dell’ordine del mondo.




Poiché la necessità è mediatrice fra la materia e Dio, noi concepiamo la volontà di Dio come avente due rapporti differenti con la necessità e con la materia. Questa differenza è espressa, per l’immaginazione umana, in maniera irrimediabilmente difettosa, con il mito del caos primitivo, nel quale Dio stabilisce un ordine, mito che si è a torto rimproverato alla saggezza antica, e che si trova indicato anche nel Genesi. Un’altra maniera di indicare questa differenza è di riferire particolarmente la necessità alla seconda Persona della Trinità considerata sia come ordinatrice sia come Anima del mondo. L’Anima del mondo non è altra cosa che l’ordine del mondo concepito come una persona…




Di fatto, il mondo è bello. Quando siamo soli in piena natura e disposti all’attenzione, qualcosa ci porta ad amare ciò che ci circonda, e che pure non è fatto che di materia bruta, inerte, muta e sorda. E la bellezza ci tocca tanto più vivamente quanto più la necessità vi appare in maniera manifesta, per esempio nelle pieghe che la forza di gravità imprime alle montagne o ai flutti del mare, nel corso degli astri. Anche nella matematica pura la necessità risplende di bellezza. Senza dubbio l’essenza stessa del sentimento della bellezza è il sentimento che questa necessità, di cui una delle facce è costrizione brutale, ha per altra faccia l’obbedienza a Dio. Per effetto di una misericordia provvidenziale questa verità è resa sensibile alla parte carnale della nostra anima, ed anche in qualche modo al nostro corpo.
Questo insieme di meraviglie è perfezionato dalla presenza, nelle connessioni necessarie che compongono l’ordine universale, delle verità divine espresse simbolicamente. Qui è la meraviglia delle meraviglie, come la firma segreta dell’artista.
Si fa doppiamente torto alla matematica quando la si considera soltanto come una speculazione razionale e astratta. Lo è, ma è anche la scienza propria della natura, una scienza del tutto concreta, ed è anche una mistica. Le tre cose insieme e inseparabilmente…

(S. Weil)













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