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L'antologia del fu spugna senza più River (11)
Quanto alla
tesi del golpe, un briciolo di buon senso sarebbe sufficiente a ricordare che
chi fa affermazioni così devastanti dovrebbe adempiere all’onore di supportarle
con fatti. Rimane il fatto che in quella vicenda gli esiti delle indagini
furono diversi da quelli di procedimenti anteriori e successivi, pur talvolta
condotti dalle stesse persone fisiche, con uguale determinazione.
La restaurazione:
In realtà
il sistema politico (della pratica circa la diffusa istituzionalizzata
corruzione di stato) si è rapidamente ricomposto in forme nuove, continuando
tuttavia a calpestare sia la volontà dell’opinione pubblica (ad esempio
aggirando l’esito del referendum sull’abrogazione del finanziamento pubblico
dei partiti politici, che oggi ottengono dallo Stato più denaro di prima del
referendum, giustificato come rimborsi per spese elettorali) che le esigenze,
imposte anche da istanze internazionali (Onu, Consiglio d’Europa, Unione
europea, Fondo monetario internazionale, Ocse), di ridare legalità e
trasparenza alle istituzioni e al mercato.
Da
allora (e fino a non molto tempo fa) è invece stato avviato un tentativo di restaurazione,
che ha ottenuto il duplice risultato di far crollare il numero delle condanne
per corruzione e di far precipitare l’Italia, negli indici della corruzione
percepita, al penultimo posto (nel senso degli ultimi della classe) nel mondo
occidentale, dietro molti paesi africani e asiatici.
Il numero di condanne per corruzione, ridotto a un decimo di quello dei primi anni Duemila, non appare dunque frutto di una riduzione della corruzione, ma della difficoltà a fronteggiarla. Il clima in cui da anni operano i magistrati (attaccati da ogni parte e perennemente minacciati di riforme volte a ridurre la loro indipendenza e la loro possibilità di azione) e lo sfascio della giustizia non impedito e talora accentuato da parte delle maggioranze parlamentari che si sono trasversalmente avvicendate in questi cinque lustri, spiegano sia le maggiori difficoltà delle indagini che l’esito negativo dei processi, sempre più spesso conclusi con pronunzie di prescrizione.
Non
ci si deve quindi stupire se la corruzione è probabilmente aumentata e, se mai, ci si deve
domandare perché questi reati dovrebbero emergere in procedimenti giudiziari. La
normativa sulla corruzione, per il numero e la frammentazione delle fattispecie,
consente di inquinare agevolmente le prove: basta un’occhiata d’intesa fra due
soggetti per passare, con lievi modifiche delle dichiarazioni, dalla concussione
alla corruzione, dalla corruzione propria a quella impropria, con rilevanti
effetti sia sulla pena che sulla prescrizione.
Inoltre la
serialità e diffusività di questi reati integra pressoché sempre il pericolo di
reiterazione dei reati. L’esperienza insegna anche che questo pericolo non
viene meno neppure con l’allontanamento dei corrotti da incarichi pubblici,
perché li si ritrova di lì a poco a svolgere il ruolo di intermediari fra i
vecchi complici non scoperti.
In un
interrogatorio reso nel 1992, una persona sottoposta a indagini, riferendo di
appalti relativi a un importante ente pubblico a livello nazionale, dichiarò
che esisteva un cartello di circa duecento imprese che si spartivano tali
appalti, che si pagava praticamente chiunque, sia con riferimento alla
struttura dell’ente sia ai segretari amministrativi dei partiti di maggioranza
e dei principali partiti di opposizione, e che ciò è standardizzato da almeno
vent’anni.
Essendo questo il quadro, secondo le regole del codice di procedura penale, nessuno dei soggetti che delinquono da anni, inseriti in un contesto criminale e criminogeno, dovrebbe essere in stato di libertà.
Ma le
campagne mediatiche contro le presunte manette facili (chissà perché riferite
solo ai crimini dei colletti bianchi e non, ad esempio, agli scippatori) hanno
sortito effetto: oggi i magistrati arrestano molto meno per questi reati e
comunque si ricorre la maggior parte delle volte agli arresti domiciliari,
anziché alla custodia in carcere, con il risultato che molte indagini vengono
irrimediabilmente inquinate.
Gli
indagati, anche quando fingono di collaborare, confessano solo quel che non
possono negare o che immaginano sarà comunque provato e lo raccontano a modo
loro, spesso dopo aver concordato versioni di comodo con i complici e
ritagliando spazi di omertà da far valere per assicurarsi un futuro politico ed
economico basato sulla capacità di ricatto acquisita con il silenzio mantenuto.
L’unica
spinta di segno contrario alla protezione della corruzione proviene infatti
dalle istanze internazionali.
Oggi, come nel 1992:
Per
l’insipienza di chi li sferrava, gli attacchi hanno investito non solo i magistrati
del pubblico ministero, ma anche tutti i giudici di ogni grado, fino alle
Sezioni unite della Corte suprema di cassazione, così ottenendo il risultato di
tenere uniti i magistrati.
Il fatto che in tutta Italia ci siano ancora inchieste e processi sui reati della classe dirigente, nati quasi sempre da iniziative giudiziarie e quasi mai dalle forze di polizia (che non hanno le guarentigie di indipendenza dal potere politico che tutelano i magistrati, sicché tale iniziativa non è da loro esigibile), è segno che la magistratura è riuscita a conservare la sua indipendenza.
La crisi
economica che oggi, come nel 1992, grava sul paese probabilmente ridarà slancio
a iniziative serie per ridurre la corruzione e di conseguenza a una repressione
più incisiva. Tuttavia tanti anni sono passati invano ed è necessario
ricominciare dall’inizio a fronteggiare questi fenomeni, che contribuiscono a
rendere l’Italia poco efficiente e poco credibile sul piano internazionale, per
l’ingente sperpero di risorse pubbliche, i tempi biblici per la realizzazione
di opere pubbliche e la scarsa qualità dei beni e servizi acquistati dalle
pubbliche amministrazioni, quantomeno sotto il profilo qualità-prezzo.
Oggi peggio di allora, infatti, accanto ai delitti commessi emerge con nitore l’incapacità (se non peggio) della classe dirigente di questo paese di creare le condizioni perché si possa vivere secondo le regole comunemente accettate del mondo occidentale, del quale dichiariamo di voler far parte.
(P. Davigo)
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